Quando uscì nel 2013 il libro di
Thomas Piketty Il Capitale nel XXI secolo, fu generalmente accolto con
un certo sufficiente scetticismo che, va detto, influì anche sul livello della
mia attenzione. L’uscita quest’anno della sua nuova opera (la continuazione del
suo precedente lavoro, egli afferma) è l’occasione per farsi quell’opinione che
latitò nella prima occasione. Capitale e ideologia (La Nave di Teseo Ed.
2020, pagg. 1176) è un’opera di proporzioni enormi che per la sua fattura ha
richiesto i contributi di numerosi e accreditati studi specialistici di natura
storica, economica, culturale, demografica, religiosa e, genericamente
antropologica. Va però detto che la “seconda mano” non poteva nuocere per
niente al lavoro tenuto conto di quale era l’obiettivo che si proponeva
l’autore. La prospettiva è di ordine conoscitivo attraverso l’analisi di alcuni
temi definiti un poco categoricamente: la disuguaglianza sociale, gli ordini
sociali storici che preludono a quelli attuali, l’analisi dei vari campi
ideologici (con una definizione generica ma operativamente condivisibile) e, infine,
alcune proposte di natura politica per riparare a guasti clamorosi delle
attuali forme di diseguaglianza. Le quali, nel processo di globalizzazione, ha
diminuito la distanza del reddito tra i ceti più deboli e quello che si
chiamava ceto medio, ma ha aumentato in maniera vistosissima la diseguaglianza
tra le classi sociali medie e quelle che, al tempo felice di Veblen, erano
chiamate come “classe agiata”. Questo privilegio di parte non solo delle
pluralità di forme del capitale (poniamo: fondiario – che esiste ancora – e
finanziario) ma anche dei ceti della gestione del capitale stesso e delle
modalità sociali ad essa connesse. Fondamentale il quadro ideologico, tuttavia,
forse, una attenzione particolare sarebbe stata utile anche al processo mercantile
del consumo che avrebbe svelato alcune caratteristiche delle modalità
produttive e distributive.Va aggiunto,
per non portare involontariamente il lettore fuori strada, che l’autore è
sempre profondamente fedele ai dati statistici (che consentono di misurare la
quantità nella dimensione del tempo, e trarne le conclusioni). Non esiste
nessuna categoria storica che venga costruita attraverso un puro e semplice
gioco concettuale. Per fare riferimento a tradizioni filosofiche ben note, non
c’è alcun “oggetto teorico”, il capitale, le sue forme di impiego produttivo
con i suoi effetti economici e sociali, che si presenti all’analisi senza
essere costruito con un criterio quantitativo. Anche se è d’obbligo aggiungere
che la quantità e le sue modalità derivate, è pure circoscritta da categorie di
ordine teorico. Il che ha un senso preciso nelle attuali condizioni
dell’analisi socio-economica.
T. Veblen
La stessa conflittualità politica viene costruita
nel gioco competitivo contingente che hanno le forze sociali, nel luogo e nel
modo in cui si manifestano. Si potrebbe dire che sullo sfondo vi è un
riferimento marxiano (Marx è citato più volte) senza che esso possa assumere,
secondo un’assoluta linearità storica, alcuna risolutiva dimensione dialettica.
L’autore dà certamente per ovvia il declino definitivo di questa forma di
pensiero. Ci direbbe, una volta di più, che il capitalismo, con i potenti
sistemi di poteri centrali, periferici e popolari, può avere crisi ben più
gravi di quelle cicliche ottocentesche, e pure non apre mai verso forme diverse
di produzione (anche se esse vengono pensate e in qualche caso marginale
persino realizzate). In questo quadro una politica socialista non può che
essere l’addomesticamento sociale degli spontanei effetti economici e la difesa
della priorità di alcune finalità nei confronti della misura del profitto che è
propria di un assoluto mercato economico. Nel libro di Piketty gli elementi
dominanti “la spinta del capitalismo” sono due: la proprietà (e qui mi pare un
eco di Proudhon) e la diseguaglianza (e qui viene in mente necessariamente
Rousseau).
L’ideologia (non è affatto la forma repressiva dello Stato di
Althusser), ma più concretamente, la forma ideale che rende visibile (e
accettabile) la diseguaglianza in qualsiasi sistema sociale. Ma l’ideologia si
presenta tramite modalità sociali che vanno dalle forme condivise di coazione
collettive alle modalità di accessione al mercato, agli stili pubblici della
identità, alla formazione stessa dell’inconscio personale (gli psicanalisti sul
campo hanno a che vedere con altri fantasmi rispetto all’antico europeocomplesso edipico). E qui penso che il
parlare di ideologia, doveva almeno sfiorare questi temi, secondo quella
pluridisciplinarità che pure l’autore ritiene indispensabile (e che Sartre
aveva rivendicato nel ’57 nelle famose Questioni di metodo contro i
“marxisti” francesi dalla testa dura). Questo rapporto tra accettazione della
diseguaglianza e ideologia, un poco paradossalmente, come nel Medio Evo può
anche dare luogo a rivolte ma non a rivoluzioni che possano rifondare il
processo storico ed economico. Poiché il grandissimo storico Cardini sostiene
che il giudizio si fa proprio con i se e con i ma, userò anch’io
questo criterio.
Cosa sarebbe accaduto in Russia se la “Nuova Politica
Economica” avesse proseguito il suo corso? Se le stragi di Stalin del ’37,
parallele all’incremento forzoso dell’industria pesante, non fossero accadute?
Avremmo avuto un’altra forma economica rispetto al neo-liberismo? Oppure l’Urss
sarebbe stata impotente e distrutta dalla furia criminale di Hitler che
sosteneva l’espansione ad Est della Germania? Nel nostro mondo Piketty probabilmente accetterebbe la
formulazione socialdemocratica che, tra le righe, ho proposto, almeno come idea
storica. L’autore a questo proposito indica due linee parallele che contrastano
il dominio del denaro. L’una è la tassazione progressiva dei redditi (che è nella
nostra Costituzione) ma qui va detto che un’iniziativa sarebbe possibile solo,
data la pluralità di propositi che essa richiede, da parte di una classe
politica che assomigli un po’ all’Assemblea del Terzo Stato piuttosto che
all’approssimazione pubblicitaria. Secondo punto, persino più grave, il dominio
che i poteri delle Corporations internazionali di fatto esercitano su residui
storici molto fragili, quali sono certamente ormai alcuni stati europei. Il
discorso di Piketty diventa un’analisi politica.
T. Piketty
Un secondo tema del nostro autore contro la proprietà e per la
giustizia, è l’istituzione di una patrimoniale. Ma qui sarebbe necessario
stabilire che cosa è un “patrimonio” dopo che per quasi mezzo secolo è
aumentata la polverizzazione della ricchezza privata, mentre è aumentato (con
colpe ben precise) il debito pubblico. Sono considerazioni molto generiche che
andrebbero quantificate. Non vorrei che la patrimoniale fosse in concreto un
reperto ideologico. Ho seguito l’autore con una esposizione critica: aggiungerò
che è indispensabile una conoscenza chiara dei poteri e dei loro interessati
intrighi e connessioni. Se si considera che questo è un tema centrale di
Piketty,i problemi si complicano.