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venerdì 2 ottobre 2020

CAPITALE E IDEOLOGIA
di Fulvio Papi

Thomas Piketty

Quando uscì nel 2013 il libro di Thomas Piketty Il Capitale nel XXI secolo, fu generalmente accolto con un certo sufficiente scetticismo che, va detto, influì anche sul livello della mia attenzione. L’uscita quest’anno della sua nuova opera (la continuazione del suo precedente lavoro, egli afferma) è l’occasione per farsi quell’opinione che latitò nella prima occasione. Capitale e ideologia (La Nave di Teseo Ed. 2020, pagg. 1176) è un’opera di proporzioni enormi che per la sua fattura ha richiesto i contributi di numerosi e accreditati studi specialistici di natura storica, economica, culturale, demografica, religiosa e, genericamente antropologica. Va però detto che la “seconda mano” non poteva nuocere per niente al lavoro tenuto conto di quale era l’obiettivo che si proponeva l’autore. La prospettiva è di ordine conoscitivo attraverso l’analisi di alcuni temi definiti un poco categoricamente: la disuguaglianza sociale, gli ordini sociali storici che preludono a quelli attuali, l’analisi dei vari campi ideologici (con una definizione generica ma operativamente condivisibile) e, infine, alcune proposte di natura politica per riparare a guasti clamorosi delle attuali forme di diseguaglianza. Le quali, nel processo di globalizzazione, ha diminuito la distanza del reddito tra i ceti più deboli e quello che si chiamava ceto medio, ma ha aumentato in maniera vistosissima la diseguaglianza tra le classi sociali medie e quelle che, al tempo felice di Veblen, erano chiamate come “classe agiata”. Questo privilegio di parte non solo delle pluralità di forme del capitale (poniamo: fondiario – che esiste ancora – e finanziario) ma anche dei ceti della gestione del capitale stesso e delle modalità sociali ad essa connesse. Fondamentale il quadro ideologico, tuttavia, forse, una attenzione particolare sarebbe stata utile anche al processo mercantile del consumo che avrebbe svelato alcune caratteristiche delle modalità produttive e distributive.  Va aggiunto, per non portare involontariamente il lettore fuori strada, che l’autore è sempre profondamente fedele ai dati statistici (che consentono di misurare la quantità nella dimensione del tempo, e trarne le conclusioni). Non esiste nessuna categoria storica che venga costruita attraverso un puro e semplice gioco concettuale. Per fare riferimento a tradizioni filosofiche ben note, non c’è alcun “oggetto teorico”, il capitale, le sue forme di impiego produttivo con i suoi effetti economici e sociali, che si presenti all’analisi senza essere costruito con un criterio quantitativo. Anche se è d’obbligo aggiungere che la quantità e le sue modalità derivate, è pure circoscritta da categorie di ordine teorico. Il che ha un senso preciso nelle attuali condizioni dell’analisi socio-economica. 


T. Veblen

La stessa conflittualità politica viene costruita nel gioco competitivo contingente che hanno le forze sociali, nel luogo e nel modo in cui si manifestano. Si potrebbe dire che sullo sfondo vi è un riferimento marxiano (Marx è citato più volte) senza che esso possa assumere, secondo un’assoluta linearità storica, alcuna risolutiva dimensione dialettica. L’autore dà certamente per ovvia il declino definitivo di questa forma di pensiero. Ci direbbe, una volta di più, che il capitalismo, con i potenti sistemi di poteri centrali, periferici e popolari, può avere crisi ben più gravi di quelle cicliche ottocentesche, e pure non apre mai verso forme diverse di produzione (anche se esse vengono pensate e in qualche caso marginale persino realizzate). In questo quadro una politica socialista non può che essere l’addomesticamento sociale degli spontanei effetti economici e la difesa della priorità di alcune finalità nei confronti della misura del profitto che è propria di un assoluto mercato economico. Nel libro di Piketty gli elementi dominanti “la spinta del capitalismo” sono due: la proprietà (e qui mi pare un eco di Proudhon) e la diseguaglianza (e qui viene in mente necessariamente Rousseau). 



L’ideologia (non è affatto la forma repressiva dello Stato di Althusser), ma più concretamente, la forma ideale che rende visibile (e accettabile) la diseguaglianza in qualsiasi sistema sociale. Ma l’ideologia si presenta tramite modalità sociali che vanno dalle forme condivise di coazione collettive alle modalità di accessione al mercato, agli stili pubblici della identità, alla formazione stessa dell’inconscio personale (gli psicanalisti sul campo hanno a che vedere con altri fantasmi rispetto all’antico europeo   complesso edipico). E qui penso che il parlare di ideologia, doveva almeno sfiorare questi temi, secondo quella pluridisciplinarità che pure l’autore ritiene indispensabile (e che Sartre aveva rivendicato nel ’57 nelle famose Questioni di metodo contro i “marxisti” francesi dalla testa dura). Questo rapporto tra accettazione della diseguaglianza e ideologia, un poco paradossalmente, come nel Medio Evo può anche dare luogo a rivolte ma non a rivoluzioni che possano rifondare il processo storico ed economico. Poiché il grandissimo storico Cardini sostiene che il giudizio si fa proprio con i se e con i ma, userò anch’io questo criterio. 



Cosa sarebbe accaduto in Russia se la “Nuova Politica Economica” avesse proseguito il suo corso? Se le stragi di Stalin del ’37, parallele all’incremento forzoso dell’industria pesante, non fossero accadute? Avremmo avuto un’altra forma economica rispetto al neo-liberismo? Oppure l’Urss sarebbe stata impotente e distrutta dalla furia criminale di Hitler che sosteneva l’espansione ad Est della Germania?
Nel nostro mondo Piketty probabilmente accetterebbe la formulazione socialdemocratica che, tra le righe, ho proposto, almeno come idea storica. L’autore a questo proposito indica due linee parallele che contrastano il dominio del denaro. L’una è la tassazione progressiva dei redditi (che è nella nostra Costituzione) ma qui va detto che un’iniziativa sarebbe possibile solo, data la pluralità di propositi che essa richiede, da parte di una classe politica che assomigli un po’ all’Assemblea del Terzo Stato piuttosto che all’approssimazione pubblicitaria. Secondo punto, persino più grave, il dominio che i poteri delle Corporations internazionali di fatto esercitano su residui storici molto fragili, quali sono certamente ormai alcuni stati europei. Il discorso di Piketty diventa un’analisi politica.


T. Piketty

Un secondo tema del nostro autore contro la proprietà e per la giustizia, è l’istituzione di una patrimoniale. Ma qui sarebbe necessario stabilire che cosa è un “patrimonio” dopo che per quasi mezzo secolo è aumentata la polverizzazione della ricchezza privata, mentre è aumentato (con colpe ben precise) il debito pubblico. Sono considerazioni molto generiche che andrebbero quantificate. Non vorrei che la patrimoniale fosse in concreto un reperto ideologico. Ho seguito l’autore con una esposizione critica: aggiungerò che è indispensabile una conoscenza chiara dei poteri e dei loro interessati intrighi e connessioni. Se si considera che questo è un tema centrale di Piketty,  i problemi si complicano.