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lunedì 5 ottobre 2020

DANTESCA
di Franco Toscani


4. La superbia e il pudore di Dante
 
Dante non si limita a deprecare la superbia, non la contempla dall'esterno, non è estraneo ad essa, ma si sente egli stesso parte in causa, coinvolto in questo peccato. La superbia dell'ingegno e dell'arte, il desiderio di primeggiare che si manifesta in Oderisi da Gubbio concerne direttamente anche il grande autore della Commedia, che accenna in vari luoghi del poema alla sua personale superbia; "ascoltando chinai in giù la faccia" (Purgatorio, XI, 73), dice infatti, avvertendosi anch'egli - come Oderisi - colpevole del medesimo peccato, "per lo gran disio/ de l'eccellenza ove mio core intese" (Purgatorio, XI, 86-87). Colpisce qui il pudore di Dante, che si manifesta pure in non poche altre occasioni nel poema.
Anche ai superbi è però sempre data la possibilità del pentimento, del sincero ravvedimento, del riconoscimento pieno delle proprie colpe e dei propri errori. Ed è questo il percorso a cui Dante invita tutti i mortali, nessuno dei quali è esente dai mali e dalle negligenze, ma a cui è sempre aperta la possibilità di un riscatto, di una ripresa, di un rinnovato processo di umanizzazione.
All'inizio del Canto XI (Purgatorio, XI, 1-24), la preghiera corale dei superbi, come ampia parafrasi del Pater noster, non è infatti solo in lode e a invocazione di Dio (che sta nei cieli perché "da nulla è limitato", come leggiamo nel Convivio, IV, IX, 3 e perché "tutto circunscrive", Paradiso, XIV, 30) ma è finalizzata alla riscoperta dell'umiltà e alla riconciliazione col prossimo. La preghiera, come "buona ramogna", sembra avere il senso di un augurio di buona felicità nel viaggio ed è rivolta esplicitamente a chi rimane sulla terra bisognoso di elevazione (cfr. Purgatorio, XI, 22-25).
Nel Canto XI l'autore riflette poeticamente da par suo sulla profonda vanitas della fama umana, il "mondan romore": "Non è il mondan romore altro ch'un fiato/ di vento, ch'or vien quinci e or vien quindi,/ e muta nome perché muta lato./ Che voce avrai tu più, se vecchia scindi/ da te la carne, che se fossi morto/ anzi che tu lasciassi il 'pappo' e il 'dindi',/ pria che passin mill'anni? ch'è più corto/ spazio a l'etterno, ch'un muover di ciglia/ al cerchio che più tardi in cielo è torto" (Purgatorio, XI, 100-108).
La riflessione dantesca sulla brevitas, fragilità e finitezza della vita umana fa tutt'uno con un acuto senso del tempo, del suo carattere abissale e vertiginoso. Rispetto all'abisso e alla vertigine del tempo, di fronte all' "etterno", rispetto al tempo che il cielo delle stelle fisse impiega per compiere la sua rivoluzione, le credenze individuali nell'immortalità della fama umana sono davvero ben misera cosa, un nulla; sono come il verde dell'erba, che dura ben poco: "La vostra nominanza è color d'erba,/ che viene e va, e quei la discolora/ per cui ella esce de la terra acerba" (Purgatorio, XI, 115-117). Come il sole fa crescere e fiorire l'erba per poi farla rapidamente appassire e inaridire, così il tempo partorisce la fama degli uomini e altrettanto rapidamente la cancella.
L'immagine è tratta da un grande tema biblico e dal linguaggio delle Scritture. Si pensi soprattutto a Isaia, 40, 6-7: "Ogni uomo è come l'erba/ e tutta la sua grazia è come un fiore del campo./ Secca l'erba, il fiore appassisce/ quando soffia su di essi il vento del Signore./ Veramente il popolo è come l'erba"; a Salmi, 90, 5-6: "Tu li sommergi:/ sono come un sogno al mattino,/ come l'erba che germoglia,/ alla sera è falciata e secca"; alla Lettera di Giacomo, 1, 9-11: "Il fratello di umili condizioni sia fiero di essere innalzato, il ricco, invece, di essere abbassato, perché come fiore d'erba passerà. Si leva il sole col suo ardore e fa seccare l'erba e il suo fiore cade, e la bellezza del suo aspetto svanisce. Così anche il ricco nelle sue imprese appassirà".
Tale consapevolezza, tale discorso vero e lucido non è in Dante sterilmente nichilistico e non induce alla rassegnazione, ma invita lo stesso poeta - come tutti - alla liberazione dal "gran tumor" della superbia, dalla "grande gonfiezza di ventosa gloria" (come dice ottimamente nel suo commento Alessandro Vellutello ) e a ritrovare "bona umiltà", una giusta umiltà (cfr. Purgatorio, XI, 118-119).
In precedenza abbiamo fatto già riferimento al personale travaglio di Dante in tema di superbia (circa la superbia dell'ingegno e del valore, nel suo caso particolare del letterato e del dotto); ebbene, questo coinvolgimento personale così intensamente avvertito, questa difficile resa dei conti con la superbia determinata dall' "altezza d'ingegno" e dalla "nobiltà di sangue", questa forte e sofferta tensione autocritica (cfr. anche Purgatorio, XIII, 136-138) non fanno che rendere ancora più valida e preziosa la testimonianza dell'autore della Commedia su questo nodo decisivo.
In generale, nella visione di Dante, la giustizia e la misericordia divine sono pronte a salvare quegli uomini che, con un pentimento sincero e con l'avvio di un'opera buona, rinnovano praticamente il senso della loro vita.