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sabato 31 ottobre 2020

IL RITORNO DEL VUOTO
di Angelo Gaccione


 Edvard Munch
Skrik


Forse ci eravamo illusi troppo presto. Forse era talmente inconcepibile il vuoto fisico ed esistenziale in cui ciascuno di noi era piombato nei mesi di segregazione dovuta ad una pandemia che ci aveva presi a tradimento, deprivandoci di contatti fisici, di relazioni affettive, di dialogo diretto, di confronto, di visioni rassicuranti di volti e di luoghi, da non poter più tollerare questa dismisura. L’avevamo rimosso quel vuoto, tanto da non volerlo più accettare neppure col pensiero. Bergamo, Roma, Milano… la loro silente immota bellezza aveva fatto da contrappunto al silenzio attonito che la morte portava negli ospedali e nelle case; al requiem dei motori dei camion militari carichi di bare che si avviavano mesti verso i forni crematori. Ho ancora davanti a me gli angoli più amati di Milano immersi in un vuoto attonito, avvolti da un silenzio spettrale. Com’era vuota Piazza Santo Stefano, com’era vuota Via Festa del Perdono con la bella facciata di cotto rosso dell’Università Statale a me tanto cara; com’era vuoto il giardino dedicato a Camilla Cederna che gli sta davanti, soltanto qualche mese prima pieni di vita, di voci, di corpi. I portoni sbarrati, i cortili muti, i balconi serrati. Avevo trasgredito alle norme perché mi era divenuto intollerabile non vedere svettare almeno per pochi minuti il Campanile di San Gottardo, il fluire inarrestabile in Galleria, i fianchi della Cattedrale. E che colpo al cuore avevo avuto giungendo in Piazza Fontana! Pareva che un’altra disumana strage l’avesse colpita come cinquant’anni prima, e tutta la città ne fosse rimasta annichilita. Avevo capito che è il silenzio innaturale a creare il vuoto, e in contraddizione con ogni legge fisica, il vuoto esisteva, si faceva concreto, ti inghiottiva. Per un attimo mi era balenato davanti il dipinto di Munch, quell’urlo strozzato in gola, e avevo avuto anch’io voglia di gridare per frantumare quel vuoto; perché l’incantesimo che aveva paralizzato ogni cosa, l’oblio che aveva avvolto e addormentato la città si sciogliesse d’un tratto, e tutto riprendesse vita come avviene nelle fiabe. Un vuoto esistenziale profondo che si era andato formando nelle nostre anime e che con fatica stavamo tentando di colmare. Avremmo avuto bisogno di altro tempo, di molto più tempo, per potercene liberare. Ma non ne è stato concesso abbastanza alla nostra imprudenza. Al nostro sfrenato bisogno di vivere, come recita il verso di un poeta, la morte torna ad opporre il suo argine, le sue solide catene. Forse ci eravamo illusi troppo presto, forse abbiamo esagerato con la nostra impudente baldanza, e ora il vuoto ci minaccia di nuovo, sta inesorabilmente tornando. E con esso la mia malinconia, la mia nostalgia ferita.