Non
starò certo a soffermarmi sulla storia, mille volte ripercorsa, e da Liliana
Segre stessa in più modi encomiabilmente rievocata. Tra quanto ho letto rinvio
in modo particolare alla sua testimonianza raccolta da Daniela Padoan in Come
una rana d’inverno (edita con una Presentazione di Furio Colombo da
Bompiani nel 2004); e a La memoria rende liberi. La vita interrotta di una
bambina nella Shoah (con Introduzione di Enrico Mentana, Rizzoli 2015). Sulla
sua notorietà non c’è però da giurare: certo il suo nome, le sue vicende, sono
noti e scontati; ma solo in certi ambienti. Magari lo fossero dovunque. C’è
qualcosa in questo recente Ho scelto la vita che di nuovo prende (e
tanto più ha preso nella sua diffusione televisiva), e ripropone impressioni,
conferme - e interrogativi. Soprattutto rinnova quello stupore cui “è terribile
essere così poco inclini” nell’oggi (come leggiamo Nel castello di Barbablù
di George Steiner): lo stupore bandito dai totalitarismi, e su cui mi hanno reso
più attento le letture di Vasilij Grossman e Imre Kertész. Non
ho mai conosciuto personalmente Liliana Segre. L’ho incontrata solo due volte, tralasciando
ovviamente gli innumerevoli incontri virtuali alla televisione, sui giornali,
nei libri. La seconda volta è stato alla Casa della Cultura, dove presentava,
con Mentana, La memoria rende liberi, appunto. Sulla prima tornerò tra
poco. In
generale danno da pensare i diversi modi, e le diverse tonalità affettive, in
cui gli ebrei vivono la Shoah, tra denuncia, oblio, latente rivendicazione. Ancor
più mi hanno offerto materia di riflessione le differenti modalità,
sorprendenti a volte, in cui i sopravvissuti si sono rapportati alla propria
terribile vicenda. Qualcuno
ha riabbracciato quelle forme di “liberalismo” che la Shoah aveva duramente
contraddetto, ne sia stato sia pur indirettamente colpito, o abbia potuto
rifugiarsi altrove. Negli anni immediatamente successivi alla guerra, la voglia
di vivere, la necessità di ricostruirsi una vita, in Israele o altrove, ha
indotto a una forma di rimozione del passato, ha messo a tacere ogni esplicita
rivalsa. Altro sul momento contava. Resto tuttavia convinto che in ogni uomo di
coscienza, e in modo assolutamente particolare in ogni ebreo, la Shoah sia
rimasta nel sangue, come si dice. È rimasto incomprensibile per me che qualcuno
riabbracciasse modi di pensare che credevo la storia avesse messo fuori
circuito. Non ho mai creduto a chi sembrava non attribuire gran peso al proprio
essere ebreo, poco o nulla leggeva delle testimonianze dei sopravvissuti, non gradiva
se ne parlasse: per necessità di sopravvivenza immagino, per il desiderio di
sentirsi accettato, di poter ritrovare un posto nella società, un’accogliente
rispettabilità. E anche per la sconcertante complessità della situazione
storico-politica in cui si è trovato a vivere dopo la guerra. Ogni
ebreo in cuor suo deve esser stato sconvolto dalla indifferenza che troppi
hanno coltivato in sé e diffuso nei confronti del destino di propri simili - eufemisticamente simili, dato che alla radice di ogni razzismo (e di certo
“cristianesimo” che lo assecondò) sta la violenta accentuazione della diversità.
È encomiabile che Liliana Segre abbia eletto “indifferenza” a parola-chiave
dell’intera vicenda che ha attraversato. È stato, ed è tuttora, diffuso
l’understatement della Shoah (ne accenna anche Enrico Mentana), l’atteggiamento
della “professoressa di greco” che liquidò “in classe, davanti a tutti” come
mera “esperienza interessante” la sua deportazione. Liliana Segre commenta: “Fu
tremendo. Per anni non ne parlai. Solo dopo una pesante depressione, intorno ai
sessant’anni, capii che dovevo fare il mio dovere”. “Interessante” è il termine
con cui normalmente si qualificano le cose che non toccano, che lasciano
“indifferenti” appunto. Il “dovere”: non lasciar cadere nell’oblio, sapere che La
memoria rende liberi, appunto. Un dovere di tutti, ma peculiarmente
ebraico, come Yosef Hayim Yerushalmi ha esemplarmente mostrato.
Mi
soffermo su un altro punto cui mi ha ricondotto Ho scelto la vita. Tra
chi si salvò qualcuno si è suicidato: mi ha dolorosamente colpito la pagina in
cui Segre parla di Primo Levi, che non ha mai incontrato, ma cui ha scritto due
volte: < La seconda volta fu dopo l’uscita de I sommersi e i salvati,
nel 1986. Mi turbò molto. “Basta” gli dissi, “se da Auschwitz non si esce mai,
come lei sostiene, e se anche i salvati sono sommersi, allora non c’è
speranza”. Mi rispose con una lettera secca: “Se non l’ha capito, è inutile che
ne parliamo”. L’anno dopo si tolse la vita >. Il suo suicido certo sembra
contraddire non poco di quanto ce lo rendeva esemplare. Non a caso Pier
Vincenzo Mengaldo, in fondo al suo Per Primo Levi (Einaudi 2019), in cui
raccoglie testi già editi, aggiunge tra parentesi quadre e in corsivo: “Non so
se dopo il suicidio di Levi avrei avuto animo di scrivere ancora queste parole”.
Immediatamente sopra, a conclusione del libro, leggiamo che Levi, “finalmente,
ha saputo resistere […] alla potenza risucchiante di Auschwitz, impedendo che
distruggesse la sua chiara ragione e - cosa ancora più mirabile - la sua
fiducia nella vita e negli uomini”. Le parole a Liliana Segre sopra riportate confermano
i dubbi di Mengaldo. Ho
sempre sospettato che il suicidio di Levi, ma anche quello di Améry, fosse
dovuto al venir meno dei valori che hanno sostenuto la sua vita di testimone,
cui già nei giorni del lager aveva affidato il senso della propria
sopravvivenza. Per Liliana Segre non fu lo stesso: alla testimonianza, pure
perseguita con tenacia e consapevolezza, arrivò tardi, molto dopo che il
processo Eichmann desse l’avvio a quella che Annette Wieviorka chiama “l’era
del testimone”. In certo modo (anche per atteggiamenti tipo quello
dell’insegnante di greco) ne circoscrisse la portata nell’arco intero della sua
esistenza. Ben fu consapevole dell’enorme rilevanza, etica oltre che storica,
del testimoniare; ma poté, o dovette, affidarsi a un più ampio spettro di
valori: esistenziali, affettivi, vitali, ampiamente religiosi forse. La sua
visione del mondo è consona a quella di molti di noi che, come lei, “abbiamo
scelto la vita” (il titolo è quanto mai opportuno), abbiamo creduto in valori
che la sorreggano. Anche se sappiamo: la speranza che nulla più potesse
succedere di tanto orrore che ha sorretto le testimonianze è tuttora messa a
dura prova; e forse era solo ingenuo pensarlo. Vale per noi l’essenziale
profilo che di Liliana Segre ha tracciato Enrico Mentana: “questa donna vive
spiritualmente agli antipodi dei fanatici e dei cultori del partito preso, e
col nitore della sua memoria, e della riflessione su quel che ha vissuto, mette
fuori corso ogni retorica, ogni nostalgia reducista, ogni ciarpame”. La sua
lucidità le ha impedito, giustamente, di immedesimarsi in film quali Schindler’s
List o La vita è bella; non so cosa pensi dei (migliori comunque) Train
de vie (volutamente irreale) o, su diverso versante, Il pianista.
Per me non esiste modo migliore di Shoah di Claude Lanzmann per
raccontare il genocidio nazista degli ebrei. Una
volta ho messo a confronto il suicidio di Levi e quello, pur così diverso, di
Antonia Pozzi, che si suicidò ai primi di dicembre dell’infausto 1938. E si
tolse la vita non solo per una pur drammatica delusione d’amore, ma anche perché
in lei, con la fiducia nell’amore, venne meno la fiducia nei valori anche
etico-sociali che gli erano connaturati - senza che trovasse altri valori cui
affidarsi. Così si può ipotizzare che tra i motivi del suicidio di Primo Levi
vi fu l’avvertire che stava crollando il mondo che animava il suo desiderio di
testimoniare, così vivo fin dentro il lager; stavano cedendo i valori in cui
aveva creduto, e che avevano sorretto la sua stessa scrittura. Quasi si stesse
avverando il sogno che già turbava le notti di Auschwitz: l’incubo di non venir
ascoltati, né creduti; di non trovare alcuna solidarietà. L’“inenarrabile” si
stava riaffacciando, o era ben prevedibile, già in quell’11 aprile del 1987 in
cui Levi si suicidò: già c’era stato il Biafra, e altro era all’orizzonte. Si
era testimoniato “perché non accadesse più”, e tutto si preparava a ritornare.
Ma noi ci chiediamo: perché cedere, perché non continuare a vivere; non restavano
pur sempre valori in nome di cui resistere? E
veniamo alla prima volta in cui ho incontrato Liliana Segre: è stato qualche
anno fa, per caso, all’uscita dalla Scala: le cedetti istintivamente,
distrattamente, il passo; mi ringraziò con una gentilezza che mi è rimasta; ma non
l’avevo riconosciuta, solo mia moglie subito mi ha detto. Scopro ora che da
vent’anni è abbonata alla Scala, con enorme piacere, e non solo perché della
Scala sono un frequentatore assiduo, e questo crea una certa consonanza. Ma
soprattutto perché sapere che una persona che ha attraversato il male estremo
abbia conservato, o ritrovato malgrado tutto, l’amore per la musica, quella
musica, ha ravvivato in me una speranza. Non so quanti altri tra i
sopravvissuti alla Shoah abbiano saputo o potuto tener vivi allo stesso modo
tanto alti valori, i più violentemente contrastati nella Shoah. Sappiamo
anche d’altra parte che (come nota più d’una volta George Steiner) che qualcun
poteva ascoltare la sera ottime esecuzioni di un quartetto di Beethoven a
Monaco, e recarsi il mattino dopo al suo abituale lavoro a Dachau. O assistere
agli splendidi concerti diretti da Furtwängler a Berlino, in una sala pavesata
da svastiche, e non provar alcun rimorso per i delitti che stava progettando e
cui collaborava. Altro caso, ma assimilabile, è quello di Hitler che assiste a
un Tristano diretto da De Sabata a Bayreuth nei giorni immediatamente precedenti
l’invasione della Polonia. Beethoven e il pur antisemita Wagner, la grande
musica che da sempre amiamo, in cui troviamo la conferma di tanti nostri valori,
poteva esser esibita anzi come fiore all’occhiello, come avallo, dal nazismo.
Furtwängler stesso motivava la propria attività nella Berlino del Terzo Reich
col dovere di non lasciare che si spegnessero i valori di cui le sue esecuzioni
testimoniavano; e ad applaudirlo c’erano alti gerarchi nazisti, Goebbels si
complimentava con lui… Ancora: essere ottimi interpreti non garantisce della
qualità umana di chi esegue. Neppure tuttavia è detto che la musica rispecchi
la soggettività di chi la esegue, o di chi la crea, tanto meno di chi la
fruisce; e sia interpretabile a partire da queste. Il suo valore non è una
neutrale qualità obbiettiva: si determina piuttosto in un incontro tra quanto è
oggettivamente, imprescindibilmente, dato e le persone che la ascoltano. Il
discorso sarebbe lungo e complesso; Steiner gli ha dedicato imprescindibili
riflessioni. Per
conto nostro - di chi come noi “ha scelto di vivere”, e di tener vivo ciò che
ci ha permesso questa scelta - continuiamo ad andare alla Scala. In compagnia
ideale, possibilmente, di Liliana Segre. Si parva licet…
La copertina del libro
Liliana
Segre Ho
scelto la vita. La
mia ultima testimonianza sulla Shoah Rizzoli
ed. 2020 Pagg.
64 s.i.p