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giovedì 12 novembre 2020

HO SCELTO LA VITA
di Gabriele Scaramuzza      

Liliana Segre
 
Non starò certo a soffermarmi sulla storia, mille volte ripercorsa, e da Liliana Segre stessa in più modi encomiabilmente rievocata. Tra quanto ho letto rinvio in modo particolare alla sua testimonianza raccolta da Daniela Padoan in Come una rana d’inverno (edita con una Presentazione di Furio Colombo da Bompiani nel 2004); e a La memoria rende liberi. La vita interrotta di una bambina nella Shoah (con Introduzione di Enrico Mentana, Rizzoli 2015). Sulla sua notorietà non c’è però da giurare: certo il suo nome, le sue vicende, sono noti e scontati; ma solo in certi ambienti. Magari lo fossero dovunque.
C’è qualcosa in questo recente Ho scelto la vita che di nuovo prende (e tanto più ha preso nella sua diffusione televisiva), e ripropone impressioni, conferme - e interrogativi. Soprattutto rinnova quello stupore cui “è terribile essere così poco inclini” nell’oggi (come leggiamo Nel castello di Barbablù di George Steiner): lo stupore bandito dai totalitarismi, e su cui mi hanno reso più attento le letture di Vasilij Grossman e Imre Kertész.   
Non ho mai conosciuto personalmente Liliana Segre. L’ho incontrata solo due volte, tralasciando ovviamente gli innumerevoli incontri virtuali alla televisione, sui giornali, nei libri. La seconda volta è stato alla Casa della Cultura, dove presentava, con Mentana, La memoria rende liberi, appunto. Sulla prima tornerò tra poco.
In generale danno da pensare i diversi modi, e le diverse tonalità affettive, in cui gli ebrei vivono la Shoah, tra denuncia, oblio, latente rivendicazione. Ancor più mi hanno offerto materia di riflessione le differenti modalità, sorprendenti a volte, in cui i sopravvissuti si sono rapportati alla propria terribile vicenda.
Qualcuno ha riabbracciato quelle forme di “liberalismo” che la Shoah aveva duramente contraddetto, ne sia stato sia pur indirettamente colpito, o abbia potuto rifugiarsi altrove. Negli anni immediatamente successivi alla guerra, la voglia di vivere, la necessità di ricostruirsi una vita, in Israele o altrove, ha indotto a una forma di rimozione del passato, ha messo a tacere ogni esplicita rivalsa. Altro sul momento contava. Resto tuttavia convinto che in ogni uomo di coscienza, e in modo assolutamente particolare in ogni ebreo, la Shoah sia rimasta nel sangue, come si dice. È rimasto incomprensibile per me che qualcuno riabbracciasse modi di pensare che credevo la storia avesse messo fuori circuito. Non ho mai creduto a chi sembrava non attribuire gran peso al proprio essere ebreo, poco o nulla leggeva delle testimonianze dei sopravvissuti, non gradiva se ne parlasse: per necessità di sopravvivenza immagino, per il desiderio di sentirsi accettato, di poter ritrovare un posto nella società, un’accogliente rispettabilità. E anche per la sconcertante complessità della situazione storico-politica in cui si è trovato a vivere dopo la guerra.
Ogni ebreo in cuor suo deve esser stato sconvolto dalla indifferenza che troppi hanno coltivato in sé e diffuso nei confronti del destino di propri simili - eufemisticamente simili, dato che alla radice di ogni razzismo (e di certo “cristianesimo” che lo assecondò) sta la violenta accentuazione della diversità. È encomiabile che Liliana Segre abbia eletto “indifferenza” a parola-chiave dell’intera vicenda che ha attraversato. È stato, ed è tuttora, diffuso l’understatement della Shoah (ne accenna anche Enrico Mentana), l’atteggiamento della “professoressa di greco” che liquidò “in classe, davanti a tutti” come mera “esperienza interessante” la sua deportazione. Liliana Segre commenta: “Fu tremendo. Per anni non ne parlai. Solo dopo una pesante depressione, intorno ai sessant’anni, capii che dovevo fare il mio dovere”. “Interessante” è il termine con cui normalmente si qualificano le cose che non toccano, che lasciano “indifferenti” appunto. Il “dovere”: non lasciar cadere nell’oblio, sapere che La memoria rende liberi, appunto. Un dovere di tutti, ma peculiarmente ebraico, come Yosef Hayim Yerushalmi ha esemplarmente mostrato. 

   

      
Mi soffermo su un altro punto cui mi ha ricondotto Ho scelto la vita. Tra chi si salvò qualcuno si è suicidato: mi ha dolorosamente colpito la pagina in cui Segre parla di Primo Levi, che non ha mai incontrato, ma cui ha scritto due volte: < La seconda volta fu dopo l’uscita de I sommersi e i salvati, nel 1986. Mi turbò molto. “Basta” gli dissi, “se da Auschwitz non si esce mai, come lei sostiene, e se anche i salvati sono sommersi, allora non c’è speranza”. Mi rispose con una lettera secca: “Se non l’ha capito, è inutile che ne parliamo”. L’anno dopo si tolse la vita >. Il suo suicido certo sembra contraddire non poco di quanto ce lo rendeva esemplare. Non a caso Pier Vincenzo Mengaldo, in fondo al suo Per Primo Levi (Einaudi 2019), in cui raccoglie testi già editi, aggiunge tra parentesi quadre e in corsivo: “Non so se dopo il suicidio di Levi avrei avuto animo di scrivere ancora queste parole”. Immediatamente sopra, a conclusione del libro, leggiamo che Levi, “finalmente, ha saputo resistere […] alla potenza risucchiante di Auschwitz, impedendo che distruggesse la sua chiara ragione e - cosa ancora più mirabile - la sua fiducia nella vita e negli uomini”. Le parole a Liliana Segre sopra riportate confermano i dubbi di Mengaldo.
Ho sempre sospettato che il suicidio di Levi, ma anche quello di Améry, fosse dovuto al venir meno dei valori che hanno sostenuto la sua vita di testimone, cui già nei giorni del lager aveva affidato il senso della propria sopravvivenza. Per Liliana Segre non fu lo stesso: alla testimonianza, pure perseguita con tenacia e consapevolezza, arrivò tardi, molto dopo che il processo Eichmann desse l’avvio a quella che Annette Wieviorka chiama “l’era del testimone”. In certo modo (anche per atteggiamenti tipo quello dell’insegnante di greco) ne circoscrisse la portata nell’arco intero della sua esistenza. Ben fu consapevole dell’enorme rilevanza, etica oltre che storica, del testimoniare; ma poté, o dovette, affidarsi a un più ampio spettro di valori: esistenziali, affettivi, vitali, ampiamente religiosi forse. La sua visione del mondo è consona a quella di molti di noi che, come lei, “abbiamo scelto la vita” (il titolo è quanto mai opportuno), abbiamo creduto in valori che la sorreggano. Anche se sappiamo: la speranza che nulla più potesse succedere di tanto orrore che ha sorretto le testimonianze è tuttora messa a dura prova; e forse era solo ingenuo pensarlo. Vale per noi l’essenziale profilo che di Liliana Segre ha tracciato Enrico Mentana: “questa donna vive spiritualmente agli antipodi dei fanatici e dei cultori del partito preso, e col nitore della sua memoria, e della riflessione su quel che ha vissuto, mette fuori corso ogni retorica, ogni nostalgia reducista, ogni ciarpame”. La sua lucidità le ha impedito, giustamente, di immedesimarsi in film quali Schindler’s List o La vita è bella; non so cosa pensi dei (migliori comunque) Train de vie (volutamente irreale) o, su diverso versante, Il pianista. Per me non esiste modo migliore di Shoah di Claude Lanzmann per raccontare il genocidio nazista degli ebrei.    
Una volta ho messo a confronto il suicidio di Levi e quello, pur così diverso, di Antonia Pozzi, che si suicidò ai primi di dicembre dell’infausto 1938. E si tolse la vita non solo per una pur drammatica delusione d’amore, ma anche perché in lei, con la fiducia nell’amore, venne meno la fiducia nei valori anche etico-sociali che gli erano connaturati - senza che trovasse altri valori cui affidarsi. Così si può ipotizzare che tra i motivi del suicidio di Primo Levi vi fu l’avvertire che stava crollando il mondo che animava il suo desiderio di testimoniare, così vivo fin dentro il lager; stavano cedendo i valori in cui aveva creduto, e che avevano sorretto la sua stessa scrittura. Quasi si stesse avverando il sogno che già turbava le notti di Auschwitz: l’incubo di non venir ascoltati, né creduti; di non trovare alcuna solidarietà. L’“inenarrabile” si stava riaffacciando, o era ben prevedibile, già in quell’11 aprile del 1987 in cui Levi si suicidò: già c’era stato il Biafra, e altro era all’orizzonte. Si era testimoniato “perché non accadesse più”, e tutto si preparava a ritornare. Ma noi ci chiediamo: perché cedere, perché non continuare a vivere; non restavano pur sempre valori in nome di cui resistere?  
E veniamo alla prima volta in cui ho incontrato Liliana Segre: è stato qualche anno fa, per caso, all’uscita dalla Scala: le cedetti istintivamente, distrattamente, il passo; mi ringraziò con una gentilezza che mi è rimasta; ma non l’avevo riconosciuta, solo mia moglie subito mi ha detto. Scopro ora che da vent’anni è abbonata alla Scala, con enorme piacere, e non solo perché della Scala sono un frequentatore assiduo, e questo crea una certa consonanza. Ma soprattutto perché sapere che una persona che ha attraversato il male estremo abbia conservato, o ritrovato malgrado tutto, l’amore per la musica, quella musica, ha ravvivato in me una speranza. Non so quanti altri tra i sopravvissuti alla Shoah abbiano saputo o potuto tener vivi allo stesso modo tanto alti valori, i più violentemente contrastati nella Shoah.  
Sappiamo anche d’altra parte che (come nota più d’una volta George Steiner) che qualcun poteva ascoltare la sera ottime esecuzioni di un quartetto di Beethoven a Monaco, e recarsi il mattino dopo al suo abituale lavoro a Dachau. O assistere agli splendidi concerti diretti da Furtwängler a Berlino, in una sala pavesata da svastiche, e non provar alcun rimorso per i delitti che stava progettando e cui collaborava. Altro caso, ma assimilabile, è quello di Hitler che assiste a un Tristano diretto da De Sabata a Bayreuth nei giorni immediatamente precedenti l’invasione della Polonia.  
Beethoven e il pur antisemita Wagner, la grande musica che da sempre amiamo, in cui troviamo la conferma di tanti nostri valori, poteva esser esibita anzi come fiore all’occhiello, come avallo, dal nazismo. Furtwängler stesso motivava la propria attività nella Berlino del Terzo Reich col dovere di non lasciare che si spegnessero i valori di cui le sue esecuzioni testimoniavano; e ad applaudirlo c’erano alti gerarchi nazisti, Goebbels si complimentava con lui… Ancora: essere ottimi interpreti non garantisce della qualità umana di chi esegue. Neppure tuttavia è detto che la musica rispecchi la soggettività di chi la esegue, o di chi la crea, tanto meno di chi la fruisce; e sia interpretabile a partire da queste. Il suo valore non è una neutrale qualità obbiettiva: si determina piuttosto in un incontro tra quanto è oggettivamente, imprescindibilmente, dato e le persone che la ascoltano. Il discorso sarebbe lungo e complesso; Steiner gli ha dedicato imprescindibili riflessioni.
Per conto nostro - di chi come noi “ha scelto di vivere”, e di tener vivo ciò che ci ha permesso questa scelta - continuiamo ad andare alla Scala. In compagnia ideale, possibilmente, di Liliana Segre. Si parva licet…  
 
 
La copertina del libro

Liliana Segre
Ho scelto la vita.
La mia ultima testimonianza sulla Shoah
Rizzoli ed. 2020
Pagg. 64 s.i.p