Una
lettera recensione al libro di Abati Caro
Velio, in
questo diffuso stato di attonita sospensione, in questo tempo strano sfuggente
e insieme plumbeo, che tarpa il respiro toglie l’aria ai pensieri e ti cunnola
in una torpida parodia di normalità poco più che animale, tra un inabissamento
e una forzosa riemersione, mi dispongo finalmente a scriverti queste due righe
spero non troppo stralunate. Prima
di tutto grazie. Ho dovuto/voluto aspettare un po’ per leggere il tuo libro.
Ero sprofondata nella fascinazione di una grande storia raccontata in prima
persona da una sorta di matto di paese, che matto non è per nulla, e il paese
essendo un luogo che conosco e che mi è caro, bellissimo antico e arioso,
prodigo di artisti e di poeti e soprattutto di amori e di amici dell’anima, di
mattìe belle di quelle che ti riportano alla felicità della vita. Un bel
lavoro, un grande libro che mi ha immerso prepotentemente, con la forza di
un’affabulazione allucinata ma trasparente, nel grande racconto della nostra
storia di noi tutti di questa parte di mondo e di questa umanità così
malconciata e derelitta che l’avidità di ingordi dominatori satrapi e sciacalli
e il servilismo di biechi accattoni e loschi gazzettieri ha deprivato perfino
dell’urlo della disperazione. Un’esperienza dello spirito densa, felice,
stimolante e benedetta nel panorama di questi giorni oscuri e limacciosi. Terminata
la corposa lettura del “fiommista” Liborio* senza soluzione di
continuità temporale e emotiva mi sono ritrovata in un altro incantamento,
braccia nude, occhi e sensi spalancati a nuotare nelle acque mosse e
rigeneratrici del tuo mare gonfio di ragionamenti riflessioni riferimenti
dissertazioni filosofiche allusioni scotimenti chiamate alle armi propedeutici
esami di coscienza, pungenti memorie di eroiche e sperperate stagioni di vita e
di lotte, vittorie e batoste cocenti, epifanie e catastrofi bellezze e orrori
di una storia pubblica e privata. È stato bellissimo. E dunque grazie caro
Velio. Per la condivisione lucida e appassionata per la perfetta adesione allo
spirito e spesso alla lettera che ho provato leggendoti. Ci sono momenti,
passaggi, intere pagine in queste tue Fughe, cheio, comunista senza classe e senza partito, con un po’ di spavalderia,
una punta di egoismo e molto narcisismo, ostinatamente ancora “in cerca di
nuovi compagni contemporaneamente resistendo […] all’entropia degli abbandoni
di quanti della nostra parte abbiamo incontrato” - vedi in particolare là dove
evochi la storia, la vita del partito, il fervore giovanile, le domande, le
delusioni, le prese d’atto - ho sottolineato e sottoscritto con effusa
commozione, complice probabilmente una strabordante emotività senile. Di tutto
questo e altro ti dico grazie. L’altro è dove irrompono luminosi squarci di una
nomenclatura cara e dolce e antica e spuntano struggenti malinconie di volti,
presenze, personaggi, ritratti - bellissimo quello di Ruth - amori, primavere,
ragazze meteore, sogni… E dove, caoticamente assemblati come in un quadro di
Mirò, vagano immagini o singoli oggetti di memoria: un albero (era un noce o un
leccio?) una casa di campagna un ragazzino gentile un salone una tavola
imbandita il canto di una cincia lo starnazzare di un pollaio sul retro gli
attrezzi della terra nella rimessa di babbo V.il suono di una fisarmonica una canzone: Tutti ti dicon Mà… La nostra
Maremma, la bicicletta di Maria Pia al mare dell’Uccellina, l’apparizione di un
cervo sulla strada sterrata, il giardino intelligente dell’Alberese, la casa di
Biancamaria Frabotta, e poi quella città, quella scuola, quelle strade, quella
miniera, quelle chiacchierate, quei silenzi, quelle confidenze turbate, quei
sorrisi, quelle complicità... Il sapore dolce dell’amicizia… Grazie
Velio. [Roma,
26 novembre 2020, Anno I della Nuova Peste] *Remo
Rapino, Vita morte e miracoli di Bonfiglio Liborio Minimum fax, 2020.