LA VOCE CHE SPLENDE NELLA BOCCA di
Gabriella Galzio
Claudia Azzola
Dalla
lettura del libro: Tutte le forme di vita di Claudia Azzola Rimirando
quest’ultimo libro della Claudia, ho pensato: che bell’inno alla vita, la
verità, la bellezza! Con la nettezza di questa rima baciata: “Le cose si
formano da sole,/ come l’insetto giallo sotto il sole”. In questa apparente
semplicità, il titolo - Tutte le forme di vita - sottende una visione
filosofica mutuata da Wittgenstein: “la realtà è tutto ciò che accade”, in
tutte le forme di vita, da contenere e trasmettere nel tempo della propria
esistenza, e a seguire.”. Così chiude infatti la sua postfazione l’Autrice; e
tra le cose da contenere vi è anche la consapevole impotenza di fronte al
disagio che permea un’epoca, la nostra normalizzata, con la sua “genia del
fast-food e slow-food, del cibo religione”, “gli dei troppo antichi, re-settati
nelle abitudini, lasciati impazzire”, “mentre fuori/ ci scortano dèi elementari”;
una consapevolezza critica che trova il suo corollario stilistico in una lingua
franta ed ellittica (anche se tenuta insieme da rime interne) e in un precipitato
enumerativo di cose che franano sotto i colpi dell’omologazione … e allora meglio
ritrarsi, e rientrare nella vita immaginale del gatto e nell’ora delle veggenti
cicale, giacché sono anche mitico-magici gli animali fatati di questa poetica;
e se anche “tutto vivrà ma con occhi d’automa./ Essere vibrante nonostante…”, è
la voce resistente dei participi presenti che schiera l’Autrice dalla parte
della vita animante, della natura-cultura, della speranza, con il suo invito
allasperanza fior del verde e l’esortazione prossima all’esultanza
delle allitterazioni: “esaltiamo i momenti della gloria,/ e il bombo e la
bombarda terra.” A questo invito alla speranza, immediato si associa l’invito al canto quale
Leopardi (posto in epigrafe) assegna agli uccelli e alla leggerezza del volo. E
così i “vivi, non stantii,/ alle porte di verità e del bello: attendono il
bardo che canti” e si faccia portatore di verità che è subito imperativo
esortativo: “Questa è la legge di verità,/ tra lo stantio e il rinnovarsi:/ hai
una forma, falla sbocciare/ come la rosa mundi, rosa gallica,/ versicolor…”.
Sull’onda della simbolica rosa mundi, sin dalle prime poesie, siamo immessi in
un mondo alchemico che conserva “il gusto della storia” pur “nelle omologate
depurate/ storie”, che fonde natura e cultura e, contro i “neologismi già
putridi dell’ipertrofia globale”, tra “tormento e dolzore”, parla una lingua
cortese, mescola immaginario “di medievale rilevanza” e (contrapposto in rima) “il
nostro mondo in devianza”. Consapevoli dei vulnus della civiltà - giacché
“all’olivo non si sconta/ il male che lo corrode” - ci viene in aiuto “una
teogonia” dell’ape: “L’ape congiunge all’universo il fiore.”. Ma “le agonie
avvengono lontane/ dal brillio al fosforo d’api d’oro,/ [e] gli insetti si
vanno spegnendo/ nel silenzio ali di velo si s-sfanno”… Gli umani sapranno
ancora dove dirigersi? si chiederanno: “Dove si deve andare?”? oppure sarà la
fine? “C’est tout. C’est fini…/ e colà nessun senso vi scorre.”.
Mi sono soffermata su questo organico poemetto iniziale - Poemetto delle api
e ciclo degli insetti - perché mi è parso paradigmatico della più generale
vocazione del libro. C’è l’oscillazione altalenante tra speranza e smarrimento,
c’è un salvifico mondo d’immaginazione medievale e la disgregazione del nostro
tempo, che rinvia oltre nel libro a “pitture etrusche [di un] vecchio antropos
e [al]la realtà franta [di] gente” priva di civiltà; percorre l’intero libro una
natura popolata da animali - dal fondo rettile, alla terra di mezzo, all’universo
volatile - che però non è mai naturalistica come evidenzia l’Autrice nella
postfazione: “Il naturalismo insito nell’argomento si eleva all’autonomia della
vita simbolica (emblematica la lupa che è in noi ridotta a cagnolina!)… [laddove]
Il materiale vivo della poesia è nel rapporto tra percezione sensoriale e nuclei
dell’immaginale.”; piuttosto vi è una fortissima tensione alla conoscenza (come
si può evincere anche dalle note) che connette ad es. mondo scientifico e
citazione letteraria. Certamente una lingua colta anche se squarciata da
fendenti di una lingua viscerale, di sangue, corporea, selvaggia… quanto
assoluto è il male: “il traditore, l’essere immondo”, “a lingua forcuta.”. Quanto
alle radici lombarde racchiuse nella villetta liberty di famiglia, anche
stilisticamente, vi è ormai in questo libro solo un’eco residua, condensata nell’articolo
determinativo preposto al nome…”il Dino [che] nella storia s’affonda.”. D’altronde,
in questa lingua poetica si mescolanovulnus latino e Grund
tedesco, versi in italiano e in inglese, o risuonano nel giro dei gerundi antiche
formule alchemiche: “Magnete calando nell’acqua fossile, / acqua madre o di
sale rosso, assumere/ a stomaco vuoto, digiunando…”. In questo libro il
cangiante crogiuolo della lingua ispirata della poesia si oppone al “crogiuolo
di tutti/ uguali” della globalizzazione, dei “nati non ispirati,/millennials/
caduti nelle spire/… aspirati.”. Ma incurante di loro, a chiudere il libro è
una sorta di allitterata filastrocca in endecasillabi rivolta alla verde libellula
perché esaudisca il desiderio di rinnovare la lingua: “fammi più verde il
liquido lemma,/…”
Strutturalmente le poesie tendono al poemetto o per lo meno ad addensarsi in
nuclei poematici lungo un “flusso immaginale, filosofico, culturale, in cui ci riconosciamo,
nella civilisation dell’Europa nei secoli, nei millenni.” (dalla
postfazione), comprendendovi dunque la storia che sfuma nell’archetipico del
mito, della fiaba, della leggenda…come l’ora di Pan o delle cicale veggenti o
un pomeriggio di pecore/ …pace residuale/ fatale /_..._/ della preistoria…o questi
endecasillabi (più due finali doppi metri) che reinterpretano amorosi, e vorrei
dire femminili, un classico mito patriarcale: “dove ogni bianco d’onda è
conchiglia/ sei l’Afrodite che corre davanti,/ sei la Core che Demetra cerca, /
perciò grave è il tuo passo, figlia,/ l’ombra non prevarrà, e chiedi realtà, /
linfa amorosa, non un cuore di sasso.”… versi che rimandano al potere
generativo, e non solo biologico, delle donne: “le donne immettono nel mondo/
un mondo…”. Parliamo cioè di quella grande radice culturale e letteraria da cui
l’opera poetica della Claudia trae linfa sin dagli esordi, e che qui ancora ha
eco di fiaba: “…come ai tempi/ nei quali nacque la forma, l’etimo/ di lingue
sapienti che sono di prima/…/Piuma pensosa, chi la sposa?/ chi si prenderà in
seno questa rosa?”.
In questo libro merita poi una particolare attenzione il soggetto versatile
della narrazione: se la terza persona si addice alla parola di verità “per rivelazione
immediata”, e al tu è affidata l’esortazione, nel poemetto Troppo lungo il
racconto, al noi è assegnata l’umana fragilità e inadeguatezza: “Non
conosciamo altro che il “qui”…”Non conosciamo che il “noi”, così poco poi… di
fronte a “indicibili catene”, a un “destino inconoscibile”. Tra questa
pluralità di soggetti e di voci, l’Io si dichiara testimone e custode:
“Conserverò i vostri volti… per far fiorire il bello”, anche se più tardi
scriverà sfiorando l’invettiva: “Non costruirò bellezza in questa ora,/ nel
secolo nuovo di diavoli.”. Non c’è peraltro “un “io” più fragile di quello/ che
non dice mai un witz”, “non v’ha arte senza il riso,/ il vero che per
poco si afferra”. Così l’Io custode è anche l’Io che ride e, tramite il riso, ci
connette al vero, ed è l’Io che sente, salire dal taglio della rosa muscosa e dei
propri capelli, una medesima linfa, “odori suscitatori di selvagge/ percezioni,
il nettare profondo/ di ogni strofa e fonemi rinnovati”, dove la poesia dunque scaturisce
dalle profondità della natura selvaggia, un’“arte coltivata in reminiscenza/ di
non so che mater materia” o “magone esistenziale”. Ed è da questovulnus
che l’Io compie la resa mirabile all’arte, che si spoglia di sé per favorire
altro: “Non fui favorita, favorite l’arte/ che coltivo, quale la perla-luce,/
la forma intorno alla voce dell’io. / Favorite la mia voce,/ questa voce.”. C’è
in questo distico finale quasi una preghiera ai posteri, come un altro
memorabile verso di altro libro che recita “è mia voce tramandare”. In questo
poemetto, che esordisce per negazioni (“Non altro che…”, “Non c’è un “io”…), il
valore è dato per sottrazione, si assiste infatti a una dinamica sottrattiva che
investe il linguaggio - “dire/ poco di parole è necessario, / una scheggia” - e
finisce per dissolvere lo stesso soggetto narrante: “non ci sarà/ ciò che fui… c’è
solo il presente, c’è chi non fui”… a consegnarci l’essenziale: la “voce che
splende nella bocca.”.
[Incontri
tra Autori, “Salotto Galzio”, 10 novembre 2020]