IL BIPARTITISMO IMPERFETTO
di
Franco Astengo
La
dolorosa evenienza della scomparsa di Giorgio Galli ha portato analisti e
politologi a riscoprire la sua fortunata formula del “bipartitismo imperfetto”:
titolo di un saggio uscito per il Mulino nel 1966 e poi ripreso in un capitolo
della sua monumentale opera “I Partiti Politici” uscita per la UTET nel
1974.
È
il caso allora di riprendere il tema utilizzando alcune delle affermazioni di
Galli, cercando poi di avanzare anche alcune ipotesi analitiche riguardanti le
complesse vicende della sinistra italiana al tempo del sistema dei partiti.
Un’occasione
importante anche perché si sta avviando la discussione sui 100 anni dal
congresso di Livorno che segnò la nascita del Pcd’I.
Una
discussione di grande interesse soprattutto per chi pensa necessario costruire
in Italia una nuova sinistra collegata però idealmente ai grandi filoni
“storici”. Un avvio originale di discussione alla quale, con altre compagne e
compagni, abbiamo affidato il titolo di “Dialogo Gramsci- Matteotti”.
Dunque
il “Bipartitismo imperfetto” di Giorgio Galli.
Si
trattava evidentemente di una formula sintetica, il cui scopo era di esprimere
il fatto che, nel sistema politico italiano, tutti i partiti fossero eguali ma
due, la DC e il PCI, fossero (parafrasando Orwell) “più eguali degli altri” (di
qui “bipartitismo”). Questi due partiti però non si sono mai alternati al
governo, né questa dell’alternanza è mai stata una potenzialità; anzi, il
governo è stato permanente prerogativa di uno di essi - la DC - mentre il PCI è
risultato permanentemente all’opposizione, salvo il breve periodo della
solidarietà nazionale nel periodo buio del terrorismo e del rapimento Moro,
allorquando il PCI sostenne (prima con l’astensione, poi con il voto
favorevole) un governo monocolore DC.
Questo
è stato il dato costante da cui è derivata la definizione di Galli: dato
perpetuato per tutto il periodo contrassegnato dall’egemonia dei partiti di
massa e dall’utilizzo del sistema elettorale proporzionale.
Assenza
di alternanza e/o di consociazione al governo mantenuta comunque nonostante che
il PCI avesse sempre perseguito la linea dell’accordo con la DC (anche nel
periodo più duro della guerra fredda) formalizzando anche nella fase iniziale
della segreteria Berlinguer, una proposta definita (mi pare per primo da
Gerardo Chiaromonte) di “compromesso storico”.
Egemonia
dei partiti di massa e utilizzo del sistema elettorale proporzionale intesi
come tratti distintivi fondamentali di quella che - erroneamente - con
sciatteria giornalistica è stata definita “Prima Repubblica”.
In
verità l’assenza di una opposizione che potesse costituire un’alternativa di
governo ha rappresentato una caratteristica costante del nostro sistema
politico, che aveva assunto aspetti particolari dopo il 1945 ma che poteva
essere fatto risalire già al Parlamento Subalpino e al connubio Cavour /
Rattazzi (febbraio 1852).
L’alternanza
è stata patrimonio nel sistema politico italiano soltanto per il breve periodo
del tentativo di “bipolarismo temperato” tra il 1996 e il 2006: un decennio
caratterizzato da diversi governi tra centro destra e centro sinistra, nel
corso del quale il centro sinistra dimostrò di non essere in grado di
realizzare un soggetto all’altezza del risultare pienamente competitivo in una
competizione - appunto - bipolare.
Il
centro sinistra (ad egemonia ex -PCI e a guida ex-DC) si limitò a formare
alleanze spurie utilizzando il tradizionale trasformismo consociativista (gli
“straccioni di Valmy”) e concludendo il decennio con l’idea della “vocazione
maggioritaria” avanzata dal PD in un tentativo di forzatura bipartitica.
Idea
della “vocazione maggioritaria” clamorosamente fallita (e mai più recuperata)
con l’esito elettorale del 2008. Da allora abbiamo avuto (e avremo) governi
tecnici, finte “solidarietà nazionali”, governi sostenuti da “responsabili”
(cos’era altro il Nuovo Centro Destra di Alfano?), clamorosi trasformismi come
quello in atto nella legislatura presente.
Sarebbe
risultato illusorio il 40% delle europee 2014 ottenuto dal cosiddetto PD (R):
in realtà si trattava di un 22% stante l’altissima defezione nella
partecipazione al voto; l’alternativa, nemmeno in quel momento, non è mai stata
oggetto di realtà nel nostro sistema politico.
Un
sistema politico che, nel suo frazionamento storico e nella sua insita
vocazione trasformistica, ha sempre avuto bisogno di un partito “pivotale”
capace di appoggiarsi sia a destra, sia a sinistra (formando coalizioni però,
mai in alternativa tra loro stesse come è stato capace di fare il M5S,
movimento che ha portato il trasformismo a livelli quasi “lirici”).
Torniamo
però al “bipartitismo imperfetto” come analizzato da Giorgio Galli a cavallo
degli anni’70 e limitiamoci alla storia del sistema politico italiano senza più
invadere l’attualità.
Studi
e ricerche tendono a convergere nella valutazione secondo la quale il grado di
insediamento sociale (sezioni, circoli, giornali, presenza in associazioni
della società civile, dai sindacati alle cooperative, alle sedi culturali) del
PCI e della DC fu notevolmente superiore, per ciascuno di essi, a quello di
tutti gli altri partiti messi assieme.
Per
capire ciò che davvero rappresentò il “bipartitismo imperfetto” occorre uscire
dalla ricostruzione fondata soltanto sugli atti dei gruppi dirigenti, ma
cercando di tener conto dell’organizzazione, della presenza sociale e dei
comportamenti collettivi: per la DC e il PCI quel contesto di cultura politica
si era istituzionalizzato, come per gli altri partiti non era mai avvenuto.
L’imperfezione
insita in quel processo di istituzionalizzazione impedì la formazione di
governi stabili retti nel lungo periodo da un forte blocco di centro, suddiviso
in modo da alternarsi stando dentro proprio al già richiamato schema di lungo
periodo.
Questo
fatto portò all’esercizio costante di quella che Nenni definì “politique
d’abord” e a una difficoltà strutturale nella possibilità di incidenza
delle riforme. Riforme che sarebbe stato necessario operare per far uscire il
sistema dal fallimento nel realizzare una sintesi efficace tra le aspirazioni
popolari (per buona parte rimaste all’opposizione) e gli interessi borghesi
(prevalenti soprattutto nella caotica fase del “boom” economico e dello
spostamento verso sinistra del centro di gravità dell’asse di governo).
Le
riforme che si realizzarono (scuola media unica, nazionalizzazione dell’energia
elettrica, statuto dei lavoratori, in seguito divorzio, aborto, diritto di
famiglia, equo canone, tentativo di sfoltimento delle giungla burocratica,
finanza locale, servizio sanitario nazionale) pur molto importanti rimasero comunque
laterali rispetto a un disegno complessivo di programmazione dell’economia, di
efficacia nell’intervento pubblico sui grandi nodi dell’industria, di
determinazione di un diverso modello di sviluppo caratterizzato dal
paternalismo padronale , dal clientelismo democristiano, dall’insufficienza
nella competizione internazionale (arrestato, con le cattive, il tentativo di
Mattei di autosufficienza energetica).
Il
centro-sinistra rifluì rapidamente (con il “tintinnar di sciabole” che
arrestarono soprattutto l’elaborazione programmatoria di Lombardi e Giolitti)
nell’adeguamento socialista.
Adeguamento
sostenuto più o meno sotterraneamente anche a sinistra attraverso il meccanismo
della consociazione (sindacati compresi).
L’assenza
d’alternativa non fu dovuta però soltanto alla collocazione internazionale del
PCI: in una fase di fortissimo mutamento nella composizione sociale del Paese,
tra Nord e Sud, in seguito al procedere della modernizzazione industriale, la
sinistra nel suo complesso mancò l’appuntamento con una riflessione più
complessiva che avrebbe potuto anche portare a soluzioni politiche maggiormente
avanzate (senza dimenticare le proposte sorte all’interno dello stesso partito
comunista di formazione di un solo grande partito del lavoro avanzate da Longo
nel 1946 e da Amendola più o meno vent’anni dopo, nel periodo immediatamente
seguente la morte di Togliatti).
La fase fu, invece,
contrassegnata dal permanere della posizione “pivotale” da parte della
Democrazia Cristiana, dal progressivo adeguamento alle logiche di governo da
parte del Partito Socialista fino all’assunzione della “logica” della
governabilità nella fase della segreteria Craxi, dalla tensione consociativista
del PCI quale riflesso (modestamente inteso) della ricerca “togliattiana” sull’identità
nazionale. La riflessione andrebbe aperta sull’assenza di un’alternativa alla
democrazia bloccata e alla conventio ad excludendum (le componenti che
appunto hanno fatto scrivere Galli di “bipartitismo imperfetto”).
Furono almeno 3 le
visioni d’analisi emerse nel movimento socialista e comunista e mai raccolte
all’interno di un progetto politico che pure poteva anche risultare possibile
elaborare.
Uno dei volumi scritto da Galli e Comero |
1) La critica iniziale portata avanti da Basso fin dalla natura del CLN e quindi rispetto all’origine stessa della Resistenza, della Costituzione, della Repubblica. L’interrogativo posto da Basso all’origine del CLN riguardava, rispetto al ruolo dello PSIUP, l’opportunità di stringere quel tanto di alleanza che nasceva dalle comuni finalità, mantenendo però la propria autonomia non soltanto organizzativa di partito, ma di autonomia politica di classe, ponendo risolutamente sul tappeto le istanze delle riforme di struttura.
2) La critica avanzata da Panzieri. Attraverso l’elaborazione sviluppata su Quaderni Rossi, Panzieri riscoprì alcuni testi di Marx fino a quel punto largamente ignorati come la IV sezione del I libro
del Capitale, il “frammento sulle macchine” dei Grundrisse, il Capitolo VI del Capitale (inedito), facendo emergere nel dibattito i concetti di sussunzione formale e di sottomissione reale del lavoro al capitale per indagare i processi di trasformazione economico-sociale e per analizzare l’organizzazione taylorista e fordista del lavoro. Su quelle basi teoriche Panzieri elaborò i concetti di “operaio massa” e di “composizione di classe”.
Panzieri indicava la strada dell’alternativa in lotte di fabbrica che presentassero la richiesta di un controllo operaio sulla produzione (come produrre, per chi produrre). L’avanzamento di questa domanda “tutta politica”, di presa di potere “nella e sulla fabbrica”, fu disconosciuta dalle organizzazioni ufficiali del movimento operaio, tutte intente - in quella
fase - a muoversi sulla linea delle politiche keynesiane indirizzate alla sfera dei bisogni e dei consumi (era il momento del cosiddetto “miracolo italiano”).
Le lotte di fabbrica di quel periodo spiazzarono, però, l’analisi marxista ufficiale incentrata sulla arretratezza del capitalismo italiano, sulla necessità della ricostruzione nazionale e sull’esaltazione della capacità produttiva del lavoro.
L’analisi di Panzieri incontrò il limite del non incrociarsi con la possibilità di realizzare, in quella fase, una adeguata rappresentanza politica.
3) La posizione emersa nella sinistra comunista in particolare nell’occasione del convegno organizzato nel 1962 dall’Istituto Gramsci sulle “Tendenze del Capitalismo italiano”. In quel convegno la futura “sinistra comunista” che avrebbe fatto capo a Ingrao (assente nell’occasione) e rappresentata dagli interventi di Trentin e Magri fu capace di sottolineare le novità qualitative che stavano emergendo nel capitalismo italiano. Dal subbuglio del neocapitalismo arrivavano al dunque problemi e bisogni che andavano oltre la semplice redistribuzione del reddito e/o la modernizzazione del sistema (come pensava Amendola). Si trattava di far prendere forma all’insieme dei rapporti politici e sociali in mutamento nel corso di quegli anni aprendo due filoni principali di riflessione:
Uno dei volumi scritto da Galli e Comero |
a) quello con la classe operaia nell’ambito di una relazione che non fosse soltanto quella sindacale, ma quello di una lotta operaia urbana ad alta densità politica. L’industrializzazione doveva accompagnarsi con la modernizzazione. Su questo punto il collegamento con Panzieri che chiosando i Grundrisse ne aveva ripreso un concetto fondamentale: “Verrà il momento che lo sfruttamento materiale sarà ben misera cosa per misurare la ricchezza, perché emergeranno nuovi bisogni e criteri per misurare il progresso e la ricchezza”;
b) quello di una battaglia, della quale si erano già visti elementi concreti nei fatti del Luglio ’60 nel corso dei quali i giovani erano stati l’anima dell’antifascismo, che indicasse come la lotta contro il fascismo non fosse finita con l’obiettivo di sradicare quanto ancora ci fosse di fascismo nelle istituzioni e nella società. In entrambi i punti emergevano con chiarezza gli elementi di collegamento nel pensiero tra questi soggetti e protagonisti politici. Quanto potesse essere possibile costruire un’alternativa alla dimensione dominante dei partiti protagonisti del “bipartitismo imperfetto” rimane un interrogativo la cui risoluzione è ormai circoscritta al segno della storia. L’elemento dell'impostazione della lotta di classe dentro la modernizzazione capitalistica nel senso della costruzione dell'alternativa avrebbe dovuto costituire l’essenza dell’opposizione socialista al centro- sinistra che invece assunse la forma politicista dello PSIUP.
Forse lo PSIUP avrebbe potuto rappresentare un punto di coagulo intellettualmente all’altezza se all’interno di quel partito fosse stato possibile misurarsi con i temi della classe e del rapporto tra essa e la modernizzazione industriale in Occidente e le tendenze che essa avrebbe suscitato nel movimento operaio. Lo PSIUP, di cui Basso era stato tra i promotori mentre Panzieri morì nel dicembre 1964 quando il partito era sorto da pochi mesi, si rivelò insufficiente per eccesso di politicismo e di legame con lo schema bipolare (tema che non si è affrontato in questa sede e che rimane comunque fattore decisivamente insuperabile in quell’epoca se pensiamo a ciò che si verificò, pochi anni dopo, con l’invasione della Cecoslovacchia).
Si sarebbe dovuta rinvenire la capacità di uscire dall’egemonia dello schema togliattiano di lettura di Gramsci del “Risorgimento incompiuto” e dell’identità nazionale della classe operaia.