Dalla
lettura di Identità bonefrana. Poesia tra radici e visioni Il
nuovo libro di Adam Vaccaro. Come il sottotitolo suggerisce, l’Autore
alla ricerca inesausta della propria identità personale e culturale, si muove
all’interno di due polarità: le radici illuminate dalla memoria e le visioni
sprigionate dall’immaginazione. Ma anche in questo libro l’Autore va oltre la
sua vicenda individuale, avendo ben presente che la sua identità si radica in una
più ampia comunità, in una “identità bonefrana” che poggia su “una più organica
memoria collettiva”. Anche a Milano, del resto, Vaccaro non è si è accontentato
di perseguire una vicenda autoriale individuale, ma ha sentito l’esigenza di
trascendere il suo particulare dando vita a un organismo collettivo dal
nome strano Milanocosa, ma se ricordate un suo verso che dice “C’era una volta
un posto una cosa un paese/…”, quella “cosa” non vi parrà più così strana, e
penserete a Milanocosa come all’essere uniti, come “una cosa sola”. Pur nella
valorizzazione delle differenze, l’associazione infatti - nell’intenzione di
Vaccaro - è nata per unire, aggregare un tessuto percepito a rischio di
disgregazione. Parallelamente nel suo luogo d’origine Vaccaro promuoveva la
nascita dell’associazione culturale “la Casa Bonefrana” con l’obiettivo di
trasformare la condizione di marginalità della sua Bonefro in un valore. E quanto
sia forte in questo Autore l’identità, oserei dire, l’anima collettiva, lo
possiamo evincere dalla sua narrazione “Il destino di Esse Re”, in cui egli
rievoca una sorta di mitologia locale dalla potente forza di attrazione. E dove
il mito chiama, il rito si costella, così avveniva che la gita di una ventina
di persone a Esse Re rappresentasse “uno dei vertici emozionali della
vita di allora”; quasi fossero briganti o avventurosi pionieri ”andavano a
reinventare una sorta di ebbro rito di trasgressione collettiva” /_…_/ “una
sorta di rivisitazione stellata di certi archetipi favolosi”, in sintesi essi celebravano
“una profonda laica e quasi pagana comunione collettiva, ristretta ma intensa
operazione di lavaggio-rinascita” (p.87). Per un autore senz’altro moderno, non
destino meraviglia parole come mito, rito, archetipo, perché quanto più si fa
ritorno alle origini di una cultura che affonda le sue radici nella natura,
anche la sola “palla arancione del sole” assurge a simbolo di rinascita. E la
fortuna di Vaccaro è stata quella di non avere mai reciso quelle radici, quella
“luce del passato” che irraggia il futuro.
La struttura del libro ha una sua interna polifonia data dai diversi generi
espressivi che l’attraversano, dalla poesia, alla narrativa, alla saggistica,
v. il caso di “Bonefro: esempio di un microcosmo tra i rischi di dispersione
definitiva nell’attuale globalizzazione”, dove lo stile oscilla tra la
descrizione documentaristica che ritrae la bellezza del territorio e il
giornalismo d’inchiesta che indaga e ne denuncia i dissesti, o dove il genere
saggistico e critico si estende dalla ricostruzione storico-sociologica (come
ne “Il buconero degli anni Cinquanta-Settanta”) al vero e proprio excursus
storico di 3000 anni di storia del paese attraversato da “diverse modalità globalizzanti”
fino all’attuale globalizzazione; questa polifonia di generi è la dimostrazione
che il protendersi del cammino verso un’identità complessa prende varie strade espressive
in un loro intrecciarsi e fiorire sempre aperto al “destino di essere” tra le
proprie radicalità e la conoscenza critica dell’esistente, soprattutto in chi si
è trovato a vivere e colmare lo iato tra culture e territori tanto distanti,
come (negli anni ’60) tra la silente Bonefro artigiana e contadina, e la Milano
metropolitana e industriale in stato effervescente. Ma in Vaccaro qualunque
indagine sulle radici non è mai stata fine a se stessa, perché ha sempre avuto come
sua finalità un presente che ogni volta torna a interrogarsi e a immaginare il
futuro. Così nelle considerazioni finali sulla storia di Bonefro: “Posto che i
Romani non erano il male e i Sanniti non erano il bene, e che qui
non siamo a caccia di mitologie, né positive né negative, è possibile, ad es.,
ricavare dagli eventuali miti (del passato o del futuro) una nostra maggiore
capacità di progetto?” (p.82)
Oggi che la globalizzazione avanza senza residui, libri come questo
testimoniano sin dalla dedica una volontà di resistenza a oltranza a non essere
ridotti a “merce senza identità” e ci invitano a difendere tutte le identità e
la ricchezza della biodiversità antropologico culturale.
Come molteplici sono i generi letterari che animano il libro, così lo stesso
linguaggio della poesia si articola su più lingue, come ad es. nella prima
sezione “Radici sommerse”, dove la poesia si avvale della lingua italiana, del dialetto
(e della relativa traduzione), o nel testo conclusivo (U’ turc’nelle) dove la
poesia trapassa in una sorta di racconto popolare in versi in lingua dialettale
(tradotta).
Si aggiungono inoltre interessanti note di carattere antropologico, sociologico
e di antropologia linguistica sull’evoluzione del dialetto bonefrano, così come
non mancano, in riferimento al dialetto, le considerazioni sulla scelta
consapevole del codice grafico.
Se, d’altra parte, le radici sono composite, composita è la lingua. Ogni mondo
ha il suo linguaggio. E l’Autore di quelle radici è il legittimo erede, come
rivendica questo accenno di invettiva: “Ma voi voi non attaccate etichette io
sono/ sono io l’erede d’una fame infinita”.
Dalla seconda sezione del libro “Memorie e Visioni”, ne ho scelta una che mi è
parsa paradigmatica, una poesia che mentre affonda le sue radici nella memoria popolare
dei proverbi locali, affida ai campi “di bianco e luce” una visione di
speranza: “…campi di neve al sole che/ una coperta ponevano tra/ fame del
presente e futuro/ promessa sotto la neve pane// affido a voi l’assolo
di questa/ terra che cerca ancora testarda/ rinnovati padri e madri al croce/
via tra questi sassi chiusi e proci// con folli ulisse e mille penelopi/ nere
che sanno i lampi e canti/ i riti e miti d’amore indomiti/ che coltivano ancora
semi” (p.59) La testardaggine di questa ricerca che qui si nutre di un
incalzare di assonanze e allitterazioni, non è infatti “lucore di nostalgia” ma
fame di rinascita, come emerge da quest’altra poesia il cui titolo emblematico
è “L’intelligenza del cuore”: “Riportare il cuore dove/ ha cominciato a
battere/ non è lucore di nostalgia o/ foga che affoga nel miele// è fame di
intelligenza ed eco/ logia di rinascita che continua”.
La copertina del libro
[Incontri tra Autori, “Salotto” Galzio, 15 dicembre
2020]