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sabato 5 dicembre 2020

IL DIALOGO GRAMSCI-MATTEOTTI 
di Franco Astengo


In questo scritto Astengo riprende alcuni concetti espressi in un precedente articolo pubblicato su “Odissea” giovedì 26 novembre e lo arricchisce, partendo dal recente libro di Ezio Mauro La dannazione: 1921 la sinistra divisa all’alba del fascismo.
 
Ma il 31 gennaio 1921 il deputato socialista Giacomo Matteotti darà un’altra lettura dello squadrismo, quando si alza in piedi alla Camera: “Oggi in Italia esiste un’organizzazione pubblicamente riconosciuta e nota nei suoi aderenti e nei suoi capi, di bande armate le quali dichiarano apertamente che si prefiggono atti di violenza, di rappresaglia, minacce, incendi e li eseguono. Oggi si va ai funerali non più con la sola pietà ma con il pugnale tra i denti e la rivoltella in mano. La verità è che la violenza e l’illegalità in cui si pone questa organizzazione armata corrispondono in questo momento a un interesse della classe capitalistica. La violenza è esercitata per interessi di classe, per interessi economici e non contro fatti politici o in risposta a provocazioni. Il governo presume di essere al di sopra delle classi, garante dell’ordine pubblico. Noi invece affermiamo in precise parole che il governo dell’onorevole Giolitti è complice di tutti codesti atti di violenza, assiste impassibile allo scempio della legge. La classe che detiene il privilegio politico ed economico, che ha con sé la magistratura, la polizia, l’esercito e il governo per difendere il suo privilegio esce dalla legalità e si arma contro il proletariato.
Infine Matteotti fa una domanda: “Il lavoratore che ha visto incendiata la Camera del Lavoro, pensate voi che possa, nella sua ignoranza e nella sua primitività, non coltivare un pensiero di vendetta verso la casa dei signori?
Si comincia a prendere atto che il fascismo acquista spazio e consenso attraverso le azioni squadriste, e nel momento più caldo degli scontri di piazza e delle spedizioni punitive aumenta di oltre tre volte le sue sezioni e vede più che raddoppiati gli iscritti “La borghesia impaurita dal nostro abbaiare morde, e morde sodo” adesso ammette amaramente Serrati.



È un’analisi ancora di superficie che rivela sorpresa e impotenza, manca nel socialismo, quella che Nietzsche, nei suoi mesi passati tra le rette e gli incroci perfetti di Torino chiamava “la capacità psicologica di vedere dietro l’angolo”. È qui che Gramsci comincia a pensare a un esito, a uno scarto, a un golpe fascista. I socialisti non si sono mai posti seriamente la questione della possibilità di un colpo di stato e dei mezzi da predisporre per difendersi e per passare all’offensiva. Ma chi ha la forza se ne serve. Il colpo di stato dei fascisti, cioè dello stato maggiore, dei latifondisti e dei banchieri, è lo spettro che incombe”.



In quel momento nel mondo socialista e comunista nessuno stava comprendendo la portata della sfida fascista e nel congresso di Livorno non se ne parlò: la Cgdl ripeteva che la reazione non avrebbe fermato il cammino della classe operaia. Bordiga stava teorizzando che fascismo e governo borghese fossero la stessa cosa, Serrati continuava a ripetere “noi sappiamo che vinceremo, conosciamo la meta che dobbiamo raggiungere, valutiamo i pericoli per strada, calcoliamo le soste forzate e anche gli arretramenti”. Nessuno pensava a un modo per contrastare lo squadrismo.
Avevamo esattamente in mente questi passaggi quando, quasi due anni fa, con il compagno Felice Besostri, abbiamo ideato il “Dialogo Gramsci-Matteotti” allo scopo di aprire un dibattito nella sinistra italiana (o meglio tra ciò che ne rimane) in vista del centenario di quel congresso che vide la separazione delle due anime del movimento operaio.
Oggi il libro di Ezio Mauro suffraga autorevolmente la nostra intuizione e ci spinge ad andare avanti sul piano della proposta politica.
Molti ci hanno criticato (anche stizzosamente) rivendicando tratti di passate identità e primazie di varia natura.
Il nostro intento non era certo quello di appiattire la storia alla ricerca di confronti impossibili: abbiamo ben presente tutto il complesso itinerario che seguì quel Congresso e le ragioni per le quali “il rammendo” (ancora una citazione dal libro di Ezio Mauro) non si verificò neppure al momento della caduta del sistema del cosiddetto “socialismo reale”.
Quell’occasione non fu colta, quando tutto stava cambiando e la storia non era certo finita, in quanto la maggioranza del PCI che proponeva il PDS scelse di rifugiarsi in un anodino “sblocco del sistema politico” anziché compiere una delle due scelte possibili: la confluenza nel filone della socialdemocrazia (impedita nello specifico del “caso italiano” dalla logica di potere imperante nel PSI , logica tenuta assieme al persistere di un’antica vocazione movimentista, mutuata dal massimalismo storico), oppure la piena valorizzazione della specificità del comunismo italiano.




Specificità del comunismo italiano mutuata dall’intreccio Gramsci-Togliatti partendo dalla messa in ombra (con la pubblica dei “Quaderni”) del materialismo dialettico sovietico (nella sostanza l’assunzione piena del “genoma Gramsci” non inquinato dal politicismo esercitato dal nuovo gruppo dirigente succeduto al filone berlingueriano).
La nostra idea del “Dialogo Gramsci-Matteotti” non stava (e non sta) sicuramente nella ricerca di impossibili sintesi. L’accostamento “Gramsci-Matteotti” si colloca, invece, nella lezione che i due martiri antifascisti seppero fornire, ciascuno dal proprio punto di vista, configurandosi come esigenza di disporre di una visione comunque riferita alla loro capacità di preveggenza, anticipazione e analisi (in particolare al riguardo del fascismo).
Abbiamo bisogno di riprendere in mano lo strumento dell’analisi e nessuno, nella nostra storia, ce lo può insegnare meglio di Gramsci e Matteotti.
Livorno 1921 può rappresentare l’imperdibile occasione per presentare, proprio partendo dall’esigenza del Dialogo, il progetto di una nuova soggettività di vera e propria “costruzione” di una nuova sinistra che, in questo momento, è priva di rappresentanza nel nostro Paese.
Una nuova sinistra nella cui fase di costruzione si sviluppi una ricerca di collegamento attorno a due punti:
1) I richiami ai punti più alti nella storia del movimento progressista nel nostro Paese;
2) L’identità costituzionale. Su questo punto va aperta una riflessione circa la mancata risposta alla domanda implicitamente presente nei due esiti referendari del dicembre 2016 e del settembre 2020 cui non è stata fornita una risposta politica.
Quali punti possono però rappresentare gli elementi di distinzione e di identità che una nuova sinistra dovrebbe poter sviluppare nell’attualità.
Provo allora a riassumerne alcuni riprendendo spunto da passaggi che sono già stati enunciati ed elaborati nei mesi scorsi caratterizzati tra l’altro dall’emergenza sanitaria:
Si impongono, nel dopo-globalizzazione, due punti di fondo sui quali riflettere:
1) Torna a prevalere l’idea del “senso del limite”: quel “senso del limite” che richiede l’esercizio dello spirito critico e della continua ricerca sulla realtà della natura umana. Si è rovesciato il senso delle "magnifiche sorti e progressive" e la storia non è certo finita anche se è difficile individuarne traiettorie lineari;
2) Il governo delle cose non può essere demandato alla volontà di potenza di chi detiene il dominio di una tecnologia che punta esclusivamente all’estetica dell’apparire posta in funzione della crescita esponenziale dei margini di disuguaglianza (com’è avvenuto nel corso degli ultimi decenni).
Non so se cercare di limitare il dislivello globale possa essere considerato “riformismo” e se a questo progetto siano più vicini i socialdemocratici USA, il Labour o altri ancora.




Rispetto ai temi di fondo del modello di sviluppo e della stessa convivenza civile, delle relazioni umane, degli interscambi non esclusivamente legati alla logica del profitto, delle comunicazioni d’informazione e culturali ha ragione chi sostiene che l’emergenza sanitaria globale oggi in corso, ci pone di fronte a un’occasione possibile.
Esaurite le forme politiche che hanno segnato il ’900, tra l’idea dell’onnipotenza della tecnologia e quella del ritorno all’indietro del tipo (tanto per ridurre all’osso) della “decrescita felice” bisognerà pur individuare un nuovo equilibrio.
Per poter pensare di fronteggiare il fenomeno emergente del caos (per altro ben sostenuto dalla solitudine che deriva dall’esercizio degli strumenti di comunicazione di massa) occorrerà allora ripensare ai concetti di “società sobria” ben oltre il semplice criterio della sostenibilità.
La ricostruzione di un intreccio tra etica e politica potrebbe rappresentare il passaggio fondamentale per delineare i contorni di questa “società sobria” avendo come base di proposta una nuova “teoria dei bisogni” (lasciando da parte “i meriti”: le urgenze sono troppo impellenti anche se bisognerà non limitarci a pensare a una “società dell’emergenza”);
Servirà studiare per definire un aggiornamento teorico relativo proprio alla realtà delle “fratture” esistenti, sulla base del quale riaggregare primordialmente interessi specifici.
Inedite segmentazioni si presentano nella complessità sociale e ci pongono di fronte ad una esigenza forte di radicalità progettuale: anche i vecchi schemi lib-lab risultano sicuramente superati e ancor più “retrò” appare la vecchia manovra della sinistra che vince al centro. Va posta per interno la dimensione della prospettiva di una società alternativa a quella fondata su di un’economia dell’arricchimento progressivo. Quell’arricchimento progressivo posto sul piano individualistico del consumo che abbiamo ben visto come diventi inutile (e dannoso) in fasi di difficoltà generale. Nell’evidente inadeguatezza dei modelli cui ci si è ispirati nella globalizzazione la vicenda dell’epidemia ci dimostra che siamo rimasti fermi a contemplare ciò che accade senza disporre di idee e di organizzazione per attaccare, come sarebbe necessario, il muro della separatezza tra i popoli e tra i ceti sociali.