In
questo scritto Astengo riprende alcuni concetti espressi in un precedente
articolo pubblicato su “Odissea” giovedì 26 novembre e lo arricchisce, partendo
dal recente libro di Ezio Mauro La dannazione: 1921 la sinistra divisa
all’alba delfascismo. “Ma
il 31 gennaio 1921 il deputato socialista Giacomo Matteotti darà un’altra
lettura dello squadrismo, quando si alza in piedi alla Camera: “Oggi in Italia
esiste un’organizzazione pubblicamente riconosciuta e nota nei suoi aderenti e
nei suoi capi, di bande armate le quali dichiarano apertamente che si
prefiggono atti di violenza, di rappresaglia, minacce, incendi e li eseguono.
Oggi si va ai funerali non più con la sola pietà ma con il pugnale tra i denti
e la rivoltella in mano. La verità è che la violenza e l’illegalità in cui si
pone questa organizzazione armata corrispondono in questo momento a un
interesse della classe capitalistica. La violenza è esercitata per interessi di
classe, per interessi economici e non contro fatti politici o in risposta a
provocazioni. Il governo presume di essere al di sopra delle classi, garante
dell’ordine pubblico. Noi invece affermiamo in precise parole che il governo
dell’onorevole Giolitti è complice di tutti codesti atti di violenza, assiste
impassibile allo scempio della legge. La classe che detiene il privilegio
politico ed economico, che ha con sé la magistratura, la polizia, l’esercito e
il governo per difendere il suo privilegio esce dalla legalità e si arma contro
il proletariato. Infine
Matteotti fa una domanda: “Il lavoratore che ha visto incendiata la Camera del
Lavoro, pensate voi che possa, nella sua ignoranza e nella sua primitività, non
coltivare un pensiero di vendetta verso la casa dei signori? Si
comincia a prendere atto che il fascismo acquista spazio e consenso attraverso
le azioni squadriste, e nel momento più caldo degli scontri di piazza e delle
spedizioni punitive aumenta di oltre tre volte le sue sezioni e vede più che
raddoppiati gli iscritti “La borghesia impaurita dal nostro abbaiare morde, e
morde sodo” adesso ammette amaramente Serrati.
È
un’analisi ancora di superficie che rivela sorpresa e impotenza, manca nel
socialismo, quella che Nietzsche, nei suoi mesi passati tra le rette e gli
incroci perfetti di Torino chiamava “la capacità psicologica di vedere dietro
l’angolo”. È qui che Gramsci comincia a pensare a un esito, a uno scarto, a un
golpe fascista. I socialisti non si sono mai posti seriamente la questione
della possibilità di un colpo di stato e dei mezzi da predisporre per
difendersi e per passare all’offensiva. Ma chi ha la forza se ne serve. Il
colpo di stato dei fascisti, cioè dello stato maggiore, dei latifondisti e dei
banchieri, è lo spettro che incombe”.
In
quel momento nel mondo socialista e comunista nessuno stava comprendendo la
portata della sfida fascista e nel congresso di Livorno non se ne parlò: la
Cgdl ripeteva che la reazione non avrebbe fermato il cammino della classe
operaia. Bordiga stava teorizzando che fascismo e governo borghese fossero la
stessa cosa, Serrati continuava a ripetere “noi sappiamo che vinceremo,
conosciamo la meta che dobbiamo raggiungere, valutiamo i pericoli per strada,
calcoliamo le soste forzate e anche gli arretramenti”. Nessuno pensava a un
modo per contrastare lo squadrismo. Avevamo
esattamente in mente questi passaggi quando, quasi due anni fa, con il compagno
Felice Besostri, abbiamo ideato il “Dialogo Gramsci-Matteotti” allo scopo di
aprire un dibattito nella sinistra italiana (o meglio tra ciò che ne rimane) in
vista del centenario di quel congresso che vide la separazione delle due anime
del movimento operaio. Oggi
il libro di Ezio Mauro suffraga autorevolmente la nostra intuizione e ci spinge
ad andare avanti sul piano della proposta politica. Molti
ci hanno criticato (anche stizzosamente) rivendicando tratti di passate
identità e primazie di varia natura. Il
nostro intento non era certo quello di appiattire la storia alla ricerca di
confronti impossibili: abbiamo ben presente tutto il complesso itinerario che
seguì quel Congresso e le ragioni per le quali “il rammendo” (ancora una
citazione dal libro di Ezio Mauro) non si verificò neppure al momento della
caduta del sistema del cosiddetto “socialismo reale”. Quell’occasione
non fu colta, quando tutto stava cambiando e la storia non era certo finita, in
quanto la maggioranza del PCI che proponeva il PDS scelse di rifugiarsi in un
anodino “sblocco del sistema politico” anziché compiere una delle due scelte
possibili: la confluenza nel filone della socialdemocrazia (impedita nello
specifico del “caso italiano” dalla logica di potere imperante nel PSI , logica
tenuta assieme al persistere di un’antica vocazione movimentista, mutuata dal
massimalismo storico), oppure la piena valorizzazione della specificità del
comunismo italiano.
Specificità
del comunismo italiano mutuata dall’intreccio Gramsci-Togliatti partendo dalla
messa in ombra (con la pubblica dei “Quaderni”) del materialismo dialettico
sovietico (nella sostanza l’assunzione piena del “genoma Gramsci” non inquinato
dal politicismo esercitato dal nuovo gruppo dirigente succeduto al filone
berlingueriano). La
nostra idea del “Dialogo Gramsci-Matteotti” non stava (e non sta) sicuramente
nella ricerca di impossibili sintesi. L’accostamento “Gramsci-Matteotti” si
colloca, invece, nella lezione che i due martiri antifascisti seppero fornire,
ciascuno dal proprio punto di vista, configurandosi
come esigenza di disporre di una visione comunque riferita alla loro capacità
di preveggenza, anticipazione e analisi (in particolare al riguardo del
fascismo). Abbiamo bisogno di riprendere in mano
lo strumento dell’analisi e nessuno, nella nostra storia, ce lo può insegnare
meglio di Gramsci e Matteotti. Livorno 1921 può rappresentare l’imperdibile
occasione per presentare, proprio partendo dall’esigenza del Dialogo, il
progetto di una nuova soggettività di vera e propria “costruzione” di una nuova
sinistra che, in questo momento, è priva di rappresentanza nel nostro Paese. Una nuova sinistra nella cui fase di
costruzione si sviluppi una ricerca di collegamento attorno a due punti: 1) I
richiami ai punti più alti nella storia del movimento progressista nel nostro
Paese; 2) L’identità
costituzionale. Su questo punto va aperta una riflessione circa la mancata
risposta alla domanda implicitamente presente nei due esiti referendari del
dicembre 2016 e del settembre 2020 cui non è stata fornita una risposta
politica. Quali punti possono però rappresentare
gli elementi di distinzione e di identità che una nuova sinistra dovrebbe poter
sviluppare nell’attualità. Provo allora a riassumerne alcuni
riprendendo spunto da passaggi che sono già stati enunciati ed elaborati nei
mesi scorsi caratterizzati tra l’altro dall’emergenza sanitaria: Si
impongono, nel dopo-globalizzazione, due punti di fondo sui quali riflettere: 1)
Torna
a prevalere l’idea del “senso del limite”: quel “senso del limite” che richiede
l’esercizio dello spirito critico e della continua ricerca sulla realtà della
natura umana. Si è rovesciato il senso delle "magnifiche sorti e
progressive" e la storia non è certo finita anche se è difficile
individuarne traiettorie lineari; 2)
Il
governo delle cose non può essere demandato alla volontà di potenza di chi
detiene il dominio di una tecnologia che punta esclusivamente all’estetica
dell’apparire posta in funzione della crescita esponenziale dei margini di
disuguaglianza (com’è avvenuto nel corso degli ultimi decenni). Non
so se cercare di limitare il dislivello globale possa essere considerato
“riformismo” e se a questo progetto siano più vicini i socialdemocratici USA,
il Labour o altri ancora.
Rispetto
ai temi di fondo del modello di sviluppo e della stessa convivenza civile,
delle relazioni umane, degli interscambi non esclusivamente legati alla logica
del profitto, delle comunicazioni d’informazione e culturali ha ragione chi
sostiene che l’emergenza sanitaria globale oggi in corso, ci pone di fronte a
un’occasione possibile. Esaurite
le forme politiche che hanno segnato il ’900, tra l’idea dell’onnipotenza della
tecnologia e quella del ritorno all’indietro del tipo (tanto per ridurre
all’osso) della “decrescita felice” bisognerà pur individuare un nuovo
equilibrio. Per
poter pensare di fronteggiare il fenomeno emergente del caos (per altro ben
sostenuto dalla solitudine che deriva dall’esercizio degli strumenti di
comunicazione di massa) occorrerà allora ripensare ai concetti di “società
sobria” ben oltre il semplice criterio della sostenibilità. La
ricostruzione di un intreccio tra etica e politica potrebbe rappresentare il
passaggio fondamentale per delineare i contorni di questa “società sobria”
avendo come base di proposta una nuova “teoria dei bisogni” (lasciando da parte
“i meriti”: le urgenze sono troppo impellenti anche se bisognerà non limitarci
a pensare a una “società dell’emergenza”); Servirà studiare per definire un
aggiornamento teorico relativo proprio alla realtà delle “fratture” esistenti,
sulla base del quale riaggregare primordialmente interessi specifici. Inedite
segmentazioni si presentano nella complessità sociale e ci pongono di fronte ad
una esigenza forte di radicalità progettuale: anche i vecchi schemi lib-lab
risultano sicuramente superati e ancor più “retrò” appare la vecchia manovra
della sinistra che vince al centro. Va posta per interno la dimensione della
prospettiva di una società alternativa a quella fondata su di un’economia
dell’arricchimento progressivo. Quell’arricchimento progressivo posto sul piano
individualistico del consumo che abbiamo ben visto come diventi inutile (e
dannoso) in fasi di difficoltà generale. Nell’evidente
inadeguatezza dei modelli cui ci si è ispirati nella globalizzazione la vicenda
dell’epidemia ci dimostra che siamo rimasti fermi a contemplare ciò che accade senza disporre di idee e di
organizzazione per attaccare, come sarebbe necessario, il muro della
separatezza tra i popoli e tra i ceti sociali.