Il
romanzo di Sandro Veronesi Il colibrì (ed. La nave di Teseo) contraddice
certamente quella “fine della letteratura” sostenuta da critici di diversa
formazione culturale, ma tutti di notevole livello, lontani, di principio, da
quella recensione che fa parte, magari a titolo diverso, della catena
pubblicitaria. L’opera del nostro autore costruisce un testo letterario del
nostro tempo senza le artificiose accentuazioni di un realismo disperato e
diffuso, ma con una contestualizzazione semantica, morale, ambientale ed
emotiva che appartiene all’abitudine più diffusa, quando si parla senza farci
caso. Il livello simbolico ha sempre una sua omogeneità rappresentativa che,
ovviamente, è declinata nei suoi timbri soggettivi. Gli
ultimi decenni che abbiamo vissuto hanno visto il declino (e una parziale
nostalgia) della cosiddetta “critica impressionistica”, un’opera di diverso stile,
ma sempre letterariamente pregevole, che nasceva da un creativo ascolto del
romanzo; abbiamo assistito alla fine (spesso autocritica) della pratica
“scientifica” strutturale (derivata dalla linguistica), quasi un oggettivo
inconscio rispetto a un dominante desiderio di senso. Oggi,
mi pare, la critica abbia tesaurizzato varie esperienze, abbandonando la
presunzione della teoria e lasciando ognuno nella artigianale abilità, molta o
poca che sia. Non c’è altro da tentare. Il
Colibrì. Marco Carrera, è il personaggio centrale intorno al quale ruotano
nella giostra della vita eventi, sentimenti più o meno chiari, ombre più o meno
fuggevoli, desideri difficili o inattesi, luoghi privi di novità; un medico
oculista. Da ragazzo di statura troppo bassa per la sua età, e poi riportato
alla corretta proporzione tramite la cura di uno specialista di Milano. Prima
ragione del venire a galla lo screzio dei genitori di Marco, Letizia e Probo, a
lungo oscurato nella vita matrimoniale da tattiche opportune che quietano le
differenze, e quindi le identità, delle due nature. Marco
Carrera “colibrì”, anche alla fine quando è visibile il suo transito nel mondo
e si può notare che l’architetto, come il minuscolo uccello sul ramo, ha
consumato il suo tempo in un movimento che non contraddice, anzi conferma una
propria continuativa stabilità. Semplificando
si potrebbe dire che il romanzo è la storia di Marco poiché si dipana per circa
mezzo secolo. Ma l’autore conosce bene il difetto di sottintendere una
temporalità lineare che enumera secondo il proprio stile fatti, pensieri,
eventi, sensazioni, identità che costituiscono il tessuto di senso e l’accadere
di una vicenda personale. Lo
storico di grandi venture può far conto di questo stile, il narratore di
dolorose, fragili e inaspettate vicende di soggettività deve sapere che il
tempo, in questo caso è qualitativo e plurale, memoria e progetto, nostalgia e
speranza, verità fattuale e messa in scena, tutte ricche possibilità di una
scrittura confidenziale. E infatti nel romanzo è proprio così. La
narrazione procede per tratti che hanno date differenti. La metafora del fiume
che scorre appartiene allo sguardo di chi suppone di guardare il fiume. Ma
Marco, oculista non aggiornato scientificamente, ma non privo di altro sapere,
sa che lo sguardo è un corpo: tanti sguardi tanti corpi, ma nessuno sulla riva
con l’occhiata superiore di Dio, privo di ogni qualità che non sia lo sguardo
superiore del cielo. Forse
è proprio questa considerazione che invita a una ostilità nei confronti del sapere
psicoanalitico imputato (ancora) di atteggiamenti causali e quindi sospetto
della conoscenza che deriva da un certo dominio. Un’altra
questione sulla quale è bene venire in chiaro, né più né meno di come ha
operato l’autore a livello della sua composizione, è questa: il libro si può
dividere in due parti. Una prevalente, è “realistica”, un’altra, quella finale
quando Marco diviene il nonno di una prodigiosa bambina. Quivi appare una
narrazione ostentatamente aperta alle risonanze mitiche. La trasformazione del
mondo secondo i valori positivi che costituiscono il disegno del nostro
paradiso terrestre. Potrei
perfino dire che tramite la miracolosa bambina (che dirò più a lungo) l’opera
accoglie in primo piano il pensiero dell’autore, la sua “lezione di morale”. Date
queste informazioni “scolastiche” cercherò di ridurre il romanzo al modo in cui
un lettore (peggio, un ascoltatore) vuole prestare attenzione (la parola
“attenzione” è però teorica e merita riguardo) alla narrazione di una storia,
inventando i destini. È
un tradimento del romanzo da parte del critico che un poco assomiglia al
tradimento di un traduttore rispetto al testo di un’altra lingua. Tuttavia il
comprendere (che non è la “filosofia”) finisce nell’essere sempre una cosa
diversa, deformazione compresa, dall’ascoltare solo l’onda estetica. Per
tutta la sua infanzia Marco Carrera non si era accorto di nulla. Non si era
accorto dei contrasti tra sua madre e suo padre, dell’ostile insufficienza di
lei, degli esasperati silenzi di lui […] lei, Letizia, architetta, tutta
pensiero e rivoluzione, lui ingegnere tutto calcoli e manualità, lei
risucchiata dall’ambiente dell’architettura
radicale, lui probo, il migliore esecutore di plastici del centro Italia – e
per ciò non si era accorto che sotto il moscio benessere nel quale lui (Marco)
e i suoi fratelli (Giacomo e Irene) venivano allevati “la loro unione era
fallita”. L’importante
di questa sorte è il rapporto forzatamente tollerabile tra finzione, tattica,
desiderio e silenzio; una opposizione borghesemente alterata, come mondo
giusto, quale superamento dell’adolescenza nell’età più matura o tra fantasia e
obiettiva regola sociale, tra felicità e consuetudine. Potremmo anche dire che
questa antinomia che domina l’esistenza, ben nota in altre narrazioni dell’800,
domina il più largo tratto del romanzo. Una
sera del 1981 mette sulla scena il capitolo forse più importante della
costruzione del romanzo, quello dove vi sono i semi di future fioriture. L’appuntamento
in un ristorante più lontano dal luogo di vacanza è tra Probo e Letizia (poco
pensiero) e la vedova di un antico amico di Probo, ucciso in un incidente
stradale che diviene il motivo centrale della chiacchiera. Probo fa un calcolo
delle probabilità relative alla possibilità dell’incidente, Letizia ascolta con
una attenzione, per l’ultima volta affettiva, questo gioco razionale
dell’esistenza. È il commiato del matrimonio fallito.
Sandro Veronesi
Altrove,
con facili “inganni” Marco e Luisa trovano, dopo gli anni dell’amorosa
adolescenza, la felicità di un amore come perfetto scambio di identità. Giacomo,
anch’egli da tempo innamorato di Luisa, scopre la sua definitiva esclusione.
Irene, con la distruttiva certezza di non poter giocare la recitazione di una
vita, la sola che conosce il fragilissimo e ostile rapporto tra i genitori,
rifiuta la vita (gesto che il fratello Marco le aveva sottratto anni avanti). È
la sera degli indifferenti, necessari e sbagliati addii. In
breve, ma un breve fatale, i genitori hanno segnato con la loro ostilità, oltre
che il proprio cammino, anche quello dei figli. Giacomo se ne va in America a
cercare una (vana) possibilità di vita, di Irene sappiamo la fine. Colibrì
dovrà giustificare la sua centralità romanzesca. Irene
(anche se non si dice) cadrà nel tranello del nobile matrimonio borghese
surrogato dalla abitazione nella più libera città d’Europa, Parigi. Sarà
un suo debole conformismo a lasciare Marco, o sarà Marco a distinguere la
passione della giovinezza con il maturo sentimento matrimoniale? Nulla andrà
veramente perduto: terranno, con varie pause di senso e intelletto, una
corrispondenza impossibile a riassumere che assomiglia a un’ombra tenace di una
vita pure accaduta, ma con il segno perseverante della dissipazione. La
scrittura, una volta di più, manifesta la verità e la libertà che l’approccio
individuale impedisce perché, involontariamente, resuscita tutta la ragnatela
delle obbligazioni borghesi. Il loro patto, a non giungere mai allo scambio del
senso, è più saggio di quanto noi non si possa pensare. Quella
relazione, nel suo possibile alone amoroso, può essere l’ingresso alla
quotidianità reciproca, educata, fragile ma sempre sottintesa a una cauta
rassegnazione a un immaginato o reale possibile abbandono. La
vita di Marco riprende con la figura di nonno – padre di Adele che la moglie
inferma e il secondo marito pilota, non possono custodire. Marco e Adele danno una
forma inattesa alla vita, le due temporalità si fondono in un effetto non privo
di gioia. Ma
la vita prende incroci e forme che le pacifiche transizioni di una ragione
felice esclude dalla propria immaginazione. L’angoscia, oscura, rimossa, quasi
ignorata, è sempre nell’angolo nero dell’esistenza. Adele
è una ragazza sportiva e con altri amici abili scalatrice di rocce impervie.
Tuttavia la sua vita termina a 22 anni, a causa dell’imprevedibile rottura di
una corda, nel silenzio della montagna. È la seconda volta (la prima con il
suicidio della sorella) che il nulla aggressivo della morte assale la vita del
solitario colibrì. Marco
ha sotto gli occhi la conclusione priva di pietà. Eppure non può nemmeno sapere
che il suo autore ha come riserva finale un happy end. La vicenda? Adele lascia
a Marco la sua bambina straordinaria. Il padre, le circostanze, l’amore, il
desiderio, tutto tace in un sorridente silenzio. È
la vita nella sua semplicità, senza procedere dal gruppo di famiglia, che
riappare come richiamo all’essere dell’ormai smarrito colibrì. La nuova venuta,
crescendo mostra i caratteri di una “vita nuova”, di una sintesi magica: gli occhi
orientali a mandorla, i capelli crespi del mezzogiorno, gli occhi di
quell’azzurro che, per esempio, nell’estremo Nord della Finlandia, accompagnano
il viaggiatore incredulo che attraversa decine e decine di luoghi, uno dopo
l’altro. Il
suo nome è giapponese e significa “uomo nuovo”. Marco, colpito dalla dis-grazia
di Adele, convince se stesso, che finché sarà possibile, porterà la bambina
sempre con sé. La bambina mostra abilità straordinarie in ogni attività che
intraprende. L’amico
psichiatra che spesso l’aveva assistito, gli regala una amaca nella quale Marco
colloca la bambina portandola con sé ovunque desidera andare. Sino al punto di
portarla in una bisca dove, contrariamente al presagio di un amico che, fin dai
tempi della giovinezza, era noto come (un milanese) menagramo, vince una cifra
spropositata. Ma se ne va senza prendere nemmeno una moneta del tesoro vinto al
gioco. Se l’andare al gioco d’azzardo è la terapia di una virtuosa rimozione di
un vizio giovanile, il disprezzo del denaro è una certezza morale. Come
lo sono certamente le pagine pungenti in cui l’uomo nuovo (che è una donna)
rovescia le forme dominanti del nostro mondo (l’elenco magistrale è
dell’autore, ma, nel complesso epocale, il senso è noto a tutti noi). Quasi ad
indicare un nuovo inizio. O una nostalgia di un'altra epoca quando gli oggetti
della casa (preziosi per Marco) sono la storia dell’abitare, e fanno di un
locale il famoso “luogo” di Marc Augé. E guardando in prospettiva il nostro
Colibrì non possiamo pensarlo simile a un timido eroe del nostro tempo? E
qui mi pare che lo scrittore sia parlando, attraverso la bambina prodigiosa, di
un proprio pensiero. Un gran finale che non oblia la morte razionale del
Colibrì. Ora, mi fermo, perché o l’ora, mentre l’abitudine filosofica forse
potrebbe eccedere. “Bello” è una parola fondamentale dell’estetica del
Settecento. Ma la adopero per concludere la mia partecipazione al libro di
Sandro Veronesi.