L’invasione
del Parlamento americano da parte di una torma di facinorosi inneggianti a
Trump e alla “vittoria tradita” (strana similitudine con la “vittoria
mutilata”) non può essere ridotta a episodio numericamente trascurabile oppure
a un rigurgito dell’America profonda o a un’altra qualunque espressione di
jacquerie. Tralasciamo anche la retorica dell’assalto al cuore della democrazia
occidentale, al simbolo del sistema, ecc, ecc. In
realtà il sistema è da tempo in profonda crisi, cede il passo e quasi si
arrende ai frutti avvelenati di una concezione della politica che non è
semplicemente sovranista e/o populista ma rappresenta una interpretazione dei
bisogni di massa e una diversa capacità di espressione attraverso il racconto
raccolto dai nuovi strumenti tecnologici. Soprattutto però la crisi deriva
dall’isolamento sociale e dall’estendersi e dall’acuirsi delle contraddizioni,
al riguardo delle quali la forma della democrazia “liberale” e i soggetti che
la animano non riescono più a fornire una plausibile interpretazione. I tumulti
simil-golpisti verificatisi all’interno di Capitol Hill non possono che essere
catalogati attraverso categorie sulle quali ci è già capitato di esercitarci e
che troviamo oggi occasione di ribadire e al riguardo delle quali appare
proprio come insufficiente la riflessione della sinistra a livello
internazionale. Una sinistra ormai ridotta quasi a una mera appendice
“politicista” della governabilità comunque. Siamo di fronte a:
1). Il procedere di un
ulteriore processo di disfacimento sociale verso il quale l’idea della sintesi
politica (una volta appartenuta alle grandi formazioni partitiche) appare
inefficace; 2). L’emergenza del
prevalere di una visione politica facile da semplificare nella narrazione, con
l’utilizzo di una sorta di “manicheismo”: a di là o di qua, senza sfumature,
proprio perché sembra impossibile rintracciare un’appartenenza definita. Si
verifica così il passaggio dalla “democrazia del pubblico” (Manin) alla
“democrazia recitativa”. Nella “democrazia recitativa” è facile prevedere una
fase di egemonia appannaggio della destra; 3). Non è più questione
di disaffezione dalle pratiche della democrazia ma di transito di interi
settori sociali da una parte all’altra degli schieramenti e di una forte
mobilità tra questi: per sfuggire all’incalzare dello sfruttamento, al
predominio della tecnologia (cui è attribuita anche la responsabilità
dell’emergenza sanitaria), considerando la “paura” quale vera e propria
categoria politica, grandi masse si sono rifugiate nella certezza di una
identità da difendere, la “propria” appartenenza di “focolare”. L’azione
politica viene così considerata soltanto in chiave difensiva (al limite quasi
di difesa antropologica) avendo smarrito il senso dell’appartenenza a una
condizione sociale. In questo modo masse di sfruttati e marginalizzati (o
neo-marginalizzati) votano a destra perché credono sia loro garantita una
riconoscibilità “di gregge”.
La
politica appare così lontana dal quotidiano e ridotta a mera espressione di una
visione intellettuale capace soltanto di mediare quasi in esclusiva la funzione
del potere. Una politica che fa fatica a riconoscere il forte stridio della
nuova qualità delle contraddizioni e finisce con l’assumere posizioni “mediane”
ormai fuori dal tempo e frutto soltanto di una concezione arcaica
dell’autonomia del politico. Siamo di fronte a fatti che stanno mutando il
quadro complessivo: al di là dell’Atlantico la difficoltà nell’insediamento di
Biden sarà da verificare nei suoi effetti al riguardo della politica che potrà
essere concretamente sviluppata dal nuovo Presidente che dovrà agire in un
paese spaccato (Bremner oggi aggiunge anche “sotto ricatto di nuove
insurrezioni”), e al di qua dell’Oceano ci sarà da analizzare l’esito della
Brexit nel quadro di un tentativo di ritorno all’atlantismo. Il
tutto nel contesto dell’incertezza globale derivante dall’emergenza sanitaria. La
vigilia sembra proprio essere quella di uno “spostamento d’asse”.