Pagine

domenica 10 gennaio 2021

La messa a lavoro di una parola ardua
di Andrea Nuti

Velio Abati
 
L’assenza di linearità, una “scrittura ispida, acuminata” (Marusca, p.106), unita alla forza delle immagini e soprattutto della parola sempre rigorosamente scelta, genera nel lettore motivato la voglia di costruire il senso del proprio discorso messo a lavoro da Velio. L’assenza genera movimento, l’ostacolo bisogno. “Occorre lo strappo d’un imprevisto, perché il profumo di una vigna o uno sfavillio di celeste irrompa” (Non ho tempo, p.144). Questa è per me l’azione di queste Fughe: mettere a lavoro il lettore, ‘imporre’ una fatica intellettuale, da cui sola può nascere consapevolezza sociale e coscienza collettiva. Da questo punto di vista la costruzione del testo, che avviene a posteriori da parte del lettore, è momento da affiancare alla condivisione successiva, “è la realtà storica, sociale e psicologica del lettore a fecondare un’altra volta il testo, producendo nuovo senso” (Lutero, p.142); i momenti d’incontro che ruotano intorno al romanzo sono parte integrante del romanzo stesso, fanno parte della costruzione dell’opera come azione. L’obiettivo che a me pare principale è proprio questo mettere a lavoro un collettivo. Velio lo fa nella consapevolezza lacaniana dell’impossibilità dell’insegnamento come proposta di un sapere rotondo e tutto pieno e, proprio in virtù di questa impossibilità, ciò che diventa indispensabile è l’apertura generata dai vuoti di comprensione immediata. Scrive Velio nell’Invito: “Alla dispersione pulviscolare degli eventi dell’esistenza da cui le prose muovono, tenta di contrapporsi la spinta a un orizzonte di senso che genera sull’insieme effetti d’eco” (p.5); trasformo, alla luce di quanto scritto sopra, che alla dispersione pulviscolare delle nostre singole esistenze, si tenta di contrapporre un orizzonte di senso che sembra un eco perché viene dal passato ma si diffonde nel presente, perché forse labile come una voce lontana ma anche sorprendente come il fascino di un suono che “riaccende […] energie che credevamo ormai spente” (Sulle domande del lettore, p.165). Colgo nel testo allo stesso tempo il desiderio dell’unità di senso che risponde alla frammentazione del presente e che emerge dal bisogno stesso di mettere insieme voci del personale passato, ma anche quello di generare inciampi necessari al lavoro intellettuale per la successiva costruzione di significato.



In Lorenzo si legge: “Sempre, a un grado più o meno grande, in ogni atto linguistico soffia e preme la massa del taciuto […] e del non linguistico […], ognuno potentemente concorre al significato, tanto che è sorprendente quanto tutto sommato poco frequente sia prendere fischi per fiaschi” (pp.64-65) e ancora “come e più di chi ascolta in una conversazione, il lettore non è lo specchio del testo […] Leggere non è premere il tasto di una registrazione: è una collaborazione, il suo frutto è il significato di volta in volta assunto dal testo medesimo” (p. 67). Ecco perché l’autore ci invita agli esercizi cinesi sulla quotidiana ginnastica della mente, partendo proprio da una domanda su quali e quante siano le persone con cui avvenga il confronto su noi stessi e sul mondo e arrivando alla desolante risposta: “le conoscenze me le procuro in un modo non dissimile nella sostanza dalle mie escursioni al supermercato” (Esercizi cinesi, p.130). La collaborazione al testo è tanto più sollecitata dai titoli delle voci, appunto nomi a fianco dei quali potremmo trovare anche i nostri: l’autore ci chiama per nome e ci osserva con amorevole cura, ma non sempre la collaborazione riesce, l’insuccesso è esito possibile come nel caso dell’incontro con Ĉigoĉ, talvolta si genera lo scontro dialettico da cui si scappa come dalla vertigine delle parole di Marcello, ma tutto diventa vita. Nei ritratti della prima parte, l’autore ci regala passaggi di splendida poesia che intrecciano insieme il romanzo Domani e il canzoniere Questa notte. Non riesco ancora a staccarmi dalla morte di Gabrio “sembra alla deriva, in lotta inerte con le onde: una rondine infine vi s’apposa e la inabissa, lei volando via” (Gabrio, p.46).
E allora su cosa sono stato soggettivamente messo a lavoro? Gli stimoli sulla scuola e sul rapporto fra formazione critica e addestramento al lavoro sono quelli che maggiormente mi hanno colpito in quanto docente, sebbene i riferimenti ai temi ambientali e del mondo del lavoro non mi lascino indifferente. Delle pagine di Velio faccio mio l’impegno a non cedere sull’attenzione all’uso delle parole; gli acronimi imperanti nel mondo della scuola, la trasformazione semantica di alcuni termini in chiave aziendalistica e liberista, l’uso sempre più fastidioso dell’inglese nella pratica didattica devono mettere in guardia e stimolare in senso opposto. Parole si intitola uno dei capitoli della seconda parte del testo: in esso l’autore ci ricorda che viviamo “in una ragnatela dalla mirabile capacità di trasformare il più individuale e intimo gesto, la parola, nel più astratto e anonimo valore di scambio, dove nessuno parla più a nessuno” (p.147). 




L’impegno arduo dei docenti dovrebbe oggi essere di far emergere in ogni contesto possibile la parola come esperienza autentica, frutto di riflessione e meditazione e “se la parola che in questo modo esce è ardua, lo sarà solo per la promessa che indica necessaria. Perché ci fa toccar con mano la bellezza che ci si sottrae, ma che ci appartiene quale nostro bene più intimo” (Ai sei lettori, anzi lettrici, p.116). L’urgenza della cura e del valore delle parole emerge dalla sempre più diffusa incapacità dei nostri ragazzi di comprendere testi di media difficoltà e, in modo collegato, dall’afasia sul sé che rende la scena interiore come “notte deserta” (Politéia, p.149). Trasformare la parola in esperienza “è vivere le sfumature, i contrasti, le intermittenze […] per questo non chiedo compilazioni di schede, ma diari di lettura” (Lettere, p.138). Credo che oggi sia provocatoriamente interessante nelle sedi adeguate, come i collegi o i consigli di classe, modificare le parole o le strutture schematiche e preordinate degli strumenti didattici o burocratici che spesso vengono proposti in queste stesse sedi. Ribadire che lo strumento principale del lavoro docente è la passione della parola interna alla relazione umana, da anteporre ad ogni altro strumento tecnico e semplificante, è sicuramente necessario, ma in realtà assai difficile ed ostacolato.



La fotografia che l’autore scatta sulla scuola nata dalla riforma Berlinguer e all’Università successiva alla riforma Zecchino è impietosa: “tutti i rilievi statistici a disposizione segnalano la precipitosa regressione dalla scolarizzazione di massa, conquistata nel trentennio del secondo dopoguerra: abbandoni scolastici, analfabetismo funzionale, inutilità dei titoli ottenuti, ostacoli senza fine - disciplinari ed economici - per chi voglia percorrere alti studi. Tutti fenomeni troppo convergenti e massivi, perché siano dovuti al caso” (Esercizi cinesi, p.131). Il capitalismo finanziario ha costruito e affermato il proprio lessico anche internamente alla scuola e le sue parole d’ordine sono quelle espresse da Velio in Se io oggi sono qui a parlarvi: razionalizzazione, ovvero disinvestimento pubblico, autonomia ovvero frammentazione operata in nome di una lotta contro l’oppressione centralistica, l’individualizzazione dell’offerta formativa che si configura di fatto come sistema di classificazione e stratificazione e soprattutto lo smantellamento dell’orario dedicato all’insegnamento disciplinare in nome della centralità dell’addestramento per competenze.



“Non abbiamo più tempo” (Non ho tempo, p.145), scrive l’autore, sollecitato dalle parole di una studentessa dimentica di una breve certificazione. È giunto “il tempo d’invertire la rotta” perché “il futuro […] è nelle nostre mani” (Se io oggi sono qui a parlarvi, p.157), recuperando il meglio delle esperienze del passato, “una visione complessiva alternativa e una corrispondente capacità di agire in modo coordinato” (Virtù, p.170). A premessa di questo obiettivo serve praticare la centralità del dialogo come esperienza non solo individuale ma soprattutto sociale perché “sono convinto che uno dei modi più oppressivi - perché pervasivo, perché nasce dall’abbrutimento della mente e lo moltiplica - dell’odierna restaurazione antidemocratica è proprio la mancanza di dialogo” (Sulle domande del lettore, p.163). In questa ricerca di confronto un rischio è sempre dietro l’angolo: quello di cullarsi nel narcisistico piacere del cercare chi è come sé, nella trasformazione del cenacolo da luogo di produzione di idee e azioni a luogo di intrattenimento di fatto simmetrico alla minestra imbonitrice dello show business, oppure in recinti nei quali i soggetti “si convincono della verità per il fatto che risuonano della medesima asserzione” (Politéia, p.152).
Grazie all’autore perché in una scuola nella quale i giovani colleghi non hanno mai fatto esperienza della compattezza di un collegio o di un consiglio di classe, nella quale i soggetti, insegnanti o alunni, ‘imprenditori di se stessi’, spesso si muovono come monadi separate l’una dall’altra a causa di una profonda desertificazione e frammentazione del tessuto sociale, la narrazione e la presenza di intellettuali più esperti è come rugiada al mattino. Tenere insieme il completo grigio e l’andatura ieratica del Prof. Attilio, che purtroppo non si fa più trovare, con la forza attiva della giovane Rafaela: questo è l’impegno morale e insieme seducente che ci aspetta in questi prossimi anni.