LA PANDEMIA E LE SUE AMBIVALENZE di
Eugenio Borgna
Eugenio Borgna
Una
emozionante e delicata riflessione del più celebre psichiatra italiano. Le
conseguenze psicologiche della pandemia sono molteplici, e dipendono dal nostro
carattere, dalle nostre età, e dalle condizioni ambientali, in cui ci siamo
confrontati con la solitudine, e con il cambiamento radicale dei nostri modelli
di vita, che si sono accompagnati alla pandemia. Le conseguenze psicologiche
più frequenti sono state, e sono, l’ansia e la depressione, che possono essere
ben tollerate, se viviamo in contesti familiari gentili e animati da ascolto, e
da amore, e sono invece difficili da tollerare, se ci sono conflitti, e se non
c’è dialogo, fra noi. Ma confrontarsi con la solitudine, abitando in una città
di provincia, ridesta risonanze emozionali radicalmente diverse da quelle di
chi vive in una grande città, e la stessa cosa si può dire, in una casa che
abbia, o non abbia, un giardino, o anche solo una soleggiata terrazza. Quando
la pandemia si concluderà, l’ansia e la depressione, sia pure con modalità
diverse in ciascuno di noi, a mano a mano si spegneranno, e non saranno se non
ricordi più, o meno, sfumati, se non ci saranno conseguenze economiche
persistenti. Le conseguenze psicologiche di questi lunghi mesi di solitudine e
di ansia saranno più avvertibili negli adulti, che non nei bambini, nei quali
le risorse interiori sono molto più creative, e più dotate di immaginazione e
di fantasia. Il futuro ha sconfinati orizzonti nei bambini, e non negli adulti,
nei quali è molto più alto il rischio di non riuscire a dare un senso alla
propria vita.
Borgna in un disegno
L’ansia
ha mille modi di insorgere, e di svolgersi, ma non bisogna fare di ogni erba un
fascio. Non sempre l’ansia è patologica, c’è anche un’ansia normale, come quella
che nel tempo della pandemia nasce in noi, uscendo di casa, nel timore di
essere contagiati. L’ansia, che cresce vertiginosamente divenendo panico, è
malattia, che i farmaci ansiolitici riescono più, o meno, rapidamente a
guarire. L’ansia non dovrebbe spaventarci, un buon medico di base la conosce, e
sa curarla con medicine adatte. Non ci sarà bisogno di psichiatre, o di
psichiatri, quando la pandemia si spegnerà. Nel corso della pandemia ci sono
mancate, e ancora ci mancano, molte cose: quella che fa più male è la perdita
della libertà di organizzare la nostra vita, come vorremmo, e l’obbligo di
adattarci a comportamenti, che ci sono imposti, e che non sempre ci sono
spiegati nella loro ragione d’essere. La perdita di luoghi di socialità, come
sono il cinema, i concerti, o le mostre, è sorgente di malessere nelle grandi
città, e non nelle piccole città, nelle quali la loro importanza non è così
grande. Sì, le conseguenze psicologiche della pandemia sono state, e continuano
ad essere, arginate molto meglio in città non grandi, e in campagna. Ci sono
persone, giovani, e non più giovani, abituate a seguire il cammino che porta
alla interiorità, e che consente di conoscere quali emozioni siano, di volta in
volta, presenti nella nostra vita. Se siamo abituati a conoscerci, a riflettere
su quello che avviene in noi, sapremo facilmente riconoscere il nostro
malessere, la nostra fatica di vivere, e il nostro bisogno di aiuto.
Le
nostre ansie, le nostre insicurezze, sono senza dubbio accresciute dalle
indicazioni, dalle disposizioni, e dagli obblighi, che ci giungono dal governo,
e che cambiano continuamente, immergendoci in condizioni di inquietudine, alle
quali non è possibile fare fronte, come dice Rainer Maria Rilke in una delle
sue Elegie duinesi, se non vive in noi la speranza, che sa guardare al
futuro, e che, come dicono alcuni neuroscienziati, non può non essere
considerata un farmaco. La
solitudine, che ci è stata imposta al fine di arginare la diffusione della
pandemia, e le altre forme di limitazione della libertà, sono state sorgente di
grande sofferenza. Il nostro destino è quello di vivere gli uni accanto agli
altri, in un clima di comunione, e di solidarietà, e non essere in contatto con
gli altri ci fa stare male; ma è necessario sapere attendere con fiducia: il
vaccino la merita, ed è ovviamente indispensabile. La paura si è accompagnata
alla solitudine, e le straordinarie parole di Friedrich Nietzsche ci dicono che
il cuore, le ragioni del cuore di Pascal, ci consentono di non cadere negli
abissi della disperazione, nei quali la paura ci trascina. Le sue parole, in Così
parlò Zarathustra,definiscono mirabilmente la funzione conoscitiva
del cuore, intrecciandola a quella del coraggio: “Avete coraggio, fratelli?
Avete cuore? Non coraggio davanti a testimoni, bensì il coraggio dei solitari e
delle aquile, cui non fa spettatore nemmeno più un dio”; e ancora: “Ha cuore,
chi conosce la paura, ma soggioga la paura, chi guarda nel baratro, ma
con orgoglio. Chi guarda nel baratro, ma con occhi d’aquila aggranfia
il baratro: questi ha coraggio”. Sì, la paura della pandemia ci ha portato alla
soglia degli abissi, e senza il coraggio saremmo precipitati in essi, e non ci
saremmo più salvati.
Le parole di Nietzsche non dovremmo dimenticarle nemmeno
quando la pandemia sarà arginata dal vaccino. La ragione non sarebbe bastata, e
non basterebbe, a difenderci dalla paura e dall’angoscia, che abbiamo
conosciuto nelle loro forme estreme, quando la paura dell’imprevisto e
dell’insondabile scendeva nella nostra vita, e solo il coraggio, questa
particella del cuore, ci aiutava a resistere. La solitudine e la paura sono
state nostre dolorose compagne di strada negli inenarrabili mesi della
pandemia, ma ad esse si associava, sia pure molto meno lacerante nelle sue
conseguenze, il silenzio. Siamo stati (tutti) chiamati a riempire di
significati le giornate vuote, e sempre uguali, nelle quali naufragavano le
parole: queste creature viventi. Ho scritto molte pagine sul silenzio, che ho
conosciuto bene, e a fondo, nel manicomio femminile, di cui sono stato
direttore in anni lontanissimi; e nondimeno non mi è facile dire che cosa si
nasconde nel silenzio. La tendenza è quella, nelle scuole, ma anche nella vita,
a considerare il silenzio come il modo di essere di una persona, che non ha
nulla da dire, mentre il silenzio può nascere dalla timidezza, dall’angoscia,
dal dolore, dalla solitudine, dalla meditazione, dalla riflessione, dalla
preghiera, dalla attesa, e dalla speranza. Accogliamo il silenzio, il silenzio
di una persona in questo tempo di pandemia in particolare, con rispetto,
cercando di riscoprirne le cause.
Rilke
Dalle
poesie di Rainer Maria Rilke, che fanno parte del Libro delle immagini,
vorrei stralciarne una (“Il silenzio”) che ha il silenzio come sua parola tematica.
Le poesie ci sono state di aiuto, o almeno questo è stato per me, nelle
settimane che si sono intrecciate le une alle altre, e che non sono ancora
finite. ***
Ascolta,
Amata, io sollevo le mani – Ascolta:
nasce un suono… Ha
il solitario un gesto che non sappiamo le
molte cose in ascolto scoprire? Ascolta,
Amata, io abbasso le palpebre, e
anche questo è un rumore che giunge fino a te. Ascolta,
Amata, torno a sollevarle… …
ma perché non sei qui. Ogni
mio minimo movimento lascia nel
serico silenzio un’impronta visibile: l’emozione
più lieve s’imprime incancellabile sul
teso schermo della lontananza. Al
ritmo del mio respiro si alzano e
si abbassano le stelle. Alle
mie labbra s’abbeverano i profumi e
riconosco i polsi di angeli remoti. Solo
quella che penso: solo Te non
vedo. *
Nietzsche
Solo
nel silenzio si può ascoltare il suono delle mani che si sollevano, e quello
delle palpebre che si abbassano. Ogni invisibile movimento si rende visibile
nel silenzio, e nel silenzio, si intravedono le concordanze fra il respiro e il
movimento delle stelle. Così, leggendo Rilke, ho potuto dare un senso al
silenzio, alle ambivalenze del silenzio, nel quale ho vissuto in questi mesi,
ma questo perché mi è stato possibile trascorrerli in una cittadina non lontana
da Novara, nella casa paterna, che è immersa in un grande giardino con piante
secolari. Le condizioni abitative hanno avuto una grande importanza nel rendere
facile, o difficile, resistere alle conseguenze della pandemia. Lo dico con
nostalgia… Dovunque
si abitasse, comune a ciascuno di noi è stata l’angoscia del contagio e della
morte che hanno avuto andamenti diversi nella misura in cui si fosse, o non si
fosse anziani. Nella prima ondata pandemica la morte rinasceva improvvisa, e
oscura, senza consentirci di essere preparati, e di essere accompagnati da
familiari, o da persone amiche. La televisione con immagini strazianti, che si
sarebbero dovute evitare, testimoniava la solitudine, e l’isolamento, con cui
si moriva. Cosa, che non è avvenuta nella seconda ondata, nella quale non si
ripetevano le immagini di una morte così crudele, e così solitaria, e nella
quale rinasceva la speranza come passione del possibile, la celeberrima
metafora kierkegaardiana, che rende la speranza così semplice, e così umana,
così concreta, e così vicina alla vita di ogni giorno. Queste sono le mie
riflessioni sulle conseguenze possibili, sulle ambivalenze dolorose, della
pandemia, che ha sconvolto le nostre quotidiane modalità di vita, inducendoci
in ogni caso a riflettere sulla fragilità e sulla precarietà, sulle insicurezze
e sulle ferite dell’anima, che fanno parte della vita, insieme alla nostalgia
di comunione e di solidarietà. Sono pensieri che vengono dal cuore di
Nietzsche, e di Pascal, che, lo vorrei ripetere, ci consentono di ridare un
senso alle notti oscure dell’anima. Sono
molto grato ad Angelo Gaccione che mi invita a collaborare a questa bellissima
rivista dagli svolgimenti tematici multidisciplinari.