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venerdì 22 gennaio 2021

LA PANDEMIA E LE SUE AMBIVALENZE
di Eugenio Borgna


Eugenio Borgna

Una emozionante e delicata riflessione del più celebre psichiatra italiano.                     
 
Le conseguenze psicologiche della pandemia sono molteplici, e dipendono dal nostro carattere, dalle nostre età, e dalle condizioni ambientali, in cui ci siamo confrontati con la solitudine, e con il cambiamento radicale dei nostri modelli di vita, che si sono accompagnati alla pandemia. Le conseguenze psicologiche più frequenti sono state, e sono, l’ansia e la depressione, che possono essere ben tollerate, se viviamo in contesti familiari gentili e animati da ascolto, e da amore, e sono invece difficili da tollerare, se ci sono conflitti, e se non c’è dialogo, fra noi. Ma confrontarsi con la solitudine, abitando in una città di provincia, ridesta risonanze emozionali radicalmente diverse da quelle di chi vive in una grande città, e la stessa cosa si può dire, in una casa che abbia, o non abbia, un giardino, o anche solo una soleggiata terrazza. Quando la pandemia si concluderà, l’ansia e la depressione, sia pure con modalità diverse in ciascuno di noi, a mano a mano si spegneranno, e non saranno se non ricordi più, o meno, sfumati, se non ci saranno conseguenze economiche persistenti. Le conseguenze psicologiche di questi lunghi mesi di solitudine e di ansia saranno più avvertibili negli adulti, che non nei bambini, nei quali le risorse interiori sono molto più creative, e più dotate di immaginazione e di fantasia. Il futuro ha sconfinati orizzonti nei bambini, e non negli adulti, nei quali è molto più alto il rischio di non riuscire a dare un senso alla propria vita.


Borgna in un disegno 

L’ansia ha mille modi di insorgere, e di svolgersi, ma non bisogna fare di ogni erba un fascio. Non sempre l’ansia è patologica, c’è anche un’ansia normale, come quella che nel tempo della pandemia nasce in noi, uscendo di casa, nel timore di essere contagiati. L’ansia, che cresce vertiginosamente divenendo panico, è malattia, che i farmaci ansiolitici riescono più, o meno, rapidamente a guarire. L’ansia non dovrebbe spaventarci, un buon medico di base la conosce, e sa curarla con medicine adatte. Non ci sarà bisogno di psichiatre, o di psichiatri, quando la pandemia si spegnerà. Nel corso della pandemia ci sono mancate, e ancora ci mancano, molte cose: quella che fa più male è la perdita della libertà di organizzare la nostra vita, come vorremmo, e l’obbligo di adattarci a comportamenti, che ci sono imposti, e che non sempre ci sono spiegati nella loro ragione d’essere. La perdita di luoghi di socialità, come sono il cinema, i concerti, o le mostre, è sorgente di malessere nelle grandi città, e non nelle piccole città, nelle quali la loro importanza non è così grande. Sì, le conseguenze psicologiche della pandemia sono state, e continuano ad essere, arginate molto meglio in città non grandi, e in campagna. Ci sono persone, giovani, e non più giovani, abituate a seguire il cammino che porta alla interiorità, e che consente di conoscere quali emozioni siano, di volta in volta, presenti nella nostra vita. Se siamo abituati a conoscerci, a riflettere su quello che avviene in noi, sapremo facilmente riconoscere il nostro malessere, la nostra fatica di vivere, e il nostro bisogno di aiuto.



Le nostre ansie, le nostre insicurezze, sono senza dubbio accresciute dalle indicazioni, dalle disposizioni, e dagli obblighi, che ci giungono dal governo, e che cambiano continuamente, immergendoci in condizioni di inquietudine, alle quali non è possibile fare fronte, come dice Rainer Maria Rilke in una delle sue Elegie duinesi, se non vive in noi la speranza, che sa guardare al futuro, e che, come dicono alcuni neuroscienziati, non può non essere considerata un farmaco.
La solitudine, che ci è stata imposta al fine di arginare la diffusione della pandemia, e le altre forme di limitazione della libertà, sono state sorgente di grande sofferenza. Il nostro destino è quello di vivere gli uni accanto agli altri, in un clima di comunione, e di solidarietà, e non essere in contatto con gli altri ci fa stare male; ma è necessario sapere attendere con fiducia: il vaccino la merita, ed è ovviamente indispensabile. La paura si è accompagnata alla solitudine, e le straordinarie parole di Friedrich Nietzsche ci dicono che il cuore, le ragioni del cuore di Pascal, ci consentono di non cadere negli abissi della disperazione, nei quali la paura ci trascina. Le sue parole, in Così parlò Zarathustra, definiscono mirabilmente la funzione conoscitiva del cuore, intrecciandola a quella del coraggio: “Avete coraggio, fratelli? Avete cuore? Non coraggio davanti a testimoni, bensì il coraggio dei solitari e delle aquile, cui non fa spettatore nemmeno più un dio”; e ancora: “Ha cuore, chi conosce la paura, ma soggioga la paura, chi guarda nel baratro, ma con orgoglio. Chi guarda nel baratro, ma con occhi d’aquila aggranfia il baratro: questi ha coraggio”. Sì, la paura della pandemia ci ha portato alla soglia degli abissi, e senza il coraggio saremmo precipitati in essi, e non ci saremmo più salvati. 



Le parole di Nietzsche non dovremmo dimenticarle nemmeno quando la pandemia sarà arginata dal vaccino. La ragione non sarebbe bastata, e non basterebbe, a difenderci dalla paura e dall’angoscia, che abbiamo conosciuto nelle loro forme estreme, quando la paura dell’imprevisto e dell’insondabile scendeva nella nostra vita, e solo il coraggio, questa particella del cuore, ci aiutava a resistere. La solitudine e la paura sono state nostre dolorose compagne di strada negli inenarrabili mesi della pandemia, ma ad esse si associava, sia pure molto meno lacerante nelle sue conseguenze, il silenzio. Siamo stati (tutti) chiamati a riempire di significati le giornate vuote, e sempre uguali, nelle quali naufragavano le parole: queste creature viventi. Ho scritto molte pagine sul silenzio, che ho conosciuto bene, e a fondo, nel manicomio femminile, di cui sono stato direttore in anni lontanissimi; e nondimeno non mi è facile dire che cosa si nasconde nel silenzio. La tendenza è quella, nelle scuole, ma anche nella vita, a considerare il silenzio come il modo di essere di una persona, che non ha nulla da dire, mentre il silenzio può nascere dalla timidezza, dall’angoscia, dal dolore, dalla solitudine, dalla meditazione, dalla riflessione, dalla preghiera, dalla attesa, e dalla speranza. Accogliamo il silenzio, il silenzio di una persona in questo tempo di pandemia in particolare, con rispetto, cercando di riscoprirne le cause.

Rilke

Dalle poesie di Rainer Maria Rilke, che fanno parte del Libro delle immagini, vorrei stralciarne una (“Il silenzio”) che ha il silenzio come sua parola tematica. Le poesie ci sono state di aiuto, o almeno questo è stato per me, nelle settimane che si sono intrecciate le une alle altre, e che non sono ancora finite.
 
***


Ascolta, Amata, io sollevo le mani –
Ascolta: nasce un suono…
Ha il solitario un gesto che non sappiamo
le molte cose in ascolto scoprire?
Ascolta, Amata, io abbasso le palpebre,
e anche questo è un rumore che giunge fino a te.
Ascolta, Amata, torno a sollevarle…
… ma perché non sei qui.
Ogni mio minimo movimento lascia
nel serico silenzio un’impronta visibile:
l’emozione più lieve s’imprime incancellabile
sul teso schermo della lontananza.
Al ritmo del mio respiro si alzano
e si abbassano le stelle.
Alle mie labbra s’abbeverano i profumi
e riconosco i polsi di angeli remoti.
Solo quella che penso: solo Te
non vedo.
 
*

Nietzsche


Solo nel silenzio si può ascoltare il suono delle mani che si sollevano, e quello delle palpebre che si abbassano. Ogni invisibile movimento si rende visibile nel silenzio, e nel silenzio, si intravedono le concordanze fra il respiro e il movimento delle stelle. Così, leggendo Rilke, ho potuto dare un senso al silenzio, alle ambivalenze del silenzio, nel quale ho vissuto in questi mesi, ma questo perché mi è stato possibile trascorrerli in una cittadina non lontana da Novara, nella casa paterna, che è immersa in un grande giardino con piante secolari. Le condizioni abitative hanno avuto una grande importanza nel rendere facile, o difficile, resistere alle conseguenze della pandemia. Lo dico con nostalgia…
Dovunque si abitasse, comune a ciascuno di noi è stata l’angoscia del contagio e della morte che hanno avuto andamenti diversi nella misura in cui si fosse, o non si fosse anziani. Nella prima ondata pandemica la morte rinasceva improvvisa, e oscura, senza consentirci di essere preparati, e di essere accompagnati da familiari, o da persone amiche. La televisione con immagini strazianti, che si sarebbero dovute evitare, testimoniava la solitudine, e l’isolamento, con cui si moriva. Cosa, che non è avvenuta nella seconda ondata, nella quale non si ripetevano le immagini di una morte così crudele, e così solitaria, e nella quale rinasceva la speranza come passione del possibile, la celeberrima metafora kierkegaardiana, che rende la speranza così semplice, e così umana, così concreta, e così vicina alla vita di ogni giorno. Queste sono le mie riflessioni sulle conseguenze possibili, sulle ambivalenze dolorose, della pandemia, che ha sconvolto le nostre quotidiane modalità di vita, inducendoci in ogni caso a riflettere sulla fragilità e sulla precarietà, sulle insicurezze e sulle ferite dell’anima, che fanno parte della vita, insieme alla nostalgia di comunione e di solidarietà. Sono pensieri che vengono dal cuore di Nietzsche, e di Pascal, che, lo vorrei ripetere, ci consentono di ridare un senso alle notti oscure dell’anima.
Sono molto grato ad Angelo Gaccione che mi invita a collaborare a questa bellissima rivista dagli svolgimenti tematici multidisciplinari.