Il
13 gennaio scorso il Consiglio dei Ministri ha approvato il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza
che riporta obiettivi, riforme e investimenti che l’Italia intende realizzare
con i fondi europei dell’iniziativa Next
Generation EU. L’ammontare di denaro messo a disposizione per realizzare le
sei missioni che l’Italia si è data in materia di innovazione,
digitalizzazione, competitività, cultura, transizione energetica,
infrastrutture per la mobilità, istruzione e ricerca, inclusione sociale e
salute è senza precedenti. Il
piano conferma un approccio all’innovazione tecnologica comune a tutti i
sistemi politici occidentali, per lo più esclusivamente concentrati nella
promozione di nuove tecnologie attraverso diverse forme di incentivazione e
supporto economico alle associate attività di ricerca e sviluppo, produzione e
commercializzazione. In questi processi, sviluppo, diffusione e impatto di
nuove tecnologie vengono generalmente considerati come prefigurabili ab origine e indipendenti dai contesti
in cui si realizzano. Le reali potenzialità delle azioni di supporto così
intraprese e i loro rapporti con le persone, la storia e la cultura dei luoghi
coinvolti diventano in questo modo i grandi assenti del dibattito politico. Una
tale assenza è così macroscopica da indurre a pensare che alla sua base vi sia
un rimosso di natura culturale. Credo valga la pena riflettere su come essa
possa essere ricondotta a un particolare modo di intendere la strumentalità,
che le moderne democrazie hanno con molta probabilità ereditato dal
cristianesimo [1]e che influenza sia il
modo di intendere la tecnologia, sia, più in generale, il modo di fare
politica. La
politica occidentale è infatti idealmente basata sull’assunto che le
collettività dei cittadini possano esprimere una volontà comune ed esercitare
questa volontà attraverso adeguati strumenti di governo. Questa visione prende
concretamente forma a partire dall’idea che gli strumenti siano entità neutre
attraverso cui una volontà generale può divenire effettuale. L’efficacia
dell’azione è assunta derivare dal particolare modo in cui gli strumenti di
governo sarebbero in grado di consentire di esprimere e trasmettere il volere
di chi li usa, senza interferenze. Tale assunta proprietà connota in maniera
fondamentale l’attuale idea di potere, rappresenta il presupposto per la
definizione delle procedure attraverso cui la volontà collettiva si definisce e
opera nei diversi sistemi politici, e viene in generale ancora oggi riferita a
ogni tipo di strumento tecnologico. Supponendo che esistano strumenti in grado
di realizzare gli scopi di chi opera senza alterarli, si immagina possa
esistere e costituirsi una volontà individuale o collettiva in grado di
controllare perfettamente gli effetti delle proprie azioni e, ancora più in
generale, si immagina che teoria e pratica, pensiero e azione possano
rappresentare due momenti distinti e separabili dell’esistenza.
Questa
generale idea di strumentalità, operante nei sistemi politici e nell’imaginario
culturale della modernità, può forse spiegare la presenza di un rimosso di
ampissima portata. Solo una fede indiscussa nell’idea che gli strumenti
tecnologici operino sotto il totale controllo di chi questi strumenti impiega e
concepisce può probabilmente giustificare l’ampiezza dell’attuale carenza di
filtri sulle interazioni che possono generarsi tra nuove tecnologie e società.
Solo l’idea della possibilità di una volontà che pre-esiste alle sue azioni e
che agisce infallibilmente creando strumenti che trasmettono fedelmente le sue
intenzioni può probabilmente giustificare l’attuale scarsa attenzione per le
modalità attraverso cui le nuove tecnologie possono entrare nella vita di
moltitudini di persone. Esistono
tuttavia chiare evidenze per cui questo tipo di visione può essere oggi messo
in discussione, e questa messa in discussione potrebbe portare a una nuova idea
di politica, ancora tutta da scoprire e inventare. Gli
strumenti non sono mai neutri o neutrali. La loro diffusione, soprattutto se su
larga scala, non può generalmente essere tenuta sotta controllo e comporta dei
cambiamenti nelle relazioni sociali che devono essere trattati e studiati come
se gli strumenti fossero portatori di una volontà propria, non riducibile a
quella di chi li usa o li concepisce. La diffusione su larga scala di
automobili ha comportato una totale riorganizzazione delle società occidentali
durante il secolo scorso. Per quanto entità non umane, le automobili sono
quindi state e ancora sono degli attori politici nei nostri paesi. La
diffusione di elettrodomestici è stata accompagnata dalla generazione di nuove
pratiche sociali riguardanti la preparazione, la conservazione e il consumo di
alimenti, l’igiene e la pulizia della casa, degli abiti, ecc. Biciclette,
motori elettrici e a combustione, calcolatori elettronici, internet, ecc. hanno
cambiato o stanno cambiando i nostri stili di vita e contribuiscono quindi a
fare politica. Basta
guardare alle molteplici negoziazioni che hanno luogo tra persone e nuove
tecnologie per comprendere come, attraverso questo tipo di negoziazioni, si
svolga un genere più ampio di politica che non è fatto soltanto da persone.
Come Bruno Latour ha fatto rilevare da un certo numero di anni [2]gli artefatti umani sono
portatori, nella loro forma e nei lori principi di funzionamento, di una serie
di intenzioni e persino di una morale che possono essere più o meno
decifrabili, più o meno espliciti e più o meno riferibili a volontà di
specifiche persone o gruppi di persone.
L’impiego
diffuso della rete informatica per la realizzazione di forme di politica
partecipata cambia la democrazia [3]. L’installazione
su larga scala di grandi pale eoliche da 5 MW porta con sé una certa
organizzazione della produzione e del consumo che implica la presenza di grandi
proprietari distributori di elettricità. L’installazione di piccole pale da
50-100 KW può invece essere realizzata a livello di singole o piccoli gruppi di
abitazioni, può avvenire a spese degli utilizzatori dell’elettricità che esse generano
e risultare quindi in linea di principio più equa, partecipata e confacente ai
luoghi interessati. Come
osservato da un esperimento immaginario condotto dal Massachusset Institute of
Technology (MIT) [4], la guida automatica
porta con sé possibili scenari di sviluppo in base ai quali un software
installato sulle automobili potrebbe, in caso di guasto e conseguente
inevitabile collisione con un gruppo di pedoni, portare a selezionare il pedone
su cui dirigere l’auto in base a qualche principio morale o di convenienza
prestabilito dai programmatori. Persino
i piccoli dossi artificiali installati dalle pubbliche amministrazioni per
limitare la velocità degli autoveicoli contribuiscono a mettere in atto una
certa forma di morale che, in quanto punisce l’infrazione di un limite di
velocità con il danneggiamento dell’auto, risulta nella fattispecie violenta e intimidatoria. In
generale, le dinamiche di interazione che si realizzano tra persone e strumenti
tecnologici, sia al momento del loro concepimento, sia al momento del loro
impiego, comportano sempre dei processi, più o meno prevedibili, di mutuo
adattamento che possono modificare sia la forma delle interazioni sociali, sia
la forma, sia il livello di diffusione degli strumenti stessi [5]. Queste negoziazioni sono
a tutti gli effetti delle negoziazioni politiche che portano alla generazione e
progressiva stabilizzazione di nuove pratiche sociali di cui gli strumenti
tecnologici sono parte attiva e integrante. Le nuove tecnologie, certo, non
determinano da sole l’evoluzione delle pratiche sociali di cui entrano a far
parte. A questa contribuiscono in egual misura competenze, significati e valori
simbolici che, insieme con gli strumenti, queste pratiche costituiscono [6]. Se,
tuttavia, si prendesse atto del ruolo attivo svolto dagli strumenti e della
possibilità tutt’altro che remota che i processi di innovazione attraverso essi
generati possano sfuggire al controllo sociale, si potrebbe forse pensare a
come sviluppare una discussione politica intorno alle loro modalità di
concepimento e di utilizzo. Al momento sembra infatti che i processi di
innovazione tecnologica su larga scala possano essere soltanto accettati o
rifiutati in toto. Quando si pensa ad esempio alla progressiva
informatizzazione dei servizi nella pubblica amministrazione, approcci
temperati per cui si possa mantenere e riconoscere il valore umano di funzioni
non automatizzate svolto da persone (funzioni di cui potrebbero certamente
beneficiare non solo anziani e altre categorie di persone con scarsa
familiarità con le tecnologie informatiche) sembrano avere sempre meno
spazio.
Se
tuttavia le negoziazioni politiche con gli artefatti materiali che sono alla
base dell’innovazione tecnologica fossero trattate e discusse come tali, ci si
potrebbe facilmente rendere conto anche di un altro fatto fondamentale. Questo
tipo di politica interviene sia durante lo sviluppo e la diffusione di nuove
tecnologie, sia, più in generale, nei processi attraverso cui la tecno-scienza
e la scienza sperimentale avanzano. I fondamentali progressi rappresentati
dalle teorie e dai prodotti della ricerca scientifica si realizzano attraverso
continue negoziazioni che coinvolgono attori umani e non umani. Il fatto che il
metodo scientifico richieda l’obiettività assicurata dalla ripetibilità degli
esperimenti, non toglie a questi esperimenti nulla del loro carattere di
costrutto sociale[7]e al fatto che le
soluzioni attraverso essi sviluppate modifichino e siano modificate da contesti
sociali ben più ampi dei laboratori nei quali vengono concepite. Principi
stabiliti in un determinato campo della conoscenza scientifica tipicamente
migrano verso altri campi attraverso metafore spesso costruite con il
contributo attivo degli stessi scienziati. I combustibili fossili e i principi
della termodinamica stabiliti studiando le macchine termiche nei primi decenni
del XIX secolo hanno portato, e portano ancora oggi, a misurare il lavoro umano
contando il numero di ore speso all’interno di un ufficio, seduti su una sedia,
attaccati a un computer o ad altro macchinario. Tali principi sono con molta
probabilità il frutto di processi di circolazione d’idee e di mutuo rinforzo
avvenuti tra gli ambiti della fisica, della biologia e dell’economia [8].Questi processi di
circolazione hanno portato a identificare l’uomo a un motore [9]facendo sì che principi
stabiliti studiando le macchine termiche potessero essere applicati alle
persone e all’economia trasformando il lavoro umano in una risorsa scarsa che
può essere misurata e scambiata sul mercato in termini di unità di tempo
consumate [10].
Più
che a identificare principi e paradigmi universali, gli studi interdisciplinari
oggi tanto di moda dovrebbero a mio avviso servire a stabilire come i limiti di
applicabilità di modelli, teorie e tecnologie sviluppati in alcuni ambiti
possano essere travalicati e con quali conseguenze per persone e società. Se
i combustibili fossili e i principi della termodinamica hanno trasformato
l’universo in una macchina termica, la diffusione su larga scala delle
tecnologie a energie rinnovabili sta avvenendo secondo un immaginario e in un
contesto scientifico e culturale che sostituisce alla macchina termica il
processore di informazioni. Se nell’età dei combustibili fossili le attività di
produzione e consumo sono organizzate sulla base della creazione di scorte di
risorse materiali, umane e di conoscenza, nell’età delle energie rinnovabili si
assume che produzione e consumo possano essere organizzati minimizzando le
scorte e in un contesto di variabilità di risorse materiali ed energetiche
grazie a una progressiva integrazione di queste attività all’interno di sempre
più vaste reti di informazioni. Questo contesto fornisce i presupposti per una
progressiva riorganizzazione del lavoro e delle attività umani improntata a
criteri di crescente delega a sistemi automatizzati, flessibilità e mobilità di
persone e cose. Queste
trasformazioni e tendenze, è bene sottolinearlo, non portano necessariamente a
regimi di maggiore sostenibilità delle attività umane. Alla loro base vi sono
ancora circolazioni di idee e tecnologie e processi di mutuo rinforzo che
coinvolgono società e campi di ricerca quali la biologia, la fisica,
l’economia, le scienze dell’informazione [11]. Sul
piano teorico e concettuale, queste circolazioni sono per esempio state
stabilite attraverso l’idea, sviluppatasi inizialmente in ambito cibernetico,
che macchine, persone e animali funzionino attraverso sistemi di controllo
assimilabili a dei processori d’informazione. Sul piano materiale, i computer e
le reti informatiche forniscono invece alcune delle principali tecnologie
attraverso cui questi comuni sistemi di controllo sono studiati e
artificialmente ricreati. Come
potrebbero le istituzioni politiche e la società civile pensare d’intervenire
attivamente in questi processi e sui cambiamenti sociali che si generano con
gli strumenti che la tecno-scienza mette a disposizione? E con quali criteri? Non
penso che questa questione possa essere affrontata soltanto pensando a un
generale maggiore coinvolgimento e partecipazione dei cittadini nei processi
d’innovazione [12].La questione deve essere
più specifica e strutturata. Si tratta di avere bene in mente che la diffusione
su larga scala di nuove tecnologie è sempre esposta alla generazione di
fenomeni inattesi. Si tratta di realizzare interventi basati su un diverso modo
di concepire la strumentalità e la delega; interventi mirati a seguire,
ricostruire e immaginare le diverse relazioni che le persone possono stabilire con
nuovi artefatti materiali a seconda della loro funzione, frequenza, modalità e
contesto d’impiego, livello di diffusione, ecc. Per
quanto questo possa apparire un programma irrealizzabile che condanna la
politica delle persone a inseguire più che a condizionare, il solo fatto di
uscire dall’incantesimo generato da chi oggi tende a presentare ogni nuovo
gadget come la soluzione dei problemi del nostro paese e del mondo può forse
servire a creare le condizioni per un suo avviamento. Se
è vero che gli strumenti sono in qualche modo portatori di una propria
intenzionalità, è allora anche vero che vi sono strumenti che generano
problematiche che più di altre sfuggono al controllo delle persone e dei
processi democratici.
La
teoria della morfologia sociale di Leopold Kohr [13]mette
per esempio assai bene in evidenza come la maggior parte di queste
problematiche sono generate da questioni di dimensioni e di scala.Nello stesso modo in cui un cavallo o un
essere umano non potrebbero sopravvivere se le loro dimensioni caratteristiche
aumentassero di due o tre volte, [14]le
istituzioni sociali, le infrastrutture di servizio e gli strumenti tecnologici
che queste istituzioni costituiscono non possono sopravvivere a lungo se troppo
grandi rispetto alla scala umana in quanto finiscono per generare problemi che
non possono essere risolti dai propri membri. Forma
e principi di funzionamento degli strumenti tecnologi, loro impatti economici,
ambientali e sociali e loro livello di moltiplicazione sono in un rapporto di
reciproca influenza con gli strumenti di governo che possono essere sviluppati
nei contesti in cui le tecnologie sono adottate. Strumenti di governo basati su
un’organizzazione centralistica dello stato o sul libero mercato finiscono per
favorire la diffusione di soluzioni tecnologiche standardizzate su larga scala
il cui impatto locale è spesso indeterminabile e imprevisto. Tecnologie e beni
comuni che possano essere gestiti in maniera autonoma e condivisa[15]da piccoli gruppi di persone possono favorire lo
sviluppo di strumenti e regole di governo locali basati su principi di
auto-organizzazione che possono essere più facilmente adattati alle situazioni
specifiche e variabili dei diversi contesti in cui le persone operano. Pensare
ad esempio che gli attuali problemi ambientali globali possano essere risolti
dagli stati limitandosi a promuovere la pur necessaria diffusione su larga
scale di pannelli fotovoltaici, auto elettriche, pompe di calore, reti
intelligenti, ecc. senza tenere conto di come la transizione alle rinnovabili
necessiti di una nuova politica di governo delle tecnologie da parte delle
persone significa essere destinati a generare effetti sistemici che sfuggiranno
in maniera crescente a ogni forma di controllo. Vi sono ragioni molto fondate
per ritenere, ad esempio, che le sempre più frequenti crisi finanziarie e la
stessa pandemia in corso altro non siano che la manifestazione estrema dello
stesso paradigma che al momento sembra informare la transizione alle rinnovabili
e che comporta un crescente numero di scambi e interconnessioni all’interno
delle moderne catene globali di fornitura di energia, merci, servizi, persone e
informazioni che costituiscono il mercato.
La
transizione alle rinnovabili implica una completa revisione del rapporto con la
terra e del ruolo del lavoro svolto dai corpi delle persone. L’energia
generata da fonti rinnovabili è molto più diffusa, molto più variabile e più
difficilmente stoccabile rispetto a quella generata da combustibili fossili. Se
volessimo sostenere con energie rinnovabili gli attuali stili di vita ad alta
intensità energetica ed elevata delega alle macchine, dovremmo occupare
superfici vastissime con i necessari impianti di produzione [16].Per quanto non sia possibile delineare in maniera
precisa le implicazioni di queste differenze rispetto ai combustibili fossili
per la vita delle persone, da esse deriva che il tipo di riorganizzazione
sociale che deve accompagnare una transizione alle rinnovabili deve essere
orientata a nuovi stili di vita a basso consumo, a un nuovo rapporto col
territorio e deve comportare una rivalutazione del lavoro svolto dal corpo, a
partire dal lavoro svolto con la terra dagli agricoltori. Le
diverse tecnologie e le forme di governo che queste contribuiscono a costituire
possono dischiudere scenari di transizione assai diversificati. Specifiche
configurazioni di reti informatiche intelligenti e reti energetiche costituite
da pannelli fotovoltaici, pale eoliche e quant’altro potrebbero contribuire a realizzare
un’economia ancora più estrattiva dell’attuale in cui pochi privilegiati
sfruttano risorse naturali ed umane al riparo dei loro schermi e senza poter
aver nozione delle implicazioni degli automatismi attivati dai loro più piccoli
gesti. La diffusione di altre configurazioni ispirate a principi di non
appropriazione delle risorse, condivisione, località, autonomia, integrazione
tra spazi urbani e aree rurali potrebbero essere accompagnate da ricadute
completamente diverse sulle persone e sui territori.
Sarebbe
molto utile e innovativo se una parte cospicua del denaro reso disponibile
dall’iniziativa Next Generation EU potesse essere impiegata in Italia per
generare più consapevolezza su questi aspetti e creare le condizioni per cui
comunità di persone avessero la possibilità di verificare e modulare gli
effetti della diffusione di nuove tecnologie sui loro territori creando nuove
forme di governo con gli strumenti. Le
tecnologie e la tecno-scienza non costituiscono necessariamente “la soluzione”.
Si tratta di rivedere una nozione ormai obsoleta di strumentalità, di provare a
comprendere i cambiamenti che le tecnologie portano nell’organizzazione sociale
dei vari contesti dove operano e come questi cambiamenti possono essere
auspicabilmente governati dalla politica delle persone facendo fiorire la
diversità di forme di vita che sempre si genera quando le culture non sono
sopraffatte dalle idee dominanti di cui la standardizzazione tecnologica può
farsi portatrice. *Nicola
Labanca è un fisico che svolge attività di ricerca nel campo delle politiche
per l’efficienza e la sostenibilità energetica da 19 anni. Dal 2012 al 2020 ha
lavorato per la Commissione Europea presso CCR di Ispra.
Note [1]
Su come la descritta
concezione di strumento si sia sviluppata in seno al cristianesimo si veda ad
esempio Agamben, G. (2018). Homo Sacer.
Edizione integrale a cura di Quodlibet. Si vedano in particolare le pagine
695-696 e 1082-1091. [2] Si veda ad esempio Latour, B. (2015). Non siamo mai stati moderni. Elèuthera [3] Si veda Davies, W., (2019). Stati nervosi. Come l’emotività ha
conquistato il mondo. Giulio Enaudi editore. Traduzione di Maria Grazia
Perugini. [4]Si
veda l’articolo intitolato “Il dilemma
etico delle auto senza guidatore” come disponibile all’indirizzo
https://www.lescienze.it/news/2016/06/27/news/dilemma_morale_veicoli_autonomi-3141085/ [5] Si veda ad
esempio Bijker, W.E. and Law, J. (Eds) (199s). Shaping technology/building society. Studies in sociotechnical change. MIT Press. [6] Si veda ad
esempio Shove, E., Pantzar, M., Watson, M., (2012). The dynamics of social practices: everyday life and how it changes. Sage, London. [7] Si veda ad
esempio Shapin, S. and Shaffer, S., (1994). Il
Leviatano e la pompa ad aria. Hobbes,
Boyle e la cultura dell’esperimento. La Nuova Italia. [8] Si veda ad
esempio Mirowski,
P., (1989). More heat than light: economics as social physics, physics as
nature’s economics. Cambridge, Mass.; New
York: Cambridge University Press [9] Si veda
Rabinbach, A., (1992). The Human Motor.
Energy, fatigue and the origins of modernity. University of California Press. I processi
di circolazione in questione sono generalmente rintracciabili anche nelle
teorie valore-lavoro di Marx, Adam Smith, Ricardo. [10] Si veda ad
esempio Perulli, A., (1996). Il tempo da
oggetto a risorsa. FrancoAngeli Editore. [11] Si veda ad
esempio Labanca, N. (2017). Complex
systems: the latest human artefact. In Labanca, N., (Ed.) (2017)
Complex systems and social practices in energy transitions. Framing energy sustainability in the time of
renewables. Springer [12] Si veda a
questo proposito il concetto di “scienza
dei cittadini” come descritto ad esempio in
https://www.scienzainrete.it/articolo/citizen-science-scienza-di-tutti/valentina-meschia/2016-03-10 [13] Si veda ad
esempio Kohr, L., (1957). Il Crollo delle
Nazioni. Edizioni di Comunità [14] Si veda la
storia del cavallo poliploide come
descritta in Bateson, G., (1979). Mente e
natura. Adelphi. Pag. 80-81. [15] Si veda
l’esempio del Regolamento sulla Collaborazione tra Amministrazione e Cittadini
per la Cura dei Beni Comuni adottato
per la prima volta a Bologna nel 2014 (https://labgov.city/commonspress/bologna-dove-decolla-la-pooling-economy-un-intervista-al-professor-christian-iaione/). [16] È stato stimato che generare, con pannelli
solari e pale eoliche “onshore”, soltanto l’elettricità che l’Europa
attualmente consuma richiederebbe una superficie approssimativamente uguale a
quella del Portogallo. Si veda Tröndle,
T., (2020). Supply-side options to reduce
land requirements of fully renewable electricity in Europe. PLOS One
Journal.