Libri
Dei
diari e loro labirintici meandri
di
Claudio Zanini
Due diari o forse più che s’intrecciano, parti trascritte dall’uno
all’altro, contraffazioni, accuse, rettifiche, cronache di fatti e spericolate
smentite. Ecco di cosa tratta il bel libro di Roberta Salardi, Trilogia
della scomparsa, edizioni Effigie, suddiviso in tre sezioni. Nella prima, Il
corpo della casa, l’intreccio di voci appartiene a un diario abitato da
personaggi reali e no. Nel secondo romanzo, Doppio diario, un singolo
quaderno si sdoppia e ne nascono due, che s’intersecano, messi a confronto da
una madre e una figlia in contrasto fra loro. In queste due sezioni tre donne,
le sorelle Martina e Fabiola più la figlia di quest’ultima, Virginia,
s’incontrano e si scontrano, sempre con una vena d’euforica follia, nella loro
spasmodica ricerca d’una identità smarrita e di un equilibrio mai conseguito.
La triplice composizione, narrata con uno stile chiaro e
immaginifico, è nell’insieme molto complessa e comprende anche una terza parte,
con protagonisti maschili.
Il testo è sostenuto da una scrittura molto ricca e mutevole,
densa d’immagini e fulminee notazioni ironiche, perfino grottesche, al fine di
sdrammatizzare la drammaticità di alcuni accadimenti. Una lingua che va in
profondità e, tuttavia, è in grado di virare verso l’immediatezza d’un flusso
espressionista e in molte occasioni raggiunge livelli d’intensa poesia.
Metafore che non alludono ma descrivono una realtà di
totale immedesimazione altra e subitanea (cito alcuni dei capitoli più
surreali: il capitolo Macchia con i paragrafi titolati alone; Nervi
capelli; Abluzione con i paragrafi cerchio, ecc.).
Scandiscono il racconto dei flashback sull’infanzia delle sorelle sotto forma
di scarni dialoghi, espliciti e taglienti delle due bambine (che ricordano
quelli di Trilogia della città di K, della Kristof), in cui si
rivelano il sorgere dei sensi di colpa e, già latente, la loro rivalità.
Salardi, come s’è detto, si avvale d’una scrittura densa, sovente
folle e stravagante (un concerto di voci che si sovrappongono, feriscono,
disputano e implorano), frammentata e scomposta che, tuttavia, padroneggia con
maestria, per restituire un contesto molto complicato e labirintico (entro i
meandri dei diari talvolta ci si domanda: chi parla qui esattamente? nel
capitolo Sgabuzzino prendono vita
ricordi di persone realmente esistite? e perché la loro esistenza è
continuamente contraddetta?), ricco di sfumature e illuminazioni. Tutto, tra
l’altro, narrato in una lingua non faticosa ma, al contrario, di piacevolissima
lettura.
Opera di Vinicio Verzieri |
Ricorrono nel testo temi come la maternità - desiderata e, quando conseguita, conflittuale - e, implicitamente, quello dell’arduo rapporto con i genitori, madri disturbate e padri inesistenti. Affiora il senso d’una corporeità dolente di corpi sofferenti e lacerati; si avverte, inoltre, nell’intera narrazione una costante attenzione verso una flora e una fauna neglette e costantemente prede e vittime di soprusi; una natura planetaria in pericolo d’estinzione. Tema questo, della sopravvivenza dell’ecosistema, molto caro all’autrice.
Martina, divorziata, è stata lasciata dal marito perché incolpata della morte della figlia adottiva a causa della sua disattenzione. Ma nel capitolo Sgabuzzino si accenna al fatto che possa essere stata semplicemente tenuta in affido e poi restituita.
Nella sua casa appena restaurata, ospita e si prende cura di Fulvio, un artista, malato forse più psichicamente che nel fisico, con cui ha una relazione precaria. Sempre sull’orlo della morte per malattia (così dice lui), la storia finisce realmente con la morte dell’uomo; un atroce suicidio in cui, morente, Fulvio imbratta di sangue e umori corporei l’appartamento di Martina. Lei ne risente e il suo immaginario perturbato favoleggia di un figlio d’ibrida natura umana e vegetale (in effetti, cova, ha una gravidanza isterica). Lei stessa si immedesima in un albero, in una pianta, in erba e fiori.
Dopo il tragico accadimento, Martina, curata e aiutata psicologicamente dal suo medico, allaccia con quest’ultimo un rapporto affettivo che, tuttavia, potrebbe non funzionare. Anche perché lui, “un insieme vuoto”, è spesso assente. Forse, in realtà si tratta dello psicologo - del reparto da dove lei entra ed esce - di cui Martina s’innamora e su cui inventa una storia, come insinua Fabiola nel secondo romanzo.
Se nella prima parte soffre l’anima, la psiche (e la casa (lo Sgabuzzino), serbatoio di ricordi, è il simbolo di questa condizione), nella seconda, Doppio diario, si precisa più una corporeità sofferente (i capitoli hanno come titoli parti del corpo). Anche Fabiola, la sorella di Martina, è divorziata con una figlia (maternità - frutto d’un rapporto occasionale - che lei desiderava comunque) e ha rapporti instabili con i vari uomini che incontra. Si trasferisce con la figlia Virginia a casa di Martina ricoverata in clinica. Nell’appartamento, Fabiola scopre il diario della sorella; le viene così l’idea di tenere un diario a sua volta, raccogliendo nelle sue mani il testimone della scrittura.
Quando sarà adolescente, Virginia, animalista militante spesso in contrasto con sua madre, rinverrà in un cassetto questo quaderno, “slabbrato e disarticolato”; lo leggerà scoprendo molte cose di cui era all’oscuro e di come la madre le abbia mentito (soprattutto sull’identità del padre).
Virginia dallo sguardo acuto. A differenza di Fabiola, una sognatrice affetta da un perpetuo vittimismo, una “lumaca addormentata”, Virginia è “lucertola guizzante (anche un po’ coccodrillo)”, provvista di un notevole senso autocritico e in possesso d’una dolente responsabile percezione del mondo, intessuto spesso da rapporti mistificati. Cosciente della propria “asimmetria” rispetto a un reale stravolto avverte su di sé tutto il disagio d’un pianeta devastato dal cosiddetto sapiens.