Perché
gli “scienziati”, in cambio della vanagloria televisiva, hanno accettato di
mettere in piazza tutti i limiti del loro sapere? Perché si è deciso di
spettacolarizzare la morte, esibendola nello scandire ogni giorno numeri senza
significato e nelle immagini mostrate ricercando con cura quelle che
maggiormente potevano evocare la tragedia? Perché è diventato oggetto di
dibattito pubblico la realtà della contingenza nella disponibilità di risorse
destinate alla cura e allora si è fatto oggetto di discussione politica la
necessità della scelta tra chi si trova sulla soglia o ne è soltanto un poco
più lontano? Ci
troviamo davvero al punto in cui il “limite” rappresenta la vita nel suo
insieme? Nell’emergenza sanitaria
la Storia sembra aver perduto di senso. Siamo
alla privatizzazione del futuro: l’epidemia ci ha reso subalterni
all’insindacabile funzionamento della civiltà tecnico-scientifica e per
coltivare l’illusione di fuggirne non resta che nasconderci nell’oblio. In
questo caso mimetizzandoci nell’apparente euforia di un altrettanto apparente
scampato pericolo. Pericolo che abbiamo inteso come riguardante soltanto noi
stessi, dispersi e separati in un destino singolare e indecifrabile. Il
nostro isolamento soggettivo ci porta direttamente al declino sociale, politico
e soprattutto morale. Sarebbe necessario contrapporre un’alternativa. Negli anni scorsi si è molto scritto e
parlato di “società del limite” e di “decrescita felice”: la società della
crescita aveva legato il proprio destino ad una organizzazione fondata
sull’accumulazione illimitata e questo appariva il punto da aggredire ai
fautori di questa possibilità di individuazione di nuovi confini. Ci stiamo accorgendo che
serve qualcosa di più ampio e più profondo. Esaurite
le forme di espressione del pensiero che avevano segnato il ’900, tra l’idea
dell’onnipotenza della tecnologia e quella del ritorno all’indietro del tipo
(tanto per ridurre all’osso) della già citata “decrescita felice” bisognerà pur
cercare di individuare un nuovo equilibrio. La
ricostruzione di un intreccio tra etica e politica potrebbe rappresentare il
passaggio fondamentale per delineare i contorni di una “società del limite”
avendo come base di proposta una nuova “teoria dei bisogni”. Nell’evidente inadeguatezza dei
modelli cui ci si è ispirati nella globalizzazione del consumismo
individualistico, la vicenda dell’epidemia ci sta dimostrando che siamo rimasti
fermi acontemplare
ciò che accade senza disporre di idee e di organizzazione per attaccare, come
sarebbe necessario, il muro della separatezza tra i popoli e tra i ceti
sociali. Si dovrebbe rilanciare allora la
prospettiva di una “programmazione del limite”, intesa come un valore
universalistico. Aggredire la separatezza,
ricostruire un “capitale sociale”, riorientare il rapporto tra pensiero e
azione, teoria e prassi, nel senso di una vera e propria “progettazione
dell’uguaglianza” intesa come fattore fondamentale per mantenere un futuro ed
esprimere collettivamente una “diversità positiva” rispetto all’eterno ritorno
del sempre eguale.