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martedì 5 gennaio 2021

MILANO 
E LA NOSTALGIA DI UN PENSIERO URBANISTICO
di Marco Vitale



Il nuovo anno non ha ancora mostrato il suo volto. Resta un enigma. Sarà l’anno dei costruttori, come ha detto il presidente Mattarella? Si tratta di un auspicio o di una predizione? Temo che sia solo un auspicio, un benaugurante auspicio. Ma tutte le opzioni sono aperte e nessuno può prevedere come andrà a finire. Non a caso Gaccione ci informa che nella lingua calabrese non si usa il verbo futuro. Ma lo stesso vale per la lingua siciliana. Cento anni fa il 5 gennaio 1921 la flotta italiana, su ordine del presidente del Consiglio, Giolitti, aprì il fuoco contro il palazzo della Reggenza a Fiume e liquidò l’impresa fiumana come “increscioso incidente”. “Fiume? C’est la lune” disse ironicamente il francese Clémenceau. E invece “da Fiume è partito il segnale di quella rivolta che trascinerà l’Europa nella guerra del 1939” (Leo Longanesi). Da una alta terrazza guardo l’alba che si apre sulla Grande Milano ancora illuminata dalle luci mattutine. In fondo ad est, strisce di luce si accendono ma sono troppo sottili e precarie per permettere di prevedere come sarà la giornata, soprattutto considerando che le prime notizie sull’andamento della distribuzione dei vaccini in Lombardia sono pessime. Come al solito una disastrosa partenza! Forse è meglio evitare di fare previsioni e limitarsi a formulare auspici e impegni di fronte a se stessi. Ma per formulare sia gli uni che gli altri è necessario chiedersi: ma cosa mi manca, di cosa ho maggiore nostalgia? È quello che mi chiedo, guardando una commovente Milano alle primi luci dell’alba, una bellissima Milano colpita, ma non umiliata dal Covid19. Non mi preoccupa più di tanto l’economia. Le imprese non si sono fermate, hanno continuato ad investire e sono pronte a ripartire, sperabilmente, con maggiore senso di responsabilità e di misura. Riprenderanno, lentamente, ma riprenderanno. Le reti trasportistiche indispensabili per mantenere la “città di mezzo” al centro del sistema sono o stanno per essere migliorate e rafforzate. Le Università, le nuove fabbriche di Milano, hanno trovato formule ingegnose per tenere impegnati i loro studenti migliori ed anch’esse sono pronte a ripartire.



Sono addolorato per i giovani liceali che si sono visti se non sottrarre almeno rovinare un paio degli anni più belli della loro vita, ma per fortuna non lo sanno ed hanno tanto tempo per ricuperare grazie alla naturale resilienza della loro magnifica età. La città della cultura, dai teatri alla musica, pur colpita durissimamente e quasi ignorata dal Governo, ha dimostrato tutta la sua vitalità e capacità di adattamento proprio di fronte alle enormi difficoltà che ha dovuto affrontare. La crisi economica che ha colpito tante attività prive di credibile ricupero, ha dolorosamente ingrossato il numero dei poveri che solo nella assistenza pubblica e nella solidarietà sociale trovano possibilità di resistere, sopravvivere e, per alcuni di loro, rinascere. Ma, anche qui, Milano ha mostrato un suo volto positivo, grazie alla mobilitazione dei suoi centri di assistenza e del suo volontariato vivo, generoso e bene organizzato. No! Milano non ci ha deluso. È sempre pronta a riprendere il suo ruolo di guida e di capitale morale, che stava perdendo, con maggiore consapevolezza, maggiore responsabilità, maggiore umiltà  unite a maggiore fermezza (come insegna nel suo Regolamento S. Benedetto da Norcia che era non solo un grande santo ma anche un grande manager, un grande leader, un grande organizzatore).



E allora? Che cosa mi manca? Di cosa ho nostalgia? La risposta che affiora alla superficie, quando pongo a me stesso questa domanda sorprende anche me: ho nostalgia di un pensiero urbanistico per la nostra città. Non intendo certo inoltrarmi né evocare una discussione sull’uso dei vari strumenti urbanistici, avendo qualche nozione sulla complessità di questa tematica. E neanche intendo parlare di piani strategici, con i quali ho pure qualche pratica, perché anche questi richiedono una metodologia rigorosa e complessa, ed una sede opportuna. Io ho nostalgia solo di un pensiero strategico per la nostra città o, almeno, per parti di essa, dove il sapere dell’urbanista, dell’architetto, dell’economista, del sociologo, del trasportista, dell’amministratore pubblico, dell’uomo di cultura, del sacerdote, del poeta, si incrocino tra loro e si fecondino reciprocamente al servizio della città e dei suoi cittadini, Perché allora parlo soprattutto di urbanistica e di pensiero urbanistico? Perché di tutte le discipline che ho menzionato l’urbanistica è quella che ha la strumentazione e la metodologia più rigorose per coordinare e disciplinare i vari sapere che devono convergere quando si vuol parlare del futuro di una città.



Non ignoro che molti cultori della materia affermano che l’urbanistica come disciplina è finita. Me lo ha detto, pochi giorni fa, un importante architetto milanese, nella piena maturità professionale, che alla mia domanda: “ma come è oggi il livello della cultura urbanistica a Milano” mi ha risposto: “la cultura urbanistica ce l’hanno gli investitori e gli immobiliaristi”. E non ho certo dimenticato l’affermazione di Benevolo che, intervistato da Erbani, nel 2009 affermò: “Oggi in Italia l’urbanistica è un’attività screditata, considerata un fastidio e preferibilmente accantonata. Nei programmi elettorali e nel comportamento delle istituzioni centrali questo capitolo è scomparso da tempo. Nelle amministrazioni periferiche, regione, comuni e province, ha un posto secondario, con uffici ridotti al minimo e responsabilità economiche precarie, nella vita privata dei cittadini italiani compare quasi solo come un ostacolo sgradito, da eludere ed eliminare. Dunque, se ne parla malvolentieri e il meno possibile.



E, allora, perché sento nostalgia per una disciplina morta? Perché chi sostiene questa tesi, sbaglia. Perché io non ho mai visto una storia di sviluppo economico e politico di una qualsiasi città, dall’antica Atene, all’antica Roma, da Parigi dell’ ’800 alla Shanghai del ’900, dalla Chicago dopo il Great Fire del 1871, alla nuova Berlino dopo la caduta del muro il 9 novembre 1989, che non fosse preceduta o accompagnata o caratterizzata da poderose realizzazioni urbanistiche e architettoniche. Perché ci sono momenti di svolte storiche nelle quali l’urbanistica indica alla città le nuove vie da percorrere, al di là delle mura antiche, come a Brescia quando nel 1500 gli architetti veneti insegnarono ai bresciani, ancora chiusi nelle antiche mura romane, che bisognava andare oltre; come, nella nostra epoca, quando tante città europee hanno interpretato, in chiave di rinnovamento, la fine del ciclo storico della città industriale, senza peraltro perdere la propria antica anima.



Questi mutamenti non avvengono sempre, ma solo per grandi cicli, per grandi svolte. Ed io ho l’impressione che Milano si trovi ad una di queste svolte. O impara a diventare autentica metropoli, nella urbanistica, nella cultura, nel governo del territorio, nella qualità dell’abitare, o è obbligata a retrocedere. Perché io sono d’accordo con Luigi Mazza, urbanista di vaglia che, nel 2004, scriveva. “In assenza di un disegno strategico sostenuto da un accordo collettivo, sembra difficile un rilancio significativo degli investimenti e una crescita del rango di Milano nella gerarchia urbana europea; mantenere il rango attuale potrebbe già essere un buon risultato (L. Mazza, Prove parziali di riforma urbanistica, Franco Angeli, 2004). Perché concordo con chi dice che l’urbanistica negoziata è l’unica via possibile e realizzabile. Ma io aggiungo che, per negoziare, bisogna essere in due; se il negoziato è condotto solo dagli investitori preparatissimi e competentissimi mentre sul fronte pubblico c’è il vuoto assoluto di pensiero e di volontà come è, da qualche tempo, il caso di Milano, il negoziato è finto e truccato.



Eppure, in tempi non remoti, Milano ha saputo esprimere importanti esempi di eccellente pensiero urbanistico, come con il progetto chiamato: “Nove Parchi per Milano” (1995) un progetto dell’Assessorato all’urbanistica di Milano (assessore Elisabetta Serri) frutto di un Laboratorio di progettazione urbana che ha visto uniti i servizi comunali con i migliori talenti urbanistici, architettonici e della mobilità della città. Ne è nato un progetto che, per ricchezza di contenuti e di proposte, per metodologia, approccio, flessibilità, prospettiva temporale è ancora oggi di grande interesse, Come scrisse nella presentazione il sindaco di Milano di allora, Marco Formentini, che proprio in questi giorni ci ha lasciati: “Il progetto “Nove parchi per Milano” ha le caratteristiche e il rischio di un’azione strategica, ma in più possiede il pregio di declinare una visione concreta del futuro della città, costituita da interventi specifici precisamente localizzati che, nel loro insieme, determinano una strategia complessiva di trasformazione di lungo termine. Quella che si prospetta è una grande offerta per una nuova qualità della vita urbana soprattutto nelle periferie e insieme un’occasione per uno sviluppo più trasparente e responsabile dell’imprenditorialità nella trasformazione urbanistica della città.



Da qui si può ripartire affinché lo sviluppo di intere parti della città non continui ad essere data in appalto a enti rispettabili ma che, ovviamente, pensano solo ai propri interessi, ed a ridurre la questione di natura urbanistica che coinvolge intere parti importanti della città ad un puro e semplice negoziato di volumetrie, come sta avvenendo per San Siro. È pensando a tutte le occasioni perse e a quelle che ci accingiamo a perdere che guardo l’alba di Milano dall’alto della terrazza con il cielo scuro di nuvole e con piccole strisce biancheggianti all’orizzonte, e sento nostalgia di pensiero urbanistico. La battaglia con il Covid19, nonostante tutto e nonostante la Regione Lombardia, la vinceremo. Il tema del pensiero urbanistico temo invece segnerà una nuova sconfitta per Milano.