MILANO E LA NOSTALGIA DI UN PENSIERO URBANISTICO di
Marco Vitale
Il
nuovo anno non ha ancora mostrato il suo volto. Resta un enigma. Sarà l’anno
dei costruttori, come ha detto il presidente Mattarella? Si tratta di un
auspicio o di una predizione? Temo che sia solo un auspicio, un benaugurante
auspicio. Ma tutte le opzioni sono aperte e nessuno può prevedere come andrà a
finire. Non a caso Gaccione ci informa che nella lingua calabrese non si usa il
verbo futuro. Ma lo stesso vale per la lingua siciliana. Cento anni fa il 5
gennaio 1921 la flotta italiana, su ordine del presidente del Consiglio, Giolitti,
aprì il fuoco contro il palazzo della Reggenza a Fiume e liquidò l’impresa
fiumana come “increscioso incidente”. “Fiume? C’est la lune” disse ironicamente
il francese Clémenceau. E invece “da Fiume è partito il segnale di quella
rivolta che trascinerà l’Europa nella guerra del 1939” (Leo Longanesi). Da una
alta terrazza guardo l’alba che si apre sulla Grande Milano ancora illuminata
dalle luci mattutine. In fondo ad est, strisce di luce si accendono ma sono
troppo sottili e precarie per permettere di prevedere come sarà la giornata,
soprattutto considerando che le prime notizie sull’andamento della
distribuzione dei vaccini in Lombardia sono pessime. Come al solito una
disastrosa partenza! Forse è meglio evitare di fare previsioni e limitarsi a
formulare auspici e impegni di fronte a se stessi. Ma per formulare sia gli uni
che gli altri è necessario chiedersi: ma cosa mi manca, di cosa ho maggiore
nostalgia? È quello che mi chiedo, guardando una commovente Milano alle primi
luci dell’alba, una bellissima Milano colpita, ma non umiliata dal Covid19. Non
mi preoccupa più di tanto l’economia. Le imprese non si sono fermate, hanno
continuato ad investire e sono pronte a ripartire, sperabilmente, con maggiore
senso di responsabilità e di misura. Riprenderanno, lentamente, ma
riprenderanno. Le reti trasportistiche indispensabili per mantenere la “città
di mezzo” al centro del sistema sono o stanno per essere migliorate e
rafforzate. Le Università, le nuove fabbriche di Milano, hanno trovato formule
ingegnose per tenere impegnati i loro studenti migliori ed anch’esse sono
pronte a ripartire.
Sono addolorato per i giovani liceali che si sono visti se
non sottrarre almeno rovinare un paio degli anni più belli della loro vita, ma
per fortuna non lo sanno ed hanno tanto tempo per ricuperare grazie alla
naturale resilienza della loro magnifica età. La città della cultura, dai
teatri alla musica, pur colpita durissimamente e quasi ignorata dal Governo, ha
dimostrato tutta la sua vitalità e capacità di adattamento proprio di fronte
alle enormi difficoltà che ha dovuto affrontare. La crisi economica che ha
colpito tante attività prive di credibile ricupero, ha dolorosamente ingrossato
il numero dei poveri che solo nella assistenza pubblica e nella solidarietà
sociale trovano possibilità di resistere, sopravvivere e, per alcuni di loro,
rinascere. Ma, anche qui, Milano ha mostrato un suo volto positivo, grazie alla
mobilitazione dei suoi centri di assistenza e del suo volontariato vivo, generoso
e bene organizzato. No! Milano non ci ha deluso. È sempre pronta a riprendere
il suo ruolo di guida e di capitale morale, che stava perdendo, con maggiore
consapevolezza, maggiore responsabilità, maggiore umiltàunite a maggiore fermezza (come insegna nel
suo Regolamento S. Benedetto da Norcia che era non solo un grande santo ma
anche un grande manager, un grande leader, un grande organizzatore).
E
allora? Che cosa mi manca? Di cosa ho nostalgia? La risposta che affiora alla
superficie, quando pongo a me stesso questa domanda sorprende anche me: ho
nostalgia di un pensiero urbanistico per la nostra città. Non intendo certo
inoltrarmi né evocare una discussione sull’uso dei vari strumenti urbanistici,
avendo qualche nozione sulla complessità di questa tematica. E neanche intendo
parlare di piani strategici, con i quali ho pure qualche pratica, perché anche
questi richiedono una metodologia rigorosa e complessa, ed una sede opportuna.
Io ho nostalgia solo di un pensiero strategico per la nostra città o,
almeno, per parti di essa, dove il sapere dell’urbanista, dell’architetto,
dell’economista, del sociologo, del trasportista, dell’amministratore pubblico,
dell’uomo di cultura, del sacerdote, del poeta, si incrocino tra loro e si
fecondino reciprocamente al servizio della città e dei suoi cittadini, Perché
allora parlo soprattutto di urbanistica e di pensiero urbanistico? Perché di
tutte le discipline che ho menzionato l’urbanistica è quella che ha la
strumentazione e la metodologia più rigorose per coordinare e disciplinare i
vari sapere che devono convergere quando si vuol parlare del futuro di una
città.
Non
ignoro che molti cultori della materia affermano che l’urbanistica come
disciplina è finita. Me lo ha detto, pochi giorni fa, un importante architetto
milanese, nella piena maturità professionale, che alla mia domanda: “ma come è
oggi il livello della cultura urbanistica a Milano” mi ha risposto: “la cultura
urbanistica ce l’hanno gli investitori e gli immobiliaristi”. E non ho certo
dimenticato l’affermazione di Benevolo che, intervistato da Erbani, nel 2009
affermò: “Oggi in Italia l’urbanistica è un’attività screditata, considerata
un fastidio e preferibilmente accantonata. Nei programmi elettorali e nel
comportamento delle istituzioni centrali questo capitolo è scomparso da tempo.
Nelle amministrazioni periferiche, regione, comuni e province, ha un posto
secondario, con uffici ridotti al minimo e responsabilità economiche precarie,
nella vita privata dei cittadini italiani compare quasi solo come un ostacolo
sgradito, da eludere ed eliminare. Dunque, se ne parla malvolentieri e il meno
possibile”.
E,
allora, perché sento nostalgia per una disciplina morta? Perché chi sostiene
questa tesi, sbaglia. Perché io non ho mai visto una storia di sviluppo
economico e politico di una qualsiasi città, dall’antica Atene, all’antica
Roma, da Parigi dell’ ’800 alla Shanghai del ’900, dalla Chicago dopo il Great
Fire del 1871, alla nuova Berlino dopo la caduta del muro il 9 novembre 1989,
che non fosse preceduta o accompagnata o caratterizzata da poderose
realizzazioni urbanistiche e architettoniche. Perché ci sono momenti di svolte
storiche nelle quali l’urbanistica indica alla città le nuove vie da percorrere,
al di là delle mura antiche, come a Brescia quando nel 1500 gli architetti
veneti insegnarono ai bresciani, ancora chiusi nelle antiche mura romane, che
bisognava andare oltre; come, nella nostra epoca, quando tante città europee
hanno interpretato, in chiave di rinnovamento, la fine del ciclo storico della
città industriale, senza peraltro perdere la propria antica anima.
Questi
mutamenti non avvengono sempre, ma solo per grandi cicli, per grandi svolte. Ed
io ho l’impressione che Milano si trovi ad una di queste svolte. O impara a
diventare autentica metropoli, nella urbanistica, nella cultura, nel governo
del territorio, nella qualità dell’abitare, o è obbligata a retrocedere. Perché
io sono d’accordo con Luigi Mazza, urbanista di vaglia che, nel 2004, scriveva.
“In assenza di un disegno strategico sostenuto da un accordo collettivo,
sembra difficile un rilancio significativo degli investimenti e una crescita
del rango di Milano nella gerarchia urbana europea; mantenere il rango attuale
potrebbe già essere un buon risultato (L. Mazza, Prove parzialidi
riforma urbanistica, Franco Angeli, 2004). Perché concordo con chi dice che
l’urbanistica negoziata è l’unica via possibile e realizzabile. Ma io aggiungo
che, per negoziare, bisogna essere in due; se il negoziato è condotto solo
dagli investitori preparatissimi e competentissimi mentre sul fronte pubblico
c’è il vuoto assoluto di pensiero e di volontà come è, da qualche tempo, il
caso di Milano, il negoziato è finto e truccato.
Eppure,
in tempi non remoti, Milano ha saputo esprimere importanti esempi di eccellente
pensiero urbanistico, come con il progetto chiamato: “Nove Parchi per Milano”
(1995) un progetto dell’Assessorato all’urbanistica di Milano (assessore
Elisabetta Serri) frutto di un Laboratorio di progettazione urbana che ha visto
uniti i servizi comunali con i migliori talenti urbanistici, architettonici e
della mobilità della città. Ne è nato un progetto che, per ricchezza di
contenuti e di proposte, per metodologia, approccio, flessibilità, prospettiva
temporale è ancora oggi di grande interesse, Come scrisse nella presentazione
il sindaco di Milano di allora, Marco Formentini, che proprio in questi giorni
ci ha lasciati: “Il progetto “Nove parchi per Milano” ha le caratteristiche
e il rischio di un’azione strategica, ma in più possiede il pregio di declinare
una visione concreta del futuro della città, costituita da interventi specifici
precisamente localizzati che, nel loro insieme, determinano una strategia
complessiva di trasformazione di lungo termine. Quella che si prospetta è una
grande offerta per una nuova qualità della vita urbana soprattutto nelle
periferie e insieme un’occasione per uno sviluppo più trasparente e
responsabile dell’imprenditorialità nella trasformazione urbanistica della
città”.
Da
qui si può ripartire affinché lo sviluppo di intere parti della città non
continui ad essere data in appalto a enti rispettabili ma che, ovviamente,
pensano solo ai propri interessi, ed a ridurre la questione di natura
urbanistica che coinvolge intere parti importanti della città ad un puro e
semplice negoziato di volumetrie, come sta avvenendo per San Siro. È pensando a
tutte le occasioni perse e a quelle che ci accingiamo a perdere che guardo
l’alba di Milano dall’alto della terrazza con il cielo scuro di nuvole e con piccole
strisce biancheggianti all’orizzonte, e sento nostalgia di pensiero
urbanistico. La battaglia con il Covid19, nonostante tutto e nonostante la
Regione Lombardia, la vinceremo. Il tema del pensiero urbanistico temo invece
segnerà una nuova sconfitta per Milano.