Francamente
quando domenica 3 gennaio ho pubblicato sulla prima pagina di “Odissea” la
noticina: Una lingua senza futuro (lo stesso giorno una versione più
sintetica è uscita su “Il Quotidiano del Sud” nella mia rubrica “Pensieri in Città”
col titolo: Vita e morte di una lingua), non pensavo che sarei stato
investito da una marea di messaggi, email e telefonate da varie parti d’Italia.
Ringrazio quanti hanno espresso consenso e rammarico allo stesso tempo, seppure
con un solo aggettivo, o con un simbolino di adesione al mio ragionare. Per
limitare il campo abbiamo scelto di pubblicarne alcuni, sicuri di aggiungere
altra legna al fuoco. [Angelo Gaccione] Caro Angelo, lontano dal
contendere il futuro o il presente al cosentino o al milanese, mi pregio di
proporre alla tua riflessione un ribaltamento dei tuoi assunti: non sarà che il
futuro manchi proprio a quella lingua che più ha fiducia nel futuro tanto da
viverlo già come presente? Non sarà che è con questa certezza arcaica nella
vita che la tua lingua ti parla? E che sia tu, modernamente oberato di morte, a
non più intenderla? un caro e arcaico abbraccio, Gabriella Galzio
– Milano Caro Angelo,
una riflessione magistrale, bellissima. Anche nella sua chiusa, ed io di quella
chiusa sono l’esempio vivente. Da parte paterna vengo da una famiglia milanese
da sempre. Ma gli ultimi a conoscere e parlare il dialetto milanese nella mia
famiglia sono stati i miei nonni. Già i miei genitori non lo conoscevano più,
figurati io! Se vuoi attutire il dispiacere, possiamo dire che io sono un
portato storico del Risorgimento: ho una sola madre lingua: l’italiano. Se poi
questo sia un bene o un male… Da poeta dico che è un Giano bifronte; è un bene
e un male al tempo stesso. Filippo Ravizza– Milano Carissimo, a
me capita una cosa stranissima. Da qualche tempo in casa spesso parlo in
dialetto. Eppure io sono andato via dalla Calabria a 10 anni in collegio a
Orvieto e poi dopo la licenza liceale a Pavia dove vivo ancora. Quando ero
sindaco facevo uno sforzo per capire il dialetto pavese perché ricevevo i
cittadini due volte la settimana e molti di loro parlavano in dialetto. Ciao, Elio Veltri – Pavia (…) In
inglese non c’è il congiuntivo, in Calabrese non c’è il futuro che è comunque
reso dall’avverbio di tempo. Mario Monicelli disse di bandire la parola speranza,
amaro inganno verso i poveri. Così dovremmo fare con il futuro, un tempo che ci
dà l’alibi di posporre ciò che va cambiato subito. Più chiaramente: il futuro è
ora! Quindi il futuro è nel presente, proprio come nel dialetto Calabrese. La
mancanza del verbo al futuro, sotto questa luce, può essere una virtù e non un
difetto. Francesco
Saverio Lanza– Milano No, anche il
dialetto milanese usa il presente per azioni future. C’è il futuro come
grammatica ma è usato nelle filastrocche o in modo ironico e comunque molto
ipotetico. Questo nella mia esperienza. È una bella riflessione che ancora una
volta dice di come il dialetto è sulla vita quotidiana, quella di oggi. Silvia
Bianchi Barbanti– Sesto San
Giovanni, Mi Nella logica
del pastore ciò che è (in divenire) deve necessariamente essere: ha da iesse.
Vado, nel mio dialetto, si dice anche: aggia ii. Certamente la perdita
del dialetto è perdita culturale: viene meno un retaggio di ciò che siamo
stati. Nicola
Santagada– Amendolara
– Cs (…) Noi che
abitiamo l’estremo meridione dell’Area Lausberg, nella lingua parlata non
abbiamo il futuro, ma nemmeno il passato remoto, sostituito dal passato
prossimo e dall’imperfetto. Mentre lo utilizzano i catanzaresi e i reggitani.
Noi non abbiamo il futuro ma nemmeno vogliamo ricordare il nostro antico
passato. Forse perché ci interessa solo il presente o come dice il poeta, si
pensa che “ssa vita è n’affacceata e na trasuta” (questa vita è unaffaccio e un rientro ndr). E hai ragione tu, questa lingua è destinata
alla sua cancellazione, dolorosa per chi come noi ha rappresentato e rappresenta
il pane fragrante, sapido e odoroso della nostra infanzia. Un patrimonio di
lemmi intraducibili in altre lingue che si disperderà per sempre. Quando mi
capita di far visita a qualche ultranovantenne acritano, registro sempre con il
cellulare per riassaporare parole scomparse dal nostro dialetto residuale… (…) Salvatore
Ferraro– Acri - Cs Si parla di
lingua dialettale, quando vi è alle spalle una letteratura dal Duecento a tutt’oggi.
Gli altri sono vernacoli e vengono senz’altro più parlati di una lingua
dialettale. Lingue sono il sardo, il toscano, il siciliano, il veneziano, il
genovese, il napoletano e il milanese. Franco
Manzoni- Milano