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sabato 9 gennaio 2021

Raboni per Loi
UNA LINGUA LIRICA
di Giovanni Raboni*


Giovanni Raboni

Questo testo è stato scritto dal poeta e critico Giovanni Raboni, 34 anni fa. Lo aveva pubblicato su «Tuttolibri», [a. XII, n. 525, 1° novembre 1986, p. 2] in occasione dell’uscita della raccolta Bach, di Franco Loi, presso l’editore Scheiwiller di Milano. Ringraziamo di cuore la poetessa e amica Patrizia Valduga per avercelo inviato.
 
«Penso in italiano, parlo in italiano, scrivo anche in italiano. Ma quando scorre la musica delle mie memorie, quando voglio dare forma alle mie esperienze vengo sommerso dal milanese». Così, con molta semplicità, nella nota che introduce la sua nuova raccolta di poesie, Franco Loi ci ricorda la natura irresistibile e quasi medianica del suo rapporto con il dialetto. Eppure, si tratta di un dialetto non originario, non «materno» (Loi è nato a Genova da padre sardo e madre emiliana), ma acquisito e in buona parte inventato o, almeno, «trasfigurato»...
L'affermazione sopra riportata e, più ancora, la lettura del libro mi confermano in un'impressione che ho sempre provato di fronte ai testi di questo notevolissimo poeta, e cioè che il milanese non sia tanto, per lui, la lingua della realtà, quanto la lingua della poesia; o, se si vuole, la lingua della differenza. Il che, a tutta prima, sembra accomunare Loi alla quasi totalità dei poeti dialettali contemporanei, per i quali il dialetto si stacca dalla lingua non verso il basso, ma verso l'alto, ed è usato nell'ambito e in funzione di un progetto espressivo che non è (come era per i poeti dialettali di un tempo) di genere comico o satirico e di segno popolare, bensì di genere prevalentemente lirico e di segno tendenzialmente aristocratico.
Ma, per sua e nostra fortuna, Loi è poeta ben più complesso dei pur pregevoli (letterariamente pregevoli) rappresentanti della nuova arcadia dialettale; e il suo milanese - o ciò che egli chiama milanese - non è né più «alto» né più «basso» dell'italiano, ma semplicemente «altro», così come «altro» e personalissimo è il suo modo di porsi dentro e contro la realtà che lo circonda. Libertario per formazione e vocazione, Loi ha fatto spesso del dialetto (si pensi a uno dei risultati più emozionanti, il poemetto Stròlegh, pubblicato da Einaudi nel '75) il punto di vista, l'ottica violentemente deformata e tendenziosa dell'emarginazione sottoproletaria e della ribellione alla storia. Altre volte - e in particolare, e con particolare forza, in questo Bach - il dialetto diventa invece, nella sua pronuncia, una sorta di dura e solenne vocalità del dolore, della mutezza, dell'amore sentito come selvaggia impossibilità di appartenere e di appartenersi.


La facciata della casa di Raboni
in Via Melzo a Milano

*I lettori di questo giornale sanno che Giovanni Raboni è stato una figura di spicco della cultura italiana (poeta, critico letterario e teatrale, traduttore), ma anche un finissimo intellettuale. Fortemente legato alla sua Milano, città dove era nato e alla quale ha dato lustro, aveva un affetto particolare per Porta Venezia. Una volta mi disse che si considerava a tutti gli effetti un poeta milanese, anzi, il poeta di Porta Venezia. Voglio ricordare che negli anni bui della strategia della tensione che culminarono con la strage di Piazza Fontana e l’omicidio di Pinelli, Raboni fu tra i pochissimi, assieme al suo amico Franco Fortini, a presenziare ai funerali di Pinelli. Sulla strage ha scritto uno dei testi poetici - a mio parere più potenti. Le amministrazioni leghiste e berlusconiane non lo amavano, disamore del resto abbondantemente ricambiato dal poeta, ma ci saremmo aspettati, da quelle che si sono succedute in questi anni, una sensibilità diversa. Vorrei ricordare all’assessore alla Cultura, al sindaco e alla Giunta comunale, che la casa dove il poeta ha vissuto una parte abbondante della sua vita, è sempre in via Melzo al numero 19. Sono sicuro che aspetta una targa che lo ricordi degnamente a tutti noi e alla città.
[Angelo Gaccione]