Raboni
per Loi
UNA LINGUA LIRICA
di
Giovanni Raboni*
Giovanni Raboni
Questo
testo è stato scritto dal poeta e critico Giovanni Raboni, 34 anni fa.
Lo aveva pubblicato su «Tuttolibri», [a.
XII,
n. 525, 1° novembre 1986,
p. 2] in occasione dell’uscita
della raccolta Bach, di Franco
Loi,
presso l’editore Scheiwiller
di Milano.
Ringraziamo di cuore la poetessa e amica Patrizia Valduga per avercelo inviato.
«Penso in italiano, parlo in italiano, scrivo anche in
italiano. Ma quando scorre la musica delle mie memorie, quando voglio
dare forma alle mie esperienze vengo sommerso dal milanese». Così, con molta
semplicità, nella nota che introduce la sua nuova raccolta di poesie, Franco
Loi ci ricorda la natura irresistibile e quasi medianica del suo rapporto con il
dialetto. Eppure, si tratta di un dialetto non originario, non «materno» (Loi è
nato a Genova da padre sardo e madre emiliana), ma acquisito e in buona parte
inventato o, almeno, «trasfigurato»...
L'affermazione
sopra riportata e, più ancora, la lettura del libro mi confermano in
un'impressione che ho sempre provato di fronte ai testi di questo notevolissimo
poeta, e cioè che il milanese non sia tanto, per lui, la lingua della realtà,
quanto la lingua della poesia; o, se si vuole, la lingua della differenza. Il
che, a tutta prima, sembra accomunare Loi alla quasi totalità dei poeti
dialettali contemporanei, per i quali il dialetto si stacca dalla lingua non
verso il basso, ma verso l'alto, ed è usato nell'ambito e in funzione di un
progetto espressivo che non è (come era per i poeti dialettali di un tempo) di
genere comico o satirico e di segno popolare, bensì di genere prevalentemente
lirico e di segno tendenzialmente aristocratico.
Ma,
per sua e nostra fortuna, Loi è poeta ben più complesso dei pur pregevoli
(letterariamente pregevoli) rappresentanti della nuova arcadia dialettale; e il
suo milanese - o ciò che egli chiama milanese - non è né più «alto» né più
«basso» dell'italiano, ma semplicemente «altro», così come «altro» e
personalissimo è il suo modo di porsi dentro e contro la realtà che lo
circonda. Libertario per formazione e vocazione, Loi ha fatto spesso del
dialetto (si pensi a uno dei risultati più emozionanti, il poemetto Stròlegh,
pubblicato da Einaudi nel '75) il punto di vista, l'ottica violentemente
deformata e tendenziosa dell'emarginazione sottoproletaria e della ribellione
alla storia. Altre volte - e in particolare, e con particolare forza, in questo
Bach - il dialetto diventa invece, nella sua pronuncia, una sorta di
dura e solenne vocalità del dolore, della mutezza, dell'amore sentito come
selvaggia impossibilità di appartenere e di appartenersi.
La facciata della casa di Raboni
in Via Melzo a Milano
*I lettori di questo
giornale sanno che Giovanni Raboni è stato una figura di spicco della cultura
italiana (poeta, critico letterario e teatrale, traduttore), ma anche un
finissimo intellettuale. Fortemente legato alla sua Milano, città dove era nato
e alla quale ha dato lustro, aveva un affetto particolare per Porta Venezia.
Una volta mi disse che si considerava a tutti gli effetti un poeta milanese,
anzi, il poeta di Porta Venezia. Voglio ricordare che negli anni bui
della strategia della tensione che culminarono con la strage di Piazza Fontana
e l’omicidio di Pinelli, Raboni fu tra i pochissimi, assieme al suo amico
Franco Fortini, a presenziare ai funerali di Pinelli. Sulla strage ha scritto
uno dei testi poetici - a mio parere più potenti. Le amministrazioni leghiste e
berlusconiane non lo amavano, disamore del resto abbondantemente ricambiato dal
poeta, ma ci saremmo aspettati, da quelle che si sono succedute in questi anni,
una sensibilità diversa. Vorrei ricordare all’assessore alla Cultura, al
sindaco e alla Giunta comunale, che la casa dove il poeta ha vissuto una parte
abbondante della sua vita, è sempre in via Melzo al numero 19. Sono sicuro che
aspetta una targa che lo ricordi degnamente a tutti noi e alla città.
[Angelo
Gaccione]
in Via Melzo a Milano