Non c’è Keynes ma fa capolino Schumpeter Inew entry nella
maggioranza, la qualità e il modo della scelta delle ministre (poche) e dei
ministri, quindi la composizione del nuovo esecutivo e il come ci si è arrivati,
faceva capire che eravamo di fronte ad una sterzata a destra. Era giusto, tuttavia,
attendere il discorso programmatico per un giudizio più ponderato. Quanto ha
detto Draghi al Senato non ha certo attutito questa analisi. Il suo è stato un
discorso privo persino di quel pathos che la drammaticità della situazione
avrebbe sollecitato. Basta vedere l’aumentata pericolosità delle varianti del
virus. Draghi si è richiamato allo spirito repubblicano. Ma ben altra forza
morale, politica e programmatica avrebbe dovuto mettere in campo. Non basta
dire che si è uniti da “l’amore per l’Italia”. Nessuno da quello scranno
avrebbe potuto dire il contrario. Draghi ha sentito il bisogno di motivare la
ragione per cui un così ampio arco di forze tra loro ben diverse lo sorreggono.
Lo ha fatto con affermazioni palesemente contradditorie, segno di un certo
imbarazzo. Prima ha lodato il senso di responsabilità delle forze politiche
“alle quali è stata chiesta una rinuncia per il bene di tutti”, immediatamente
dopo, per negare il fallimento della politica, ha sostenuto che “nessuno fa un
passo indietro rispetto alla propria identità”. Il confine invalicabile resta
l’irreversibilità dell’euro e la prospettiva di una Ue capace di sostenere i
paesi in recessione. Ma questo era già stato metabolizzato dalla Lega che ha
preferito spostare la sua conflittualità sull’apertura delle piste da sci. Per
il resto Draghi ha non solo riservato un omaggio formale a Conte, ma ha
sussunto il lavoro del precedente governo sul Recovery Plan, che si tratterebbe solo di approfondire e
completare. Del resto non molte ore prima dagli uffici del commissario Ue
all’Economia, era giunta la sollecitazione al nuovo governo a “rimettere le
mani sulla granularità dei progetti, sulle riforme che vanno insieme ai
progetti di investimento e sulla
governance”. Ed è quello che Draghi intende fare, senza grandi
sconvolgimenti dell’impianto generale. La governance
l’ha attribuita al Mef. La crisi non è come un blackout elettrico - ha detto -
per cui girato l’interruttore tutto torna come prima. Ma questa ovvia
considerazione non lo spinge minimamente sul terreno di riforme capaci di
incidere sul modello di sviluppo. È assente l’idea di uno Stato imprenditore e
innovatore sui cui fondare la ricostruzione. Il tema del Mezzogiorno compare
oltre la metà del suo discorso, come se non fosse necessario, come ha più volte
avvertito il presidente della Svimez, utilizzare i fondi europei almeno per ridurre
le distanze fra Nord e Sud, sapendo che investendo sulle aree deboli si ha un
tasso di sviluppo anche quantitativamente, oltre che qualitativamente,
superiore. Ha parlato molto di ambiente, ma la parola idrogeno è comparsa solo
di striscio, quando invece quello verde, ottenuto attraverso energie
rinnovabili, è la chiave strategica della conversione ecologica senza cui gli
obiettivi di riduzione delle emissioni restano lettera morta. Ha citato
l’aumento delle diseguaglianze, non una parola sul reddito di cittadinanza. Ha
ricordato la diminuzione delle aspettative di vita, poco sulla necessità di una
riforma sanitaria fondata sul pubblico, nulla contro l’allontanamento dell’età
pensionabile. Ha riproposto, seppure in modo più prudente, la tesi del gruppo
dei Trenta, da lui finora co-diretto, di sostegni selettivi per evitare di
tenere in vita imprese zombie. Ha
fatto riferimento alla fine del blocco dei licenziamenti senza dire che fare
concretamente. Ha insistito sull’attenzione agli istituti tecnici, rivelando
una propensione verso una dimensione professionalizzante della scuola. Ha
parlato di riduzione del carico fiscale senza precisare come e per chi. Non
basta certo il richiamo, costituzionalmente dovuto, alla progressività, che va non
solo “preservata” ma reintrodotta, dopo diversi interventi legislativi che l’hanno
violata. Siamo al di sotto delle stesse raccomandazioni del 2019 della
Commissione europea, la quale chiedeva di “utilizzare entrate straordinarie per
accelerare la riduzione del rapporto debito pubblico/PIL; spostare la pressione
fiscale dal lavoro, in particolare riducendo le agevolazioni fiscali e
riformando i valori catastali non aggiornati”. Così per la pubblica
amministrazione vi è solo il richiamo allo smaltimento del lavoro accumulato,
mentre sul tema giustizia si evita di entrare sulla vexata quaestio della prescrizione. Draghi ha fatto appello ai
privati e al terzo settore, non una parola sui sindacati che pure si erano
spinti a un endorsement davvero
precipitoso. Il fare è il suo credo, ma esiste anche la banalità del fare se
non è guidato da un forte animo riformatore. Quanto si decide oggi sul Recovery durerà fino al 2026, superando
di un bel tratto i confini dell’attuale legislatura. E le tranche dei
finanziamenti seguiranno l’attuazione del programma. La sproporzione fra le
dichiarazioni di Draghi e l’enormità dell’impegno da contrarre è tale da
considerare indispensabile la costruzione di un’opposizione di sinistra in
Parlamento e nel paese.