Appena, con inusitata energia,
il Presidente Mattarella ha dichiarato di volere dare a Mario Draghi il mandato
per formare il prossimo governo - “un governo di alto profilo che non debba
identificarsi con alcuna formula politica” - si è aperta la discussione
sull’opportunità o meno di un governo tecnico. Ma tutto si può dire del governo
Draghi, se si farà, tranne che si tratti di un governo tecnico. I precedenti,
nati sotto quella definizione, Ciampi, Dini, Monti sono tra i governi che hanno
più inciso nella vita materiale del paese - vedi per esempio le pensioni - e
quindi hanno fatto politica, nel senso più pregnante del termine. Nello stesso
tempo troppo diverse sono le condizioni oggettive e soggettive per poter fare
paragoni stringenti con quelle situazioni. Con Draghi abbiamo una
compenetrazione tra governance
europea e governo nazionale. È persino riduttivo dire che per l’ignavia delle
classi dirigenti politiche ed economiche del nostro paese ci tocca il “pilota
automatico”, un commissario tecnocrate. Qui abbiamo l’ingegnere costruttore,
non solo il suo robot. Mario Draghi ha interpretato diverse fasi della
costruzione dell’Europa, qualunque fosse il suo ruolo pubblico o privato. Almeno
quattro e tutte decisive, di cui è possibile seguire una successione
cronologica, salvo parziali sovrapposizioni temporali. L’epoca delle grandi
privatizzazioni, quelle decise a bordo del Britannia,
per cui il nostro paese divenne il secondo dopo l’Inghilterra thatcheriana
per volume nel valore delle dismissioni dei beni dello Stato, accompagnate dal
fanatismo rigorista che finirà per partorire l’assurdo Fiscal compact e l’accanimento brutale nei confronti della Grecia.
La famigerata lettera assieme a Trichet al governo italiano del 5 agosto del
2011 che tracciò un percorso di lacrime e sangue puntualmente eseguito dai
governi che seguirono. Il lancio, seppure tardivo rispetto ad altre parti del
mondo, della politica monetaria espansiva, con il Quantitative Easing. Per arrivare all’intervento sul Financial Times del 25 marzo dello scorso anno, nel quale il debito
(quello “buono”, non per fini assistenzialistici o per tenere in vita imprese
zombie, preciserà altrove) smetteva di essere un tabù e allo stesso tempo si
denunciavano i limiti di una politica monetaria espansiva non accompagnata da
modifiche strutturali. Senza però indicare quali e l’omissis non è di poco peso.
Mattarella
Svolgendo la pellicola si ha la visione precisa del
costruirsi di una politica, quella del tempo della lotta di classe dopo la
lotta di classe - avrebbe detto Luciano Gallino - agita dal punto di vista dei
vincitori. Con Draghi quindi non assistiamo alla morte di tutte le politiche.
Ma al funerale di quella di cui sopravviveva solo un ingannevole crisalide, una
volta che la rappresentanza politica di una delle parti del conflitto sociale
era stata - e si era - cancellata. Renzi canta vittoria, volendo fare credere che tutto
deriva da una sua abile pensata politica. E c’è chi, credendo così di fargli
una critica, accredita questa interpretazione. Ma che gli obiettivi di Renzi
non riguardassero il miglioramento del Recovery
Plan era chiaro fin da prima. Se fosse stato veramente quello il punto
avrebbe ritirato le ministre prima e non dopo il passaggio in Consiglio dei
ministri del Piano di resistenza e resilienza (per inciso: che pessimo nome!).
I suoi obiettivi erano altri, assai più profani. In primo luogo quello di
inquinare il terreno di un possibile idillio fra Pd e M5S. In secondo luogo, ma
anche invertendo l’ordine dei fattori il prodotto non cambia, di sbarrare la
strada alla crescita di consensi verso Giuseppe Conte che avrebbe potuto
permettere a quest’ultimo la fondazione di un partito o almeno di una
formazione elettorale che avrebbe tolto spazi a quelli già miseri di Italia
Viva.
Renzi
Le modalità di formazione del nuovo governo presentano
non poche anomalie, anche sotto il profilo costituzionale. Lo si può anche
definire un governo del Presidente nei limiti in cui questa definizione ha senso
in un sistema che ancora mantiene la forma del governo parlamentare. Senza
indulgere a disutili dietrologie, l’insolito attivismo del Capo dello Stato ne
ha certamente determinato l’atto di nascita, nel vuoto umiliante di iniziativa
delle forze politico-parlamentari, in una situazione che tutti a parole hanno
dipinto tanto drammatica da assimilarla a quelle postbelliche. Se si guarda dal buco della serratura dell’oscillazione
dello spread non si sono verificati
crolli drammatici come nel passato. Ma questo dimostra solo la compenetrazione
della nostra economia nel quadro internazionale e le attese legate
all’innovativo intervento europeo. Ma non risolve il problema della diminuzione
dell’occupazione, con giovani e donne le prime vittime, o lo sprofondare del
nostro Mezzogiorno.
I ritardi del Recovery
Plan non sono temporali, quanto culturali. Una classe dirigente cresciuta
nel mito dell’austerità e del rigore, naturalmente applicati non a sé (si pensi
all’isterica reazione a fronte di una timida proposta di patrimoniale) ma ai
più deboli, ovvero alla stragrande maggioranza della popolazione, con
difficoltà può essere rieducata alla capacità di spesa. Chi ha negato in
ragione di principio la possibilità dell’intervento pubblico diretto a
impostare un nuovo tipo di sviluppo economico, trova incompatibile l’idea
stessa di programmazione. Le questioni che ha davanti Draghi sono queste, assai più
gravi del nome dei ministri, della loro estrazione, se dal mondo delle
competenze o da quello di una esangue nomenclatura partitica. Il tentativo
della destra nostrana di riaccreditarsi, anche a livello europeo, dimostrandosi
disponibile e vogliosa di partecipare in prima persona nel nuovo governo va
respinta non in nome del perimetro “Ursula”, ma sulla base di scelte di
programma e di senso del bene pubblico. Su questo fronte era lecito attendersi
un atteggiamento più prudente da parte dei vertici sindacali, i quali hanno subito
espresso un endorsement
per Draghi, prima ancora dell’incontro promesso con le parti sociali dal
Presidente incaricato. Tanto più che l’intesa raggiunta sul contratto dei
metalmeccanici, che dovrà essere validata dai lavoratori con un grande atto di
democrazia reale, dimostra che si poteva produrre una breccia nel muro
confindustriale, riaprendo uno spazio sociale e democratico che è l’unico modo
per influire anche sulle scelte del governo che verrà. Un governo spostato a
destra rispetto al precedente sarebbe già una pessima cosa, ma ancor peggio un
governo senza un’opposizione di sinistra. La probabile nascita di un governo
Draghi, con la formula “Ursula” o con l’appoggio di tutti, destra estrema
compresa dovrebbe sottolineare la mancanza di una sinistra coerente nel paese e
la necessità di (ri)costruirla.