La notizia della sparatoria avvenuta a Montichiari alla
Vigilia di Pasqua ha lasciati attoniti tutti. Noi che viviamo quaggiù, in
questa provincia della Bassa Bresciana, dove generalmente il massimo su cui ci
troviamo a discutere sono le corna di qualche vicino, e coloro che ci osservano
da fuori abituati a considerarci i più noiosi del Nord sempre impegolati nel
lavoro o in discussioni sterili legate alla politica. Quando, dopo poche ore,
si è poi sparsa la voce che a sparare era stato nientemeno che un ragazzino di
13 anni, armato da un ventisettenne suo parente per futili motivi legati ad una
rivalità in amore, lo stupore si è trasformato in sgomento e quegli aspri
confronti di solito incentrati sul poco si sono fatti sempre più accesi. Nell’ordinamento
italiano la minore età fino ai 14 è considerata causa di non imputabilità, questo
significa che qualsiasi azione commessa sotto i 14 anni non è punibile in
quanto prima di quell’età le abilità cognitive non sono ancora considerate
totalmente formate. È giusto? È sbagliato? Non sta a noi ergerci da giudici
social e decidere che all’età di 12 o 13 anni la vita di una persona possa già
essere bollata tra criminalità o rispettabilità. Si ha un bel dire, inoltre,
sostenendo che un ragazzino di 12 anni sappia chiaramente dove sta il limite
fra giusto e sbagliato allorquando la maggior parte degli adulti oggi non ne ha
affatto consapevolezza. A quell’età è facile convincerli che i loro gesti non
avranno conseguenze o spingerli a fare qualsivoglia cosa per difendere qualcuno
a cui sono legati, a cui vogliono bene. Se considerassimo i bambini pienamente
responsabili delle proprie azioni, inoltre, avremmo da ridiscutere anche molti
altri reati, primo fra tutti quello della pedofilia e sinceramente non sembra
il caso. La via della punizione, dello sbatterli in carcere e buttare la chiave
è sicuramente quella più facile, quella che da subito balza in mente per
risolvere il problema nell’immediato, eppure non solo non è risolutiva, come
molti Stati al mondo dimostrano, ma soprattutto non ci assolve dal lavarci la
coscienza sulle nostre carenze, sulle mancanze che da tempo la società, la
scuola, le famiglie e i Media hanno messo in luce nei confronti dei più
giovani. La
questione è sempre la stessa: cosa trasmettiamo noi adulti ai ragazzi? Generalmente
che conta solo la propria realizzazione, i propri desideri, il proprio
interesse personale, che il proprio “io” non deve essere svilito, che bisogna
rispondere alle provocazioni sempre e con forza, realizzare ogni nostro
desiderio, far valere sempre e comunque le nostre pretese verso gli altri. Nessuno
di noi li aiuta, invece, a capire che non è affatto giusto così, che spesso
accettare un fallimento aiuta a crescere, che le regole non sono lì per
soffocarci o piegarci con la forza ma per crescere dritti verso il cielo, che
essere qualche volta perdenti consolida la nostra capacità di raggiungere nuovi
obiettivi. Per arginare la violenza giovanile, che abbiamo sotto gli occhi ogni
giorno, non corre ergersi a giudici fast food ma studiare con attenzione,
conoscere le cause e i processi
che portano a determinate situazioni e aver desiderio di prevenirli con
obiettivi strategici. Occorre soprattutto far concentrare i ragazzi in azioni utili per sé e per gli altri,
cogliere le radici dell'aggressività per aiutarli a capirla, gestirla,
eventualmente eliminarla e farli tornare bambini, finalmente, supportati da un
mondo che non li vuole far crescere in fretta a tutti i costi.