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giovedì 15 aprile 2021

IL FISCO AL CENTRO DEL DIBATTITO
di Alfonso Gianni


La questione fiscale diventa un tema internazionale
 
Di questi temi, nel quadro di un fine settimana ricco di webinar “Lezione 2020, Spunti per il futuro” discuteremo di fisco, con Vincenzo Visco, Mario Craviolatti, Lucrezia Fanti, Giovanni Paglia, Francesco Pallante (Sabato 17 aprile ore 17.30) e del nodo di debito con David Sassoli, Juan Mena Arca, Antonella Stirati e Vincenzo Visco, oltre al sottoscritto (domenica 18 aprile, ore 10.00).
 
La tassazione delle imprese e la loro misura sta diventando, in queste ultime settimane, argomento di dibattito internazionale e potrebbe portare a decisioni significative anche nel prossimo G20 di luglio che si terrà sotto la presidenza italiana. Finora il livello della tassazione delle imprese era andato costantemente diminuendo. Negli ultimi 40 anni, ovvero da quando le dottrine neoliberiste hanno conquistato l’egemonia a livello mondiale, le aliquote dell’imposta sugli utili societari sono diminuite senza interruzione.  Nel 1980 la percentuale fiscale media a livello mondiale era stimata pari al 40,11%. Attualmente invece il tasso legale medio si attesta al 23,85%, quindi con una riduzione di ben il 41%. Questo è stato il risultato di una lotta di classe condotta a livello globale dalle forze dominanti del capitalismo che ha allargato enormemente le differenze e le ingiustizie sociali. Durante l’attuale pandemia abbiamo assistito all’incremento degli utili di quelle imprese multinazionali legate al digitale, alla fornitura di servizi e alla comunicazione a distanza, nonché alla fabbricazione e distribuzione di vaccini e farmaci. Hanno potuto sfruttare una enorme crescita della domanda indotta dalla pandemia e dalle misure costrittive assunte per contrastarla, ma sono state soprattutto favorite dalla possibilità di potere pagare le tasse laddove minore è la pressione fiscale. Le denunce contro i paradisi fiscali o le tassazioni ultraridotte non si contano, perché non costano nulla dal momento che dalle parole non si è mai passati ai fatti. Gli enormi vantaggi fiscali per le multinazionali hanno potuto contare sulle contraddizioni interne alla costruzione europea. Tra queste vi è indubbiamente quella che, da un lato, l’adozione di una moneta unica inibisce la possibilità di ricorrere a svalutazioni competitive, dall’altro è pienamente consentita la competizione sul piano fiscale. Nella Ue il problema non ha mai trovato soluzione poiché, tra gli altri motivi, vi è quello che sulle decisioni da assumere in materia fiscale vige il principio dell’unanimità dei paesi membri e quindi funziona il potere di veto in particolare di alcuni piccoli paesi, quali l’Irlanda, il Lussemburgo e i Paesi Bassi, interessati ad attirare investimenti esteri favoriti dalle basse tassazioni.



Ora però le posizioni che vengono dall’altra parte dell’Atlantico potrebbero cambiare la situazione (l’uso del condizionale in una materia come questa è d’obbligo). Joe Biden, d’intesa con Yanet Allen, a capo del Tesoro, ha scompigliato le carte avanzando due proposte di forte impatto. La prima consiste nel fatto che le multinazionali, paghino le tasse in base a quanto fatturano in ogni paese. Il cambiamento sarebbe radicale, in quanto attualmente Alphabet (cui fa capo Google), Apple, Microsoft. Amazon, per citare alcune delle multinazionali più note e che hanno incrementato considerevolmente i loro profitti in questa crisi pandemico-economica, pagano le tasse ove sono domiciliate, ovvero nei paesi con le imposte nominali, ma soprattutto reali tra le più basse. La seconda concerne l’introduzione di una minimum tax globale al 21%. L’aliquota di per sé non è sconvolgente, come si può vedere. Né dovrebbe essere posta in alternativa alla tassazione degli utili effettivamente realizzati dalle multinazionali, né alla Web tax, alla Carbon tax o alla giusta riproposizione della Tobin tax sui movimenti di capitali a scopo speculativo.
Bisogna comunque tenere conto del quadro attuale, nel quale sono almeno 35 i paesi che applicano aliquote fiscali tra lo zero assoluto e il 12,5%. Il rapporto dello scorso dicembre della Tax Foundation, un think tank fondato a Washington nel 1937 da influenti manager americani, ci racconta che sono ben 15 i paesi che non prevedono imposte sugli utili societari (tra cui le Bahamas, il Bahrain, le Bermuda, gli Emirati arabi uniti). Mentre altri Stati applicano un’aliquota inferiore al 12,5%, fra cui l’Irlanda e l’Ungheria che l’ha recentemente ridotta dal 10% al 9%. Ma a questo dato dobbiamo aggiungere che vi è notevole differenza tra l’aliquota ufficiale e quella realmente praticata, a causa di deduzioni, detrazioni e gli accordi contro la doppia imposizione fiscale, in sé giusti, ma che spesso finiscono per evitare qualsiasi tassazione, come ci ha documentato uno studio del maggio del 2020 dell’Osservatorio sui conti pubblici italiani dell’Università Cattolica di Milano, come è noto diretto da Carlo Cottarelli. Rimanendo in Europa, fanno scuola il caso dell’Irlanda ove in luogo dell’aliquota del 12,5%, si è scesi persino allo 0,005%, o quello del Lussemburgo dove dal 25% ufficiale si è scesi anche del 99% raggiungendo un irrisorio 0,3%; oppure quello dell’Olanda che dal nominale 25% giunge al concreto 2,44%; o il Belgio dove si può arrivare a scendere dal 29% al 2,9%. I “paesi frugali”, appunto.



Ma tutto ciò deriva da una improvvisa resipiscenza del capitalismo americano? Non proprio. Biden ha prospettato non molti giorni fa l’intenzione di portare le imposte sulle società dal 21%, dove erano precipitate grazie a Trump, al 28%. Un recupero solo parziale rispetto alla situazione pre-Trump, ma già tale da scatenare le ire e i pianti delle corporations statunitensi, dei repubblicani e anche di qualche democratico “moderato”. In sostanza Biden, ripercorrendo le orme di Franklin Delano Roosvelt, intende fare pagare alle imprese almeno una parte dell’ingente progetto di spesa statale messo in cantiere per fronteggiare la crisi e rilanciare l’economia statunitense. Nel contempo però deve evitare che gli utili, a partire da quelli delle grandi corporations se ne vadano all’estero. Deve perciò se non sconfiggere perlomeno fronteggiare la concorrenza fiscale che permette ai paesi di cui sopra di attirare le imprese americane e quindi tagliare le unghie ai paradisi fiscali.



Tutto questo non può riuscire - se verrà effettivamente tentato - se non uniformando a livello mondiale almeno alcune delle più importanti regole fiscali, segnatamente per quanto riguarda la tassazione sugli utili delle imprese. E la riunione del G20 del prossimo luglio diventa un passaggio strategico lungo questa strada. È evidente che il ruolo della Ue potrebbe rivelarsi determinante. Dal momento che nell’accordo di luglio 2020, che ha aperto le porte alla realizzazione, ancora in fieri, del Recovery Fund, si prevede che esso debba venire finanziato non solo dai trasferimenti degli stati membri nel bilancio europeo, ma da una capacità di imposizione fiscale a livello sovrannazionale e dalla emissione di Eurobonds.
Mario Draghi, presidente di turno del G20, avrebbe fatto sapere di essere d’accordo sulla introduzione di una tassa minima sulle aziende. Vedremo. Intanto dovrebbe realmente preoccuparsi di avviare una seria riforma fiscale nel nostro paese che rispetti pienamente il principio costituzionale della progressività, che in questi ultimi decenni è stato eroso dalle leggi e leggine di argomento fiscale che si sono succedute nel frattempo. Inoltre, vista la rilevante patrimonializzazione della ricchezza italiana, il tema di una patrimoniale, connessa con una congrua franchigia che eviti di colpire i meno abbienti, non può più essere dilazionato e tantomeno evitato. Persino i milionari si dichiarano, almeno a parole, favorevoli all’introduzione di una patrimoniale e comunque di una tassazione più equa, quindi progressiva. Tale è lo scandalo, si potrebbe dire, delle enormi differenze sociali e reddituali che l’attuale crisi ha incrementato. Non si tratta però di un sussulto etico, ma di un’analisi della inefficacia dei regali fiscali per ciò che riguarda l’andamento dell’economia (non certo per le tasche di alcuni fortunati). Una recente ricerca della London School of Economics ci dice che negli ultimi 50 anni, in 18 paesi Ocse, i tagli fiscali effettuati a favore delle situazioni più agiate non hanno portato alcun aumento della competitività e del Pil, e che quindi, anche da un punto di vista prettamente capitalistico, si sono rivelati inefficaci quando non dannosi.



Per quanto riguarda il caso italiano un recente sondaggio ha capovolto la vulgata del terrore per la introduzione di una tassa patrimoniale. Millionaires for Humanity (un gruppo di multimilionari provenienti da più parti del mondo, di cui fa parte Abigal Disney, ereditiera della Walt Disney) insieme a Tax Justice Italia hanno recentemente commissionato un sondaggio che ha fornito esiti che per alcuni sono risultati sorprendenti. Il 66% della popolazione italiana, due cittadini su tre, sarebbero favorevoli alla proposta di un’imposta annuale aggiuntiva dell’1% del patrimonio totale per chi detiene un patrimonio superiore agli 8 milioni di euro. Naturalmente passare dai sondaggi alla realizzazione di una legge al riguardo non è cosa semplice. Ma intanto questa rilevazione statistica ci dice che l’argomento non è così impopolare come fin qui si è voluto fare credere. Dipende da come lo si presenta, come lo si finalizza e come lo si fa.
Sarebbe utile quindi non considerarlo un tabù ma farne oggetto di un dibattito aperto. Invece siamo completamente fermi alle dichiarazioni programmatiche rese al Parlamento da Mario Draghi in occasione della richiesta di fiducia al suo governo. Come si sa in quella occasione Draghi non fece altro che infilare nel suo scarno discorso qualche riga dell’amico di famiglia, poi nominato consigliere a Palazzo Chigi, ovvero Francesco Giavazzi che faceva riferimento alla necessità di formare una commissione di esperti che mettesse mano alla riforma fiscale. Non proprio un’ideona, dal momento che gli esperti non mancano, ma va dato loro un chiaro indirizzo su cosa lavorare. Da allora non se ne è saputo più niente. Anzi, non sono ignoti gli scetticismi al riguardo del ministro dell’economia Daniele Franco, fedelissimo del presidente del Consiglio. Forse si attende che ce lo chieda l’Europa?