IL FISCO AL CENTRO DEL DIBATTITO di Alfonso Gianni
La questione fiscale diventa un tema internazionale Di
questi temi, nel quadro di un fine settimana ricco di webinar “Lezione 2020,
Spunti per il futuro” discuteremo di fisco, con Vincenzo Visco, Mario
Craviolatti, Lucrezia Fanti, Giovanni Paglia, Francesco Pallante (Sabato 17
aprile ore 17.30) e del nodo di debito con David Sassoli, Juan Mena Arca,
Antonella Stirati e Vincenzo Visco, oltre al sottoscritto (domenica 18 aprile,
ore 10.00). La tassazione delle imprese e
la loro misura sta diventando, in queste ultime settimane, argomento di
dibattito internazionale e potrebbe portare a decisioni significative anche nel
prossimo G20 di luglio che si terrà sotto la presidenza italiana. Finora il
livello della tassazione delle imprese era andato costantemente diminuendo.
Negli ultimi 40 anni, ovvero da quando le dottrine neoliberiste hanno
conquistato l’egemonia a livello mondiale, le aliquote dell’imposta sugli utili
societari sono diminuite senza interruzione.Nel 1980 la percentuale fiscale media a livello mondiale era stimata pari
al 40,11%. Attualmente invece il tasso legale medio si attesta al 23,85%,
quindi con una riduzione di ben il 41%. Questo è stato il risultato di una
lotta di classe condotta a livello globale dalle forze dominanti del
capitalismo che ha allargato enormemente le differenze e le ingiustizie sociali.
Durante l’attuale pandemia abbiamo assistito all’incremento degli utili di
quelle imprese multinazionali legate al digitale, alla fornitura di servizi e
alla comunicazione a distanza, nonché alla fabbricazione e distribuzione di
vaccini e farmaci. Hanno potuto sfruttare una enorme crescita della domanda
indotta dalla pandemia e dalle misure costrittive assunte per contrastarla, ma
sono state soprattutto favorite dalla possibilità di potere pagare le tasse
laddove minore è la pressione fiscale. Le denunce contro i paradisi fiscali o
le tassazioni ultraridotte non si contano, perché non costano nulla dal momento
che dalle parole non si è mai passati ai fatti. Gli enormi vantaggi fiscali per
le multinazionali hanno potuto contare sulle contraddizioni interne alla
costruzione europea. Tra queste vi è indubbiamente quella che, da un lato, l’adozione
di una moneta unica inibisce la possibilità di ricorrere a svalutazioni
competitive, dall’altro è pienamente consentita la competizione sul piano
fiscale. Nella Ue il problema non ha mai trovato soluzione poiché, tra gli
altri motivi, vi è quello che sulle decisioni da assumere in materia fiscale
vige il principio dell’unanimità dei paesi membri e quindi funziona il potere di
veto in particolare di alcuni piccoli paesi, quali l’Irlanda, il Lussemburgo e
i Paesi Bassi, interessati ad attirare investimenti esteri favoriti dalle basse
tassazioni.
Ora però le posizioni che
vengono dall’altra parte dell’Atlantico potrebbero cambiare la situazione
(l’uso del condizionale in una materia come questa è d’obbligo). Joe Biden,
d’intesa con Yanet Allen, a capo del Tesoro, ha scompigliato le carte avanzando
due proposte di forte impatto. La prima consiste nel fatto che le
multinazionali, paghino le tasse in base a quanto fatturano in ogni paese. Il
cambiamento sarebbe radicale, in quanto attualmente Alphabet (cui fa capo Google),
Apple, Microsoft. Amazon, per citare
alcune delle multinazionali più note e che hanno incrementato considerevolmente
i loro profitti in questa crisi pandemico-economica, pagano le tasse ove sono
domiciliate, ovvero nei paesi con le imposte nominali, ma soprattutto reali tra
le più basse. La seconda concerne l’introduzione di una minimum tax globale al 21%. L’aliquota di per sé non è
sconvolgente, come si può vedere. Né dovrebbe essere posta in alternativa alla
tassazione degli utili effettivamente realizzati dalle multinazionali, né alla Web tax, alla Carbon tax o alla giusta riproposizione della Tobin tax sui movimenti di capitali a scopo speculativo. Bisogna comunque tenere conto del quadro attuale, nel
quale sono almeno 35 i paesi che applicano aliquote fiscali tra lo zero
assoluto e il 12,5%. Il rapporto dello scorso dicembre della Tax Foundation, un think tank fondato a Washington nel 1937 da influenti manager
americani, ci racconta che sono ben 15 i paesi che non prevedono imposte sugli
utili societari (tra cui le Bahamas, il Bahrain, le Bermuda, gli Emirati arabi
uniti). Mentre altri Stati applicano un’aliquota inferiore al 12,5%, fra cui
l’Irlanda e l’Ungheria che l’ha recentemente ridotta dal 10% al 9%. Ma a questo
dato dobbiamo aggiungere che vi è notevole differenza tra l’aliquota ufficiale
e quella realmente praticata, a causa di deduzioni, detrazioni e gli accordi
contro la doppia imposizione fiscale, in sé giusti, ma che spesso finiscono per
evitare qualsiasi tassazione, come ci ha documentato uno studio del maggio del
2020 dell’Osservatorio sui conti pubblici italiani dell’Università Cattolica di
Milano, come è noto diretto da Carlo Cottarelli. Rimanendo in Europa, fanno
scuola il caso dell’Irlanda ove in luogo dell’aliquota del 12,5%, si è scesi
persino allo 0,005%, o quello del Lussemburgo dove dal 25% ufficiale si è scesi
anche del 99% raggiungendo un irrisorio 0,3%; oppure quello dell’Olanda che dal
nominale 25% giunge al concreto 2,44%; o il Belgio dove si può arrivare a
scendere dal 29% al 2,9%. I “paesi frugali”, appunto.
Ma tutto ciò deriva da una improvvisa
resipiscenza del capitalismo americano? Non proprio. Biden ha prospettato non
molti giorni fa l’intenzione di portare le imposte sulle società dal 21%, dove
erano precipitate grazie a Trump, al 28%. Un recupero solo parziale rispetto
alla situazione pre-Trump, ma già tale da scatenare le ire e i pianti delle corporations statunitensi, dei
repubblicani e anche di qualche democratico “moderato”. In sostanza Biden,
ripercorrendo le orme di Franklin Delano Roosvelt, intende fare pagare alle
imprese almeno una parte dell’ingente progetto di spesa statale messo in cantiere
per fronteggiare la crisi e rilanciare l’economia statunitense. Nel contempo
però deve evitare che gli utili, a partire da quelli delle grandi corporations se ne vadano all’estero. Deve
perciò se non sconfiggere perlomeno fronteggiare la concorrenza fiscale che
permette ai paesi di cui sopra di attirare le imprese americane e quindi tagliare
le unghie ai paradisi fiscali.
Tutto questo non può riuscire - se verrà effettivamente
tentato - se non uniformando a livello mondiale almeno alcune delle più
importanti regole fiscali, segnatamente per quanto riguarda la tassazione sugli
utili delle imprese. E la riunione del G20 del prossimo luglio diventa un
passaggio strategico lungo questa strada. È evidente che il ruolo della Ue
potrebbe rivelarsi determinante. Dal momento che nell’accordo di luglio 2020, che
ha aperto le porte alla realizzazione, ancora in fieri, del Recovery Fund, si prevede che esso debba
venire finanziato non solo dai trasferimenti degli stati membri nel bilancio
europeo, ma da una capacità di imposizione fiscale a livello sovrannazionale e dalla
emissione di Eurobonds. Mario Draghi, presidente di turno del G20, avrebbe fatto
sapere di essere d’accordo sulla introduzione di una tassa minima sulle
aziende. Vedremo. Intanto dovrebbe realmente preoccuparsi di avviare una seria
riforma fiscale nel nostro paese che rispetti pienamente il principio
costituzionale della progressività, che in questi ultimi decenni è stato eroso
dalle leggi e leggine di argomento fiscale che si sono succedute nel frattempo.
Inoltre, vista la rilevante patrimonializzazione della ricchezza italiana, il
tema di una patrimoniale, connessa con una congrua franchigia che eviti di colpire
i meno abbienti, non può più essere dilazionato e tantomeno evitato. Persino i
milionari si dichiarano, almeno a parole, favorevoli all’introduzione di una
patrimoniale e comunque di una tassazione più equa, quindi progressiva. Tale è
lo scandalo, si potrebbe dire, delle enormi differenze sociali e reddituali che
l’attuale crisi ha incrementato. Non si tratta però di un sussulto etico, ma di
un’analisi della inefficacia dei regali fiscali per ciò che riguarda
l’andamento dell’economia (non certo per le tasche di alcuni fortunati). Una
recente ricerca della London School of
Economics ci dice che negli ultimi 50 anni, in 18 paesi Ocse, i tagli
fiscali effettuati a favore delle situazioni più agiate non hanno portato alcun
aumento della competitività e del Pil, e che quindi, anche da un punto di vista
prettamente capitalistico, si sono rivelati inefficaci quando non dannosi.
Per quanto riguarda il caso
italiano un recente sondaggio ha capovolto la vulgata del terrore per la
introduzione di una tassa patrimoniale. Millionaires
for Humanity (un gruppo di multimilionari provenienti da più parti del
mondo, di cui fa parte Abigal Disney, ereditiera della Walt Disney) insieme a Tax Justice Italia hanno recentemente
commissionato un sondaggio che ha fornito esiti che per alcuni sono risultati
sorprendenti. Il 66% della popolazione italiana, due cittadini su tre,
sarebbero favorevoli alla proposta di un’imposta annuale aggiuntiva dell’1% del
patrimonio totale per chi detiene un patrimonio superiore agli 8 milioni di
euro. Naturalmente passare dai sondaggi alla realizzazione di una legge al
riguardo non è cosa semplice. Ma intanto questa rilevazione statistica ci dice
che l’argomento non è così impopolare come fin qui si è voluto fare credere.
Dipende da come lo si presenta, come lo si finalizza e come lo si fa. Sarebbe utile quindi non considerarlo un tabù ma farne
oggetto di un dibattito aperto. Invece siamo completamente fermi alle
dichiarazioni programmatiche rese al Parlamento da Mario Draghi in occasione
della richiesta di fiducia al suo governo. Come si sa in quella occasione
Draghi non fece altro che infilare nel suo scarno discorso qualche riga
dell’amico di famiglia, poi nominato consigliere a Palazzo Chigi, ovvero Francesco
Giavazzi che faceva riferimento alla necessità di formare una commissione di
esperti che mettesse mano alla riforma fiscale. Non proprio un’ideona, dal
momento che gli esperti non mancano, ma va dato loro un chiaro indirizzo su
cosa lavorare. Da allora non se ne è saputo più niente. Anzi, non sono ignoti
gli scetticismi al riguardo del ministro dell’economia Daniele Franco,
fedelissimo del presidente del Consiglio. Forse si attende che ce lo chieda
l’Europa?