ENRICO NASCIMBENI: “HO SCELTO DI SBAGLIARE” di
Paolo Vincenti
In
memoria di Enrico Nascimbeni (1959-2019) La
foto di copertina è bella e vale almeno quanto il libro. Ritrae l’autore, un
giovane Enrico Nascimbeni, seduto su uno sgabello, che osserva il padre
lavorare con sguardo adorante. E dall’altra parte della scrivania lui, “una
montagna troppo alta da scalare” per dirla con Venditti, Giulio Nascimbeni,
intento a ritoccare la punteggiatura di qualche articolo, folta chioma bianca,
occhiali da vista e bretelle. Colpiscono l’assenza del computer e la biro
convintamente impugnata dal giornalista, il giallo un po’ sbiadito della foto e
l’ambiente domestico, in particolare il pesante tendaggio e il pavimento anni
Settanta. Enrico all’epoca della foto era un promettente cantautore, il padre
invece una firma di punta del Corriere della Sera, nonché fine letterato e biografo
di Eugenio Montale (al quale Enrico Nascimbeni ha dedicato “Eugenio”, uno dei
suoi pezzi più ispirati). Un rapporto di lunga frequentazione legava il Premio
Nobel per la letteratura alla famiglia di Enrico, la cui casa era frequentata
anche da altri calibri del panorama culturale italiano, come Alberto Moravia e
Pier Paolo Pasolini. Il rapporto viscerale con il padre è spesso al centro
della produzione artistica di Nascimbeni, confermato da tante canzoni, fra le
quali “Mio padre adesso è un aquilone”, che sembra sia ispirata dalla poesia di
Luciano Luisi: “Ora sei calmo, finalmente, hai pace./ So che sei morto, non ho
più paura/ che tu debba morire, non ho più / paura del tuo cupo, lungo rantolo
/ che dilatava i muri della stanza, / del tuo respiro che chiedeva aiuto / al
fiato del mio petto / del grido dei tuoi occhi a supplicarmi /”. Il rapporto
con il padre ritorna anche in questo libro che ho fra le mani, sorta di
scombiccherato diario personale, dal titolo coraggioso: Ho scelto di sbagliare (Il Leggio editrice 2017).
E. Nascimbeni
Imprescindibile è
la figura di Giulio Nascimbeni, “padre e profeta” come dice Giusi Verbaro,
figura reale, presenza tangibile nei giorni, ma anche inevitabilmente
idealizzata; e ora che Enrico è diventato suo coetaneo, “ho gli anni di mio
padre, ho le sue mani / quasi: le dita specialmente, le unghie / curve e un po’
spesse”, sembra voler dire, con Raboni.Molti sono i ricordi famigliari che legano l’autore alla sua infanzia,
all’adolescenza trascorsa in un piccolo paese di campagna, ai genitori, ai
nonni, anche alle sue donne. Tutto il libro è colmo di quelle “insepolte
preistorie d’infanzia”, per citare sempre la Verbaro, e “assenze immedicate”
che “tornano al giro frettoloso di brevi adolescenze” e sembra che lo facciano
per “oggettivare il come il quando ed il perché” di una esistenza ripiegata
sulle memorie lariche di un passato che ancora appartiene e pertiene. Il libro
di Nascimbeni trova la sua ragione fondazionale nel memento, libera scelta imposta, direi, con un ossimoro, perché non
c’è scampo per alcuni, quasi condannati al ricordo, ad un eterno
“presentizzare” il passato. Certo, un libro come questo è poco contemporaneo,
addirittura anacronistico, dacché la nostalgia che abita l’universo poetico
dell’autore non è facile caglio per i lettori di oggi. Lui se ne frega, si
vede.La coltiva, quasi fosse train de vie per sfuggire alla noia
dell’oggi, alla banalità dei giorni irregimentati e incolori, alla falsità, al
calcolo dell’interesse. Gli artisti vivono così, a metà strada fra terra e
cielo, come gli uccelli di Aristofane, in una loro eterna Neffalococcugia. Tecnicamente
il libro si definisce un prosimetro, ossia un mix di prose e versi: alle parti
più agevolmente narrative si giustappongono delle parti liriche che, se poesie in
senso stretto non sono, e passi per l’a capo malandrino, si possono definire
prose liriche. Una scrittura frantumata, impressionista sì, evocativa,
nostalgica, che nulla concede all’artificio o alla moda letteraria, e che
definirei naïve, infantile, ingenua. Una scrittura poco sorvegliata: l’autore
affida alla pagina umori saperi sapori pensieri e costernazioni, secondo quella
famosa tecnica dello stream of
consciousness, il flusso di pensieri di joyciana memoria. La narrazione è
spezzata, “svaccandrata”, per usare un termine di Nascimbeni, elisi i nessi
sintattici e a volte anche grammaticali. Inesistente un progetto prestabilito,
nessun preimpostato disegno, nessuna revisione posteriore, salvo quella
strettamente necessaria delle regole editoriali di pubblicazione, nessuna
tenuta d’insieme, ché anzi il libro sembra frutto di assemblaggio di materiali
vari ed eterogeni, una sorta di zibaldone ricomposto. Se c’è un referente
letterario cui posso accostarlo è senz’altro Kerouac, ma anche Burroughs e in
genere tutta la beat generation, per
quel rappresentare la realtà attraverso schizzi, per rapide annotazioni,
seguendo l’onda dei propri disordinati pensieri e con un linguaggio
colloquiale.Infatti il linguaggio è
basso, vicino al parlato, con frequente inserimento di termini gergali.
Centrale, nella narrazione, è un divano verde sul quale scorre tutta la vita
del protagonista. L’autore è diegetico, narra in prima persona, e questo iper-soggettivismo,
l’autobiografismo, che poi rappresenta il grenze
fra il suo personale punto di osservazione e il mondo esterno, sono la cifra
anche della produzione musicale di Nascimbeni. È la spontaneità di cui si
diceva che sottrae la sua pagina a qualsiasi oscenità, ad ogni scabrosità che
potrebbe derivare da un atteggiamento precostituito, dalla posa, da cui invece
l’autore è lontano. L’autoreferenzialità è demistificata, l’intimismo è
assolutorio, la mancanza di un ordine è ordine. Quando il vuoto sembra
deflagrare, l’autore scrive, nel vano tentativo di colmarlo. La sua è una
scrittura delle piccole cose, degli eventi minimi, dell’istinto selvaggio a
fatica imbrigliato, del moto immoto, della visione estatica appena un attimo
prima lasciata.