A voler trovare un aspetto
positivo nella immane tragedia della pandemia che stiamo vivendo, con
riferimento alla scuola, è quello che vede, dal marzo 2020, in deciso calo il
fenomeno del bullismo grazie alla (per altri versi) nefasta Dad, che ha
costretto a casa milioni di studenti italiani. Il fenomeno del bullismo e le
aggressioni dei baby criminali ai docenti nelle scuole italiane, infatti, sono
diventati un’emergenza nazionale. La recrudescenza di questi episodi di
violenza fa discutere, apre dibattiti in tv e sui mezzi di informazione,
convegni, incontri di studio, campagne di sensibilizzazione, ma tutto questo
non porta a risultati concreti. Ad Aci Catena, Catania, nel 2014, Nerino Sciacca,
professore di educazione fisica, riprende una ragazza perché parla
continuamente al telefono durante la lezione, il padre della ragazza interviene
e picchia il docente che è costretto a ricorrere alle cure mediche. Sempre nel
2014, al Liceo Classico “Tenca” di Milano, il professore Mario Caruselli viene
aggredito da uno studente in classe. Questo episodio apre una vera e propria
guerra interna alla scuola fra chi si scaglia contro il professore, anche
sospeso dal Preside, perché avrebbe insultato pesantemente il ragazzo, oltrepassando
quindi i limiti del dovere istituzionale, e chi si pone dalla sua parte e
contro il Preside e i genitori del ragazzo. Ad Avola, Siracusa, in una scuola media, gennaio 2018, un
alunno rimproverato dal professore chiama al telefonino i genitori, i quali
intervengono subito, aspettano che il professore esca dall’aula e lo accolgono
con una gragnuola di calci e pugni, spedendo il docente in ospedale con una
costola rotta. Al Liceo Scientifico “Dante Alighieri” di Matera, febbraio 2018,
il professor Michele Ruscigno viene aggredito dal padre di una sua alunna dopo
che gli aveva comunicato lo scarso rendimento della ragazza: ricoverato in
ospedale, ha avuto trenta giorni di prognosi. A Caserta, Istituto Bachelet,
sempre in febbraio, la professoressa Franca De Blasio riprende uno studente per
i suoi pessimi voti in italiano, invitandolo a studiare di più. La risposta del
diciassettenne è quella di tagliarle la faccia con un coltello a serramanico.
La professoressa, che poi è stata ricevuta addirittura dal Presidente della
Repubblica, ricoverata in ospedale, viene medicata con trenta punti di sutura.
Lo scapestrato studente, raggiunto dalle forze dell’ordine, è stato rinchiuso
nel carcere minorile di Nisida.
La sfida educativa del nuovo millennio è quasi impossibile:
troppo digitale l’epoca, troppo deboli e indifesi genitori e figli di fronte
allo sbandamento generale. Sembra che le parole di giornalisti ed esperti non
arrivino al cuore dei ragazzi e delle loro famiglie. Essi se ne fregano,
semplicemente. Ma la situazione è da fine del mondo, una catastrofe peggiore
del covid. Addirittura un gruppo di docenti scrive al Presidente
della Repubblica per chiedere maggiori tutele per gli insegnanti. È successo
con il portale “Professione insegnante”, su change.org: hanno inviato al Capo
dello Stato una petizione con oltre 52.000 firme per cercare di ottenere delle
norme ad hoc che tutelino e rafforzino la figura dell’insegnante quale pubblico
ufficiale, inaspriscano le pene nei casi di violenza, tutelino la libertà degli
insegnanti e il loro ruolo fondamentale. I sindacati di categoria però
rispondono che i provvedimenti disciplinari ci sono, previsti dalla legge, solo
che non sempre vengono applicati. All’Istituto “Da Vinci”, Alessandria, aprile 2018, una
professoressa con difficoltà motorie, è stata legata alla sedia da un gruppo di
ragazzi e presa a calci e schiaffi, il tutto filmato dallo smartphone e postato
sui social. All’ITC di Velletri, in aprile, ad una professoressa che
lo rimprovera, lo studente risponde minacciandola di farla sciogliere
nell’acido, di mandarla all’ospedale e di bruciarle la macchina, mentre gli
altri compagni ridono e riprendono la scena postandola ovviamente su Facebook.
Eclatante il caso di Lucca e dell’insegnante che rimane inerme di fronte alle
pesantissime intimidazioni dell’alunno indisciplinato. “Non mi faccia
incazzare” grida l’insulso studentastro al prof di italiano e storia, presso un
Istituto tecnico lucchese, e poi ancora “lei non ha capito chi è che comanda”.
Il video ha sgomentato tutta Italia, non solo per la inqualificabile condotta
del bullo ma anche per la resistenza passiva opposta dall’imbelle docente che
al massimo pensa a salvare il tablet dalla furia distruttrice dei baby
criminali. Questo episodio ha fatto discutere e l’indignazione si è riversata
anche sul docente bullizzato, perché il suo comportamento squalifica l’intera
categoria. Qui si pone un altro problema. È evidente che l’episodio filmato
rappresenta l’acme di una situazione che chissà da quanto tempo andava
degenerando. Come ha potuto il prof permettere ciò? Un docente così demotivato,
indolente, codardo, impreparato di fronte alla spavalda arroganza della classe,
può occupare quel posto di lavoro? È un interrogativo di non poco conto. I
docenti sono talmente stressati che molti istituti stanno chiedendo di
regolamentare la figura dello psicologo di sostegno. Già molte scuole si sono
dotate di uno psicologo che ascolta i professori in crisi, vicini a quella che
gli studiosi chiamano “sindrome di Barnout”.
C’è chi si indigna, e chi va
ripetendo che queste cose sono sempre successe.
Certo che sono sempre successe, sarà appena il caso di ricordare la
figura letteraria di Franti che compare nel libro Cuore; ma oggi sono all’attenzione mediatica come non accadeva in
passato. E forse questo è uno dei rari casi in cui la comunicazione aiuta a
diffondere la consapevolezza della deriva cui stiamo andando incontro. E più
dell’informazione, più della riprovazione, più dello sdegno, certo propedeutici
ad un momento di riscatto, occorrerebbe un nuovo Patto di corresponsabilità fra
scuola e famiglia, non solo sulla carta, come quello che il Ministero della
Pubblica Istruzione ha improntato, ma nei fatti; un patto educativo vero, e poi
una selezione più rigida degli insegnanti. Infatti, per non dare una visione
partigiana della situazione, occorre dire che certi insegnanti non
contribuiscono alla causa, non fanno molto per uscire dalla marginalizzazione
cui questa categoria professionale storicamente è condannata in Italia. Anzi,
alcuni prof delle nuove generazioni, magari incazzati no global, no tav, no
tap, soffiano sul fuoco del disagio con il loro modus operandi. Gente con più percing degli studenti, che parla
sfacciatamente al telefonino in classe, mastica la chewing gum ed usa un
linguaggio da trivio per essere alla stregua degli scalmanati alunni, quanti
danni può fare? Insegnanti come Lavinia Cassaro, che al corteo degli
Antagonisti a Torino urla minacce di morte ai poliziotti, non aiuta la causa. E
occorre dirlo. Insegnanti, pur bravi e preparati, ma svogliati, demotivati, o
peggio deboli, che non sanno gestire la classe, vedi il caso di Lucca, quanto
male fanno all’istituzione scolastica, alla sua aura, alla sua sacralità?
L’insegnante dovrebbe essere consapevole dell’alto ruolo che è chiamato a
ricoprire. In una scuola elementare di Santa Maria di Sala, Venezia, una
maestra scrive “squola” e viene licenziata per “incapacità didattica”. Questo è
solo un caso fra i tanti: insegnanti che hanno avuto un percorso di studi
irregolare, con enormi lacune mai colmate, che non si aggiornano, non studiano,
rifiutano a priori ogni occasione di crescita professionale, vedono nero ogni
qualvolta si presenta loro qualche incombenza extra time o extra curriculare,
insegnanti che scrivono “zebbre” con due b, o “xché” al posto di perché, come
si fa negli sms, certo non possono rinsaldare quel patto educativo di cui
sopra. Episodi inquietanti anche a Lecce, maggio 2018, presso
l’Istituto “Fermi”, dove si è registrato un caso grave di bullismo da parte di
un gruppo nei confronti di un povero quindicenne, e presso l’Istituto
“Olivetti”, dove il ragazzo vittima di bullismo è finito addirittura in
ospedale per le gravi percosse subite, e sottoposto ad intervento per
l’asportazione della milza.
Il bullismo è solo la punta dell’iceberg di un diffuso
malessere sociale che coinvolge i giovani. Alla base di questi atti inconsulti,
c’è un profondo fermento nella nostra società, un brulicare nel ventre molle
del Paese di iniziative insane, di vieto ribellismo, nell’assenza di idee, nel
sottovuoto spinto di egolatria e narcisismo che permeano un’intera generazione,
quella dei trentenni-quarantenni, sciagurati genitori di disgraziati figli. Una
certa parte di responsabilità, nell’acuirsi di questo malessere stratificato a
tutti i livelli, è attribuibile alla mordace crisi economica che da almeno un
decennio ha investito il nostro Paese da Nord a Sud, con picchi nel meridione
già cronicamente disagiato. Molto sbagliato è stato sottovalutare gli
epifenomeni in atto, quelle dimostrazioni isolate ma non meno preoccupanti di
fatti di sangue, di tragedie famigliari nella profonda provincia, di disagio e
violenza intra moenia, perché in una
società marcia, corrotta, sbandata, si trova humus per certi episodi come
quelli che accadono regolarmente negli Stati Uniti, dove studenti armati fino
ai denti entrano nelle scuole e compiono stragi. La disperazione del
precariato, della mancanza di lavoro, la povertà dei ceti più disagiati, quelli
delle moderne banlieu, la rabbia
covata dal popolo dei cosiddetti “invisibili”, hanno certamente contribuito ad
alzare il livello della tensione sociale. Ma tutte queste sono concause,
fenomeni collaterali, stante la principale motivazione, che va ricercata nella
discrasia fra volere e potere, nel passaggio generazionale, nello scollamento
fra senso del dovere, disciplina, spirito di sacrificio (se non più praticati,
non più trasmessi) e mancanza di valori, arrivismo, e tutte le oscenità del
fast food sociale, nello showtime di una squadernata Italia. A queste
discrasie, bisognerebbe guardare, per ricominciare, per cercare di ricostruire,
se è ancora possibile.