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sabato 29 maggio 2021

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CONVERSAZIONE CON ALFREDO PANETTA

Alfredo Panetta

In occasione della pubblicazione dell’edizione riveduta e ampliata del suo fortunato libro: Pethri i limiti (Pietre di confine).
 
 
ODISSEA: Pethri i limiti ti ha dato molte soddisfazioni, e questa nuova ristampa lo conferma.
 
PANETTA: Esatto. Mi ha fatto molto piacere la richiesta di ripubblicazione del mio libro d’esordio da parte della casa editrice Lebeg di Roma, che voglio ringraziare per la professionalità e cura del lavoro svolto. Sapere che qualcuno si ricordi della tua prima pubblicazione, risalente a 16 anni addietro, è una gratificazione e uno stimolo. Pethri i limiti mi ha dato la consapevolezza di capire che lo scavo nella mia memoria personale potesse diventare di interesse collettivo, relativamente ai numeri risicati dei lettori di poesia.
 
ODISSEA: Cosa vuol dire essere poeta dialettale in un tempo che sta uniformando tutte le lingue e omologando il sentire di massa?
 
PANETTA: Come tutti ormai possiamo notare si è verificata la profezia di Pasolini secondo la quale il progresso avrebbe omologato tutte le culture, rendendo irrilevanti i patrimoni linguistici e culturali periferici. I glottologi sostengono che al mondo scompare una lingua ogni 15 giorni. E ce ne sono circa 6.500, non di più. Giocoforza i nostri dialetti, che pure hanno una forte radicalizzazione anche grazie alle loro origini illustri, tenderanno ad essere meno parlati in futuro. Ma io non dispero, sono un inguaribile ottimista. Oggi c’è un grande fervore per quanto riguarda la poesia in dialetto, alimentato anche dalla rete, con tutti i limiti che può avere un mezzo a diffusione orizzontale come Internet. Penso quindi che siano aperte altre strade in futuro per i dialetti, per la poesia in dialetto in particolare. Ad esempio non escluderei commistioni con il mondo dell’audio, del video, del teatro o anche contaminazioni linguistiche con nuovi linguaggi giovanili o gergali. Io sto bene come poeta dialettale e sono fiducioso per l’avvenire.

La copertina del libro

ODISSEA: Tu sei il cantore di una parte della Calabria molto precisa; la tua musica è nella lingua in cui ti esprimi, la lingua della Locride.
 
PANETTA: Ti ringrazio per questa domanda, entriamo nel vivo della raccolta. Io mi sento il cantore di un borgo: Farri. È la frazione del mio paese, Grotteria, dove ho vissuto da zero a 19 anni e tre mesi, prima di trasferirmi in Lombardia. Lì ho vissuto un’infanzia e un’adolescenza che augurerei a tutti i bambini e ragazzi del mondo. Un luogo di campagna, con pochissimi confort, in una collina sulle sponde della fiumara Torbido. Ho passato l’infanzia in mezzo alla natura: coi miei amici raccoglievamo i frutti che il bosco ci offriva, facevamo i giochi più disparati (senza giocattoli), armavamo trappole (ahimé!) per gli uccellini, rubavamo frutta e verdure negli orti, uva nelle vigne ecc. ecc. In più amavamo ascoltare gli anziani che raccontavano le loro storie di vita. In particolare io e mio fratello eravamo fortunatissimi perché nostro nonno Vincenzo era il narratore orale più bravo di Farri.

Una veduta di Grotteria

ODISSEA: La lingua dialettale presuppone un lettore paziente e volenteroso. Un lettore che si situa in una posizione ancora più minoritaria rispetto al lettore di poesia, e per questa ragione è ancora più prezioso. È un lettore che entra nel corpo vivo del poeta.
 
PANETTA: Questa domanda mi dispone a una risposta a doppia valenza: una positiva e una negativa. Partiamo dalla negativa. I lettori dei poeti dialettali saranno sempre pochi. Io mi accontenterei di 24 (uno in meno dell’autore dei Promessi Sposi!). Pochi ma buoni, anzi buonissimi. E qui l’aspetto positivo; i pochi lettori sono così intimi che rischiano di diventare amici. Amici di penna. Amici che ti conoscono attraverso le tue parole e con i quali ti puoi confrontare alla pari. Amici competenti che non ti lodano a spada tratta ma sanno consigliarti e indirizzarti se un testo non funziona bene. Io cerco sempre il confronto con loro, il loro parere mi è indispensabile per crescere. Così l’autore e i (pochi) lettori s’incontrano nel corpo vivo delle parole, tra la carne e il fiato.

 

ODISSEA: puoi spiegare ai lettori come avviene la traduzione in lingua italiana per i testi a fronte? La tua non è una semplice traduzione di servizio.
 
PANETTA: La mia non è una semplice traduzione letterale, hai perfettamente ragione. Provo a sintetizzare il mio metodo di lavoro con una formula: traduco mentre compongo. Dal dialetto all’italiano ma anche viceversa. L’ispirazione può essere rappresentata da un singolo verso, da una strofa ma anche da una sola parola. E mentre “ricevo” il dono del primo verso sento l’esigenza di tradurlo in contemporanea per capire come può funzionare nella lingua d’arrivo. Ti faccio un esempio. L’ultimo verso di una delle mie poesie forse più riuscite recita così: (… E nu suric’orbu nghjiuttu. Traduco: … E una talpa intera inghiotto). Come noterai la traduzione in questo caso aderisce più all’aspetto metrico-fonico che al significato.
 


ODISSEA: Sono convinto che il poeta che si esprime nella lingua madre ha molte più frecce nella sua faretra rispetto a quelli di lingua nazionale. Può giovarsi di suoni, colori, visioni, che le lingue “colte” non possiedono. La “scala tonale” è più ricca di note, sei d’accordo?
 
PANETTA: Solo in parte sono d’accordo, mi spiego. Sappiamo bene che la genesi dei dialetti è diversa da quella della splendida lingua nazionale. L’italiano è una lingua colta perché nasce dalla letteratura siciliana e toscana del 200 e del 300. Dante, Petrarca, Boccaccio sono alla base della nostra poesia e della nostra lingua. I dialetti nascono dal “parlato” del popolo. Sono le lingue d’uso dei mercati, delle piazze, dei poderi dei contadini, delle feste paesane ecc. ecc. Ma per il poeta, sia dialettale che in lingua, si pone l’identico quesito: da quale lingua attingo per comporre? Personalmente sono fortunato, a causa del mio vissuto di cui ho detto sopra. Il mio immaginario si è plasmato nei luoghi della mia infanzia e della mia adolescenza, l’aspetto colto è subentrato dopo attraverso la scolarizzazione. Direi quindi che chi si esprime nella lingua madre ha tante frecce nella faretra, diverse da chi scrive in toscano colto. Ma non è detto che chi scrive in italiano non abbia le sue, altrimenti affilate. Le une più concrete, palpabili, espressive; le altre più dotte, più adatte alla meditazione e sintatticamente ricchissime. Molto dipende dalla sensibilità e dallo spessore del singolo autore, quindi. Tutti pronti a cacciare, anzi meglio a “cogliere” ciò che la vita semina e che merita di essere messo nero su bianco in versi.
 
[Intervista a cura di Angelo Gaccione]