Incontri
CONVERSAZIONE CON ALFREDO PANETTA
Alfredo Panetta
In
occasione della pubblicazione dell’edizione riveduta e ampliata del suo
fortunato libro:
Pethri i limiti (Pietre di confine).
ODISSEA: Pethri i limiti ti
ha dato molte soddisfazioni, e questa nuova ristampa lo conferma.
PANETTA: Esatto. Mi ha fatto
molto piacere la richiesta di ripubblicazione del mio libro d’esordio da parte della
casa editrice Lebeg di Roma, che voglio ringraziare per la professionalità e
cura del lavoro svolto. Sapere che qualcuno si ricordi della tua prima
pubblicazione, risalente a 16 anni addietro, è una gratificazione e uno
stimolo. Pethri i limiti mi ha dato la consapevolezza di
capire che lo scavo nella mia memoria personale potesse diventare di interesse
collettivo, relativamente ai numeri risicati dei lettori di poesia.
ODISSEA: Cosa vuol dire essere
poeta dialettale in un tempo che sta uniformando tutte le lingue e omologando
il sentire di massa?
PANETTA: Come tutti ormai
possiamo notare si è verificata la profezia di Pasolini secondo la quale il
progresso avrebbe omologato tutte le culture, rendendo irrilevanti i patrimoni
linguistici e culturali periferici. I glottologi sostengono che al mondo
scompare una lingua ogni 15 giorni. E ce ne sono circa 6.500, non di più.
Giocoforza i nostri dialetti, che pure hanno una forte radicalizzazione anche
grazie alle loro origini illustri, tenderanno ad essere meno parlati in futuro.
Ma io non dispero, sono un inguaribile ottimista. Oggi c’è un grande fervore
per quanto riguarda la poesia in dialetto, alimentato anche dalla rete, con
tutti i limiti che può avere un mezzo a diffusione orizzontale come Internet.
Penso quindi che siano aperte altre strade in futuro per i dialetti, per la
poesia in dialetto in particolare. Ad esempio non escluderei commistioni con il
mondo dell’audio, del video, del teatro o anche contaminazioni linguistiche con
nuovi linguaggi giovanili o gergali. Io sto bene come poeta dialettale e sono
fiducioso per l’avvenire.
Alfredo Panetta |
La copertina del libro
ODISSEA: Tu sei il cantore di una
parte della Calabria molto precisa; la tua musica è nella lingua in cui ti
esprimi, la lingua della Locride.
PANETTA: Ti ringrazio per questa
domanda, entriamo nel vivo della raccolta. Io mi sento il cantore di un borgo:
Farri. È la frazione del mio paese, Grotteria, dove ho vissuto da zero a 19
anni e tre mesi, prima di trasferirmi in Lombardia. Lì ho vissuto un’infanzia e
un’adolescenza che augurerei a tutti i bambini e ragazzi del mondo. Un luogo di
campagna, con pochissimi confort, in una collina sulle sponde della fiumara
Torbido. Ho passato l’infanzia in mezzo alla natura: coi miei amici
raccoglievamo i frutti che il bosco ci offriva, facevamo i giochi più disparati
(senza giocattoli), armavamo trappole (ahimé!) per gli uccellini, rubavamo frutta
e verdure negli orti, uva nelle vigne ecc. ecc. In più amavamo ascoltare gli
anziani che raccontavano le loro storie di vita. In particolare io e mio
fratello eravamo fortunatissimi perché nostro nonno Vincenzo era il narratore
orale più bravo di Farri.
La copertina del libro |
Una veduta di Grotteria
ODISSEA: La lingua dialettale
presuppone un lettore paziente e volenteroso. Un lettore che si situa in una
posizione ancora più minoritaria rispetto al lettore di poesia, e per questa
ragione è ancora più prezioso. È un lettore che entra nel corpo vivo del poeta.
PANETTA: Questa domanda mi
dispone a una risposta a doppia valenza: una positiva e una negativa. Partiamo
dalla negativa. I lettori dei poeti dialettali saranno sempre pochi. Io mi
accontenterei di 24 (uno in meno dell’autore dei Promessi Sposi!). Pochi ma
buoni, anzi buonissimi. E qui l’aspetto positivo; i pochi lettori sono così
intimi che rischiano di diventare amici. Amici di penna. Amici che ti conoscono
attraverso le tue parole e con i quali ti puoi confrontare alla pari. Amici
competenti che non ti lodano a spada tratta ma sanno consigliarti e
indirizzarti se un testo non funziona bene. Io cerco sempre il confronto con
loro, il loro parere mi è indispensabile per crescere. Così l’autore e i
(pochi) lettori s’incontrano nel corpo vivo delle parole, tra la carne e il
fiato.
Una veduta di Grotteria |
ODISSEA: puoi spiegare ai lettori
come avviene la traduzione in lingua italiana per i testi a fronte? La tua non
è una semplice traduzione di servizio.
PANETTA: La mia non è una
semplice traduzione letterale, hai perfettamente ragione. Provo a sintetizzare
il mio metodo di lavoro con una formula: traduco mentre compongo. Dal dialetto
all’italiano ma anche viceversa. L’ispirazione può essere rappresentata da un
singolo verso, da una strofa ma anche da una sola parola. E mentre “ricevo” il dono
del primo verso sento l’esigenza di tradurlo in contemporanea per capire come
può funzionare nella lingua d’arrivo. Ti faccio un esempio. L’ultimo verso di
una delle mie poesie forse più riuscite recita così: (… E nu suric’orbu nghjiuttu. Traduco: … E una talpa intera
inghiotto). Come noterai la traduzione in questo caso aderisce più all’aspetto
metrico-fonico che al significato.
ODISSEA: Sono convinto che il
poeta che si esprime nella lingua madre ha molte più frecce nella sua faretra
rispetto a quelli di lingua nazionale. Può giovarsi di suoni, colori, visioni,
che le lingue “colte” non possiedono. La “scala tonale” è più ricca di note, sei
d’accordo?
PANETTA: Solo in parte sono
d’accordo, mi spiego. Sappiamo bene che la genesi dei dialetti è diversa da
quella della splendida lingua nazionale. L’italiano è una lingua colta perché
nasce dalla letteratura siciliana e toscana del 200 e del 300. Dante, Petrarca,
Boccaccio sono alla base della nostra poesia e della nostra lingua. I dialetti
nascono dal “parlato” del popolo. Sono le lingue d’uso dei mercati, delle
piazze, dei poderi dei contadini, delle feste paesane ecc. ecc. Ma per il
poeta, sia dialettale che in lingua, si pone l’identico quesito: da quale
lingua attingo per comporre? Personalmente sono fortunato, a causa del mio
vissuto di cui ho detto sopra. Il mio immaginario si è plasmato nei luoghi
della mia infanzia e della mia adolescenza, l’aspetto colto è subentrato dopo
attraverso la scolarizzazione. Direi quindi che chi si esprime nella lingua
madre ha tante frecce nella faretra, diverse da chi scrive in toscano colto. Ma
non è detto che chi scrive in italiano non abbia le sue, altrimenti affilate.
Le une più concrete, palpabili, espressive; le altre più dotte, più adatte alla
meditazione e sintatticamente ricchissime. Molto dipende dalla sensibilità e
dallo spessore del singolo autore, quindi. Tutti pronti a cacciare, anzi meglio
a “cogliere” ciò che la vita semina e che merita di essere messo nero su bianco
in versi.
[Intervista
a cura di Angelo Gaccione]