LA QUESTIONE FISCALE DIVENTA GLOBALE di Alfonso
Gianni
Luglio non è lontano e
potrebbe essere un mese importante non solo per l’Europa, ma per il mondo
intero. Infatti nella prima decade di quel mese si terrà a Venezia
un’importante riunione del G20 sotto la presidenza italiana, dove dovrebbero
approdare le riforme fiscali di cui si sta parlando con insistenza in questi
giorni. Il quadro internazionale è stato smosso dai propositi della nuova
amministrazione americana di proporre una minimum
tax globale sulle multinazionali del 21%, con l’esplicito obiettivo di
sottrarre alle grandi corporations la
carta dei paradisi fiscali. È di questi giorni però la notizia che la proposta
subirà probabilmente un sensibile ridimensionamento: dal 21% la tassazione
dovrebbe scendere al 15%. Una riduzione certamente di non poco conto, che viene
incontro al coro di proteste subito sollevato da parte delle multinazionali e
dei vari paesi, fra cui diversi europei, che praticano paradisiaci dumping fiscali. Tuttavia, anche in questa dimensione ridotta, l’innovazione non
sarebbe da poco. Attualmente sono almeno 35 i paesi che applicano aliquote
fiscali tra lo zero assoluto e il 12,5%. Il rapporto dello scorso dicembre
della Tax Foundation, un think tank fondato a Washington nel
1937 da influenti manager americani, ci racconta che sono ben 15 i paesi che
non prevedono imposte sugli utili societari (tra cui le Bahamas, il Bahrain, le
Bermuda, gli Emirati arabi uniti). Mentre altri Stati applicano un’aliquota inferiore
al 12,5%, fra cui l’Irlanda e l’Ungheria che l’ha recentemente ridotta dal 10%
al 9%. Ma a questo dato dobbiamo aggiungere che vi è notevole differenza tra
l’aliquota ufficiale e quella realmente praticata, a causa di deduzioni,
detrazioni e gli accordi contro la doppia imposizione fiscale, in sé giusti, ma
che spesso finiscono per evitare qualsiasi tassazione, come ci ha documentato
uno studio del maggio del 2020 dell’Osservatorio sui conti pubblici italiani
dell’Università Cattolica di Milano, come è noto diretto da Carlo Cottarelli.
Rimanendo in Europa, fanno scuola il caso dell’Irlanda ove in luogo
dell’aliquota del 12,5%, si è scesi persino allo 0,005%, o quello del
Lussemburgo dove dal 25% ufficiale si è scesi anche del 99% raggiungendo un irrisorio
0,3%; oppure quello dell’Olanda che dal nominale 25% giunge al concreto 2,44%;
o il Belgio dove si può arrivare a scendere dal 29% al 2,9%. I “paesi frugali”,
appunto. Per riferirci ai dati più recenti forniti da Tax Justice Network, una organizzazione
nata per promuovere una tassazione equa, nel 2020 le multinazionali hanno fatto
convergere circa 1.380 miliardi di dollari nei paradisi fiscali causando in
questo modo una perdita di gettito fiscale di 245 miliardi ai paesi di origine,
come ci ricorda Roberto Petrini su la
Repubblica. Mentre Marcello Minenna sul Sole
24 Ore stima che il 32% di questa perdita si è concentrata sui governi
europei, per un valore di 80 miliardi di dollari, superando quella degli Stati
uniti che ci hanno rimesso 53 miliardi di dollari, pari al 21% del totale. Il carattere innovativo della proposta sarebbe
ulteriormente incrementato – ma il condizionale in questa materia è quanto mai
d’obbligo – dalla istituzione di una tassazione mirata sulle prime 100
multinazionali del pianeta per fatturato e utili, tra le quali ovviamente
rientrano Google, Amazon, Facebook e Microsoft, i cui profitti si sono
enormemente ingigantiti proprio in conseguenza della crisi pandemica.Affidandosi alla stampa specializzata si
deduce che il sistema costruito sull’aliquota unica globale prevede che il
prelievo fiscale si diviso in due. Ovvero la multinazionale pagherà l’aliquota
prevista nel paese ove sono localizzate le sue imprese controllate, mentre la
differenza verrà pagata nel paese dove ha la sede principale. In questo modo
dovrebbe venire meno la convenienza a rincorrere il paese che offre il maggiore
vantaggio fiscale, perché alla fine quanto la multinazionale ha da pagare
rimarrebbe sempre lo stesso. Va da sé che Biden non è stato convertito sulla strada di
Damasco alla giustizia fiscale. Vi è uno specifico interesse degli Usa a
ridisegnare un quadro di questo genere che ha fatto parlare i commissari
europei, come Gentiloni, di una “riforma fiscale globale”. Questo deriva dalla
intenzione dell’Amministrazione statunitense di elevare la tassazione interna
dal 21% al 28%. Siamo ancora lontani da quel 35% del periodo pre Trump, ma la
scossa non sarebbe da poco. Da qui l’esigenza di evitare la fuga di capitali e
quindi di tagliare le unghie ai paradisi fiscali. In sostanza Biden,
ripercorrendo le orme di Franklin Delano Roosevelt, intende fare pagare alle
imprese almeno una parte dell’ingente progetto di spesa statale messo in
cantiere per fronteggiare la crisi e rilanciare l’economia statunitense. Sull’entità
dell’intervento e del sostegno pubblici, francamente tornano strane alcune
critiche che si stanno sollevando anche da parte di economisti liberal di rilievo, tra questi Larry
Summers, sul pericolo di inflazione e di innalzamento dei tassi di interesse
che sarebbe provocato su scala globale dalla manovra marcatamente espansionista
di Biden e della segretaria del Tesoro Janet Yellen. Farsi schiacciare dal
pericolo della ripresa dell’inflazione, che per ora si mantiene su livelli
assai bassi, mi pare un grave errore, come si sarebbe dovuto imparare già dalle
vicende della crisi finanziaria cominciata nel 2007. Nel frattempo il governo italiano si appresta a
confezionare una revisione del nostro sistema tributario che non promette nulla
di buono. Oltre al fatto di tentare una mediazione tra la flat tax richiesta
dalla destra e la riduzione delle aliquote voluta dal Pd, proprio il presidente
del consiglio si è distinto in una pessima replica alla timida proposta
avanzata da Enrico Letta di introdurre una più seria tassa sulla successione,
come del resto vi è negli altri paesi della Ue. Contro questa si sono abbattuti
gli strali delle destre e anche della destra interna al Pd con le solite argomentazioni
che in ultima analisi si riducono al famigerato “non bisogna mettere le mani
nelle tasche degli italiani”. Quelli ricchi naturalmente. Allo stesso tempo il
ministro dell’economia Daniele Franco si dichiara favorevole alla proposta, in
versione ridimensionata, della global
minimum tax avanzata da Biden. Schizofrenia? No, piuttosto un simile
comportamento risponde alla esigenza di non perdere il consenso dei famosi ceti
medi, cui tutti mirano, senza forse essersi nemmeno accorti che il susseguirsi
delle crisi ha polarizzato lo schieramento sociale, elevando verso cime
impensabili una manciata di persone e sprofondandone verso il basso moltissime
di più. E da lassù non “sgocciola” proprio nulla.