Un luogo non è mai scevro dal
nostro sentimento, dal nostro umore, dal nostro stato d’animo, su questo posso
convenire. Ma che Woody Allen abbia potuto esprimere un giudizio ferocemente
negativo verso una città splendida come Lucca, resta per me incomprensibile. Il
mio spassionato amore mi ci ha condotto per ben tre volte, e dunque non ho
alcuna remora ad affermare perentoriamente che per me Lucca resta una delle più
belle città italiane. Dovrò tuttavia ritornarci, perché ho con lei un conto in
sospeso: ho girato in lungo e in largo nel perimetro delle sue porte medievali,
ma non ho completato l’intera passeggiata delle sue mura. Voglio dedicare ai quattro
chilometri, o poco più, del loro percorso, ai dodici baluardi che paiono tanti
comodi balconcini per affacciarsi sui tetti, tutto il tempo necessario e
godermi l’arborato cerchio. L’orizzonte e i suoi profili li avevo goduti
dall’alto della Torre dei Guinigi dove sono stato anche fotografato; come lo
sono stato anche in via Degli Angeli, se è per questo, assieme ad una amica che
si chiama Angela, e non potevamo non immortalare due Angeli sotto quella via
che ci riguardava. Mi domando se a Woody Allen era capitato di sedersi in
piazza dell’Anfiteatro, in quell’ovale meraviglioso che sembra abbracciarti da
ogni lato. O se da una delle torri aveva potuto seguire la traiettoria di quel
singolare budello che è il Fillungo, una vera Spaccanapoli in terra di Toscana.
Il Fillungo
In uno di quei soggiorni avevamo commesso anche una innocente irriverenza ai
danni di Puccini. Convincemmo dei ragazzini a montare sul monumento del maestro
in piazza Cittadella, e ad esporre la testata del giornale “Odissea”. Una copia
gliela posammo anche sul grembo mentre lui se ne sta con le gambe comodamente
accavallate. Lucca ha fatto da “contenitore” anche per un singolare abbozzo di
racconto che non ho mai finito di scrivere e che il tempo ha fatto svaporare.
Ricordo che era una sera molto tardi e faceva piuttosto freddo. La città era
alquanto deserta, non incontrai che alcune coppie di stranieri e un signore del
posto che svolgeva un servizio, se non ricordo male di sicurezza. Mi pare fosse
un volontario per la città sicura. Scambiai con lui qualche parola e poi mi
diressi all’appuntamento. Era in piazza del Suffragio, ai piedi del monumento
di Boccherini, l’appuntamento. Nella piazza dove c’è la chiesa e dove c’è l’Istituto
musicale dedicato al musicista che se ne sta lì con il suo archetto posato
sulle quattro corde del violoncello. Non ero io ad avere un appuntamento
accanto al monumento di Boccherini: in verità erano le creature del mio
racconto, che provenienti da due città diverse e lontane, si sarebbero
incontrate a Lucca, in quella piazza e in quella sera molto tardi. Io mi ci ero
incamminato per sorprenderli questi personaggi, per vedere com’erano fatti, per carpire cosa si
sarebbero detti, come si sarebbero comportati. Per spiarli, insomma, come fanno
con le vite degli altri gli scrittori, e vedere cosa sarebbe saltato fuori quando
mi sarei accinto a scriverne.
Boccherini
Era composto tutto mentalmente quel racconto
notturno, ed è probabile che non abbia resistito, come il più labile dei sogni,
al rinascere della luce. Ma qualche volta vi ho ripensato, e ripensando a quei
brandelli di racconto non potevo non ricordare la città medievale e fascinosa
che li aveva generati.
Puccini con Odissea
Ma basta, è tempo di porre fine a questa lunga
digressione perché devo occuparmi di un libro vero su Lucca, questo sì
concreto, messo su carta da una lucchese verace come Sara Franceschi, edito
dalla Casa Editrice anch’essa lucchese - Tralerighe Libri - di Andrea Giannasi,
a cui la città di Lucca deve molto per quanto fa in termini di buona cultura
editoriale, di ricerca storica, di impegno intellettuale. Il libro in questione
si intitola Il Grand Tour dell’arborato cerchio. Sottotitolo: Lucca,
una tappa elitaria del viaggio di formazione settecentesco. Elitaria anche
la componente dei viaggiatori. E del resto chi se non i rampolli
dell’aristocrazia avrebbero potuto intraprendere viaggi così avventurosi, per
molti aspetti complessi e soprattutto costosi, nel Settecento? Sapevamo che
erano stati loro, gli inglesi, ad aprire la strada del Grand Tour; a farlo
diventare una moda – poi più di una moda – legato com’era ad una forte esigenza
di conoscenza, di studio, di attrazione per l’antico ed il meraviglioso; ad una
sfida con sé stessi, ad una vera e propria pratica di iniziazione, e perché no?
ad una gara di esibizione del proprio potere economico e del proprio lusso. Il
ritorno in patria avrebbe conferito a questi intrepidi viaggiatori un’aura di
superiorità, ed avrebbero potuto esibire il “bottino”. Si può pensarla come si
vuole, ma il viaggio del Settecento era un vero viaggio, oggi non più
replicabile se non volendone fare una caricatura. Quello di oggi non è un
viaggio, è un semplice spostamento. Ma ancora più spettacolare doveva essere
quello dei pellegrini, tutto rigorosamente a piedi e per percorsi ancora più
impervi e accidentati. Le finalità erano diverse, ovviamente, ma giungere a
Roma a piedi nel Medioevo era cosa ben diversa che giungervi in carrozza nel
Settecento. Sapevamo che la meta del Grand Tour era fondamentalmente l’Italia
con le sue magnifiche città d’arte: Roma, Firenze, Napoli, Venezia, buona parte
della Sicilia…
C. Montesquieu
L’Italia con i suoi miti e le sue rovine, con il suo clima e il
suo paesaggio. Ma apprendere che una componente, seppur minoritaria, di
protagonisti del Gran Tour si spingesse fino alla bella Lucca, è un doveroso
riconoscimento. È vero che la gran parte di loro era attratta più dal mito che
si era solidificato nella sua storia che dalle bellezze artistiche. Lucca era
ai loro occhi la libera Repubblica che aveva resistito per centinaia di anni e
che gelosa della sua indipendenza faceva ruotare cariche ed incarichi in un
tempo molto contratto, per impedire qualsiasi concentrazione di potere.
Montesquieu ne loda il buon governo e l’assenza di ogni forma di inquisizione.
Ma quasi tutti i viaggiatori di epoca illuminista ammirano il grande
attaccamento alla libertà di questo minuscolo Stato, si tratti di Charles De
Brosses, di Edward Gibbon, di Johann Caspar Goethe, di Addison, Lalande, Martini
o Hester Lynch.
H. Heine in un ritratto
Il poeta tedesco Heinrich Heine vi giungerà invece più che
trentenne nel 1828, portandosi appresso la sua anima romantica eccitata. E ce
ne lascerà un ritratto a forte tinte dal sapore quasi neogotico: “La città
era silenziosa come una tomba, tutto era scolorito e morto, la luce del sole
giocava sui tetti con lo stesso scintillio delle foglie d’oro delle corone
messe in testa ai morti. Qua e là, dalle finestre di qualche vecchia casa in
rovina, pendevano tralci d’edera come lacrime verdi inaridite; dappertutto
muffa luminescente e morte paurosamente in agguato; la città sembrava il
fantasma di una città, spettro di pietra apparso in pieno giorno”. Questa
visione così densamente poetica mi pare fortemente aderente alla dialettica di
quel binomio su cui il poeta si era interrogato. Se la natura agisce sul nostro
stato d’animo, non è altrettanto possibile che la nostra anima agisca su di
essa? Realtà oggettiva e realtà soggettiva divengono inscindibili per l’artista,
l’una condiziona l’altra e viceversa. Per la mia soggettività Lucca resta una
città bellissima. Ad ogni modo se anche voi deciderete di andare a verificare
sul posto e con il vostro soggettivo stato d’animo, il libro di Sara Franceschi
potrà tornarvi molto utile.
La copertina del libro
Sara
Franceschi Il
Grand Tour dell’arborato cerchio. Lucca,
una tappa elitaria del viaggio Di
formazione settecentesco Tralerighe
Libri Ed. 2021 Pagg.
156 € 15,00