Pagine

domenica 9 maggio 2021

LUCCA E IL GRAND TOUR
di Angelo Gaccione

Piazza dell'Anfiteatro
 
Un luogo non è mai scevro dal nostro sentimento, dal nostro umore, dal nostro stato d’animo, su questo posso convenire. Ma che Woody Allen abbia potuto esprimere un giudizio ferocemente negativo verso una città splendida come Lucca, resta per me incomprensibile. Il mio spassionato amore mi ci ha condotto per ben tre volte, e dunque non ho alcuna remora ad affermare perentoriamente che per me Lucca resta una delle più belle città italiane. Dovrò tuttavia ritornarci, perché ho con lei un conto in sospeso: ho girato in lungo e in largo nel perimetro delle sue porte medievali, ma non ho completato l’intera passeggiata delle sue mura. Voglio dedicare ai quattro chilometri, o poco più, del loro percorso, ai dodici baluardi che paiono tanti comodi balconcini per affacciarsi sui tetti, tutto il tempo necessario e godermi l’arborato cerchio. L’orizzonte e i suoi profili li avevo goduti dall’alto della Torre dei Guinigi dove sono stato anche fotografato; come lo sono stato anche in via Degli Angeli, se è per questo, assieme ad una amica che si chiama Angela, e non potevamo non immortalare due Angeli sotto quella via che ci riguardava. Mi domando se a Woody Allen era capitato di sedersi in piazza dell’Anfiteatro, in quell’ovale meraviglioso che sembra abbracciarti da ogni lato. O se da una delle torri aveva potuto seguire la traiettoria di quel singolare budello che è il Fillungo, una vera Spaccanapoli in terra di Toscana. 


Il Fillungo

In uno di quei soggiorni avevamo commesso anche una innocente irriverenza ai danni di Puccini. Convincemmo dei ragazzini a montare sul monumento del maestro in piazza Cittadella, e ad esporre la testata del giornale “Odissea”. Una copia gliela posammo anche sul grembo mentre lui se ne sta con le gambe comodamente accavallate. Lucca ha fatto da “contenitore” anche per un singolare abbozzo di racconto che non ho mai finito di scrivere e che il tempo ha fatto svaporare. Ricordo che era una sera molto tardi e faceva piuttosto freddo. La città era alquanto deserta, non incontrai che alcune coppie di stranieri e un signore del posto che svolgeva un servizio, se non ricordo male di sicurezza. Mi pare fosse un volontario per la città sicura. Scambiai con lui qualche parola e poi mi diressi all’appuntamento. Era in piazza del Suffragio, ai piedi del monumento di Boccherini, l’appuntamento. Nella piazza dove c’è la chiesa e dove c’è l’Istituto musicale dedicato al musicista che se ne sta lì con il suo archetto posato sulle quattro corde del violoncello. Non ero io ad avere un appuntamento accanto al monumento di Boccherini: in verità erano le creature del mio racconto, che provenienti da due città diverse e lontane, si sarebbero incontrate a Lucca, in quella piazza e in quella sera molto tardi. Io mi ci ero incamminato per sorprenderli questi personaggi, per vedere com’erano fatti, per carpire cosa si sarebbero detti, come si sarebbero comportati. Per spiarli, insomma, come fanno con le vite degli altri gli scrittori, e vedere cosa sarebbe saltato fuori quando mi sarei accinto a scriverne. 


Boccherini

Era composto tutto mentalmente quel racconto notturno, ed è probabile che non abbia resistito, come il più labile dei sogni, al rinascere della luce. Ma qualche volta vi ho ripensato, e ripensando a quei brandelli di racconto non potevo non ricordare la città medievale e fascinosa che li aveva generati. 


Puccini con Odissea

Ma basta, è tempo di porre fine a questa lunga digressione perché devo occuparmi di un libro vero su Lucca, questo sì concreto, messo su carta da una lucchese verace come Sara Franceschi, edito dalla Casa Editrice anch’essa lucchese - Tralerighe Libri - di Andrea Giannasi, a cui la città di Lucca deve molto per quanto fa in termini di buona cultura editoriale, di ricerca storica, di impegno intellettuale. Il libro in questione si intitola Il Grand Tour dell’arborato cerchio. Sottotitolo: Lucca, una tappa elitaria del viaggio di formazione settecentesco. Elitaria anche la componente dei viaggiatori. E del resto chi se non i rampolli dell’aristocrazia avrebbero potuto intraprendere viaggi così avventurosi, per molti aspetti complessi e soprattutto costosi, nel Settecento? Sapevamo che erano stati loro, gli inglesi, ad aprire la strada del Grand Tour; a farlo diventare una moda – poi più di una moda – legato com’era ad una forte esigenza di conoscenza, di studio, di attrazione per l’antico ed il meraviglioso; ad una sfida con sé stessi, ad una vera e propria pratica di iniziazione, e perché no? ad una gara di esibizione del proprio potere economico e del proprio lusso. Il ritorno in patria avrebbe conferito a questi intrepidi viaggiatori un’aura di superiorità, ed avrebbero potuto esibire il “bottino”. Si può pensarla come si vuole, ma il viaggio del Settecento era un vero viaggio, oggi non più replicabile se non volendone fare una caricatura. Quello di oggi non è un viaggio, è un semplice spostamento. Ma ancora più spettacolare doveva essere quello dei pellegrini, tutto rigorosamente a piedi e per percorsi ancora più impervi e accidentati. Le finalità erano diverse, ovviamente, ma giungere a Roma a piedi nel Medioevo era cosa ben diversa che giungervi in carrozza nel Settecento. Sapevamo che la meta del Grand Tour era fondamentalmente l’Italia con le sue magnifiche città d’arte: Roma, Firenze, Napoli, Venezia, buona parte della Sicilia… 


C. Montesquieu


L’Italia con i suoi miti e le sue rovine, con il suo clima e il suo paesaggio. Ma apprendere che una componente, seppur minoritaria, di protagonisti del Gran Tour si spingesse fino alla bella Lucca, è un doveroso riconoscimento. È vero che la gran parte di loro era attratta più dal mito che si era solidificato nella sua storia che dalle bellezze artistiche. Lucca era ai loro occhi la libera Repubblica che aveva resistito per centinaia di anni e che gelosa della sua indipendenza faceva ruotare cariche ed incarichi in un tempo molto contratto, per impedire qualsiasi concentrazione di potere. Montesquieu ne loda il buon governo e l’assenza di ogni forma di inquisizione. Ma quasi tutti i viaggiatori di epoca illuminista ammirano il grande attaccamento alla libertà di questo minuscolo Stato, si tratti di Charles De Brosses, di Edward Gibbon, di Johann Caspar Goethe, di Addison, Lalande, Martini o Hester Lynch.


H. Heine in un ritratto

Il poeta tedesco Heinrich Heine vi giungerà invece più che trentenne nel 1828, portandosi appresso la sua anima romantica eccitata. E ce ne lascerà un ritratto a forte tinte dal sapore quasi neogotico: “La città era silenziosa come una tomba, tutto era scolorito e morto, la luce del sole giocava sui tetti con lo stesso scintillio delle foglie d’oro delle corone messe in testa ai morti. Qua e là, dalle finestre di qualche vecchia casa in rovina, pendevano tralci d’edera come lacrime verdi inaridite; dappertutto muffa luminescente e morte paurosamente in agguato; la città sembrava il fantasma di una città, spettro di pietra apparso in pieno giorno”. Questa visione così densamente poetica mi pare fortemente aderente alla dialettica di quel binomio su cui il poeta si era interrogato. Se la natura agisce sul nostro stato d’animo, non è altrettanto possibile che la nostra anima agisca su di essa? Realtà oggettiva e realtà soggettiva divengono inscindibili per l’artista, l’una condiziona l’altra e viceversa. Per la mia soggettività Lucca resta una città bellissima. Ad ogni modo se anche voi deciderete di andare a verificare sul posto e con il vostro soggettivo stato d’animo, il libro di Sara Franceschi potrà tornarvi molto utile.



La copertina del libro

Sara Franceschi
Il Grand Tour dell’arborato cerchio.
Lucca, una tappa elitaria del viaggio
Di formazione settecentesco
Tralerighe Libri Ed. 2021
Pagg. 156 € 15,00