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martedì 29 giugno 2021

PAESAGGI SOLO DA GUARDARE?
di Giancarlo Consonni

 
 
A ben vedere, anche le rappresentazioni dei corpi umani contengono implicitamente un’immagine del mondo. I corpi nudi scolpiti da Policleto sono lo specchio del cosmo, con il quale sono in piena, riposata sintonia.
Le figure della statuaria romana restituiscono individui ben ancorati nella vita quotidiana, caratteri resi saldi da un senso del diritto ma anche attraversati da una tensione civile che non si sottrae ai conflitti. Ancorché isolate, queste figure presuppongono e rendono palpabile un contesto: la civitas.
Nelle statue dei mesi di Benedetto Antelami nel Battistero di Parma (fine XII - inizio XIII sec.) i corpi sono tutt’uno con la messa in scena di un fare ispirato alla cura. In queste sintesi a elevato peso specifico fa il suo ingresso nel mondo dell’arte il paesaggio. Seppure appena accennato, il paesaggio agrario è restituito nella sua essenza: come «un fare, un farsi di quelle genti vive» (1). Certo, non siamo alla narrazione distesa de Les grandes heures du Duc de Berry (1384-1409): se Antelami è la poesia, i Fratelli Limbourg sono la prosa; ma il contenuto della rappresentazione non diverge di molto: a essere celebrato è il legame tra gli artefici e il paesaggio. Proprio quel legame che, trascurato, rende debole quanto stabilito dall’articolo 9 della Costituzione Italiana: se non si offre un calibrato sostegno a una agri coltura degna di questo nome, la “tutela del paesaggio” è destinata a restare lettera morta.


B. Antelami. Duomo di Parma
Partic. del Battistero

I paesaggi sono sempre esistiti. Naturali dapprima e via via sempre più umanizzati. La “nascita del paesaggio” viene comunemente riferita a un aspetto soggettivo: a un modo, più o meno condiviso, di percepire i contesti fisici in cui è attiva una valutazione estetica (che può spingersi fino al piacere o al dolore). Ma, nonostante la vasta letteratura, la “nascita” resta avvolta nella nebbia (non meno del concetto stesso di paesaggio). Ogni studioso del paesaggio ha indicato una figura aurorale, con il risultato che gli inizi risultano essere molti e per la gran parte tutti degni di attenzione.
Alla ricchissima produzione sul tema si aggiunge ora Clivo (2), l’aureo librino in cui Giulio Gino Rizzo compie un attraversamento della storia del paesaggio italiano avendo come bussola la parola clivo. Abbiamo così la possibilità di intraprendere un percorso fascinoso avendo per guida uno studioso che ha alle spalle studi notevoli sui paesaggi italiani e della Tuscia romana in particolare (oltre a una straordinaria esplorazione dell’opera di Roberto Burle Marx). Dopo diverse ‘illuminazioni’, Rizzo ci conduce di fronte alla rappresentazione dei paesaggi terrazzati delle Cinque Terre operata da Eugenio Montale. E a condividere la sofferenza e la denuncia del poeta per lo stato di abbandono di quelle che i liguri chiamano «fasce» (3).
L’Università di Padova, con il progetto Mapter guidato dal geografo Mauro Varotto, ha rilevato che in Italia i terrazzi sorretti da muri a secco raggiungono l’estensione lineare di «170mila chilometri» (4) (più di quattro volte la circonferenza del globo). Una realtà che meriterebbe un riconoscimento Unesco (ben oltre le colline del Prosecco) e soprattutto un piano nazionale di manutenzione volto a sostenere e incrementare le molte iniziative di riqualificazione dell’agricoltura collinare sorte dal basso (5).  

 
Per tornare alla questione della “nascita del paesaggio”, forse per togliersi d’imbarazzo nella selva delle interpretazioni, Eugenio Turri nel 1974 offriva una chiave per ritrovare una concordia discors: «L’acquisizione culturale del paesaggio nasce lentamente e faticosamente dalla realtà naturale e geografica» (6).     
In questa scia, Maurizio Vitta (7) ha tentato di tracciare una mappa dei mille rivoli di cui si alimenta la nascita del paesaggio in Occidente. Ma la selva delle rappresentazioni resta e non è facile orientarsi; tanto più se ci si fissa sul problema dell’inizio. La soluzione? Guardare al problema della nascita con ironico distacco evitando la riductio ad unum; avendo cura, semmai, di mettere a frutto ogni spunto fecondo offerto da filoni non omologabili.
Resta il fatto che ambiente, territorio e paesaggio non sono che modi convenzionali - non sempre chiarissimi sul piano concettuale - di nominare una realtà che resta indivisibile.
Come se ne esce? Non perdendo mai di vista che il paesaggio è a conti fatti una rappresentazione parziale della realtà fisica, oltretutto mutevole nel tempo, e che, per usare il titolo di una bella mostra milanese del 1984, si tratta pur sempre di una immagine interessata (8). Quando Lionello Puppi sostiene che, a partire dal Quattrocento, chi contempla il paesaggio è un cittadino (9), dice una verità storica. L’idea di paesaggio in Italia si consolida dopo che si è pienamente dispiegata l’«intima unione [della città] col suo territorio»(10). Una realtà di cui L’Allegoria degli Effetti del Buon Governo in città e in campagna (1338-39) di Ambrogio Lorenzetti è in qualche modo il manifesto (e anche, come non sfugge a Giulio Rizzo, un’eccezione per l’elevato contenuto storico-documentale che contiene). Nel consolidarsi del “paesaggio” in pittura gioca un ruolo anche l’emergere di un ceto borghese che sa apprezzare la portata di quell’«immenso deposito di fatiche» (11) che sono i paesaggi agrari.
Fatiche degli altri, ovviamente. Quello su cui si sa assai poco è quale idea di paesaggio avessero coloro che il paesaggio agrario lo ‘producevano’. Tutto questo per dire che occuparsi di paesaggi comporta che si studino assieme oggetto e soggetto (cosa di cui Rizzo non si dimentica certo).



Oltretutto siamo in presenza di diverse soggettività:
- quella di coloro che i paesaggi li hanno vissuti ‘in diretta’;
- quella degli artisti e dei letterati che se ne sono fatti interpreti;
- quella degli studiosi (e dei loro lettori).
Praticare in lungo e in largo questi livelli e le loro interazioni è indispensabile per venire a capo dei caratteri dei paesaggi. Ma non meno importante è saper accogliere i colpi d’ala degli artisti e dei letterati - penso a Del paesaggio (Von der Landschaft, 1902) di Rilke (12) -, rimescolando, quando occorre, ciò che una rigida (e sterile) definizione di paesaggio tende a tenere distinto.
Mi spiego meglio. Il paesaggio, afferma Turri, è «la manifestazione sensibile dell’ambiente, la realtà spaziale vista e sentita […] organismo vivo intessuto di relazioni interdipendenti tra le forme che lo compongono», mentre «l’ambiente sottintende l’esserci, il viverci» (13).    


La valutazione estetica che sembra affiorare nella pittura occidentale a partire soprattutto dal Quattrocento fa emergere un punto di vista contemplativo della bellezza che, quantunque prevalente, convive spesso, nutrendosene, con una conoscenza ‘anatomica’ del paesaggio che attinge a una osservazione attenta tanto degli elementi naturali (geologia, botanica ecc.) quanto degli esiti trasformativi dell’attività umana (agricoltura, insediamenti ecc.).
Con un risultato: che la bellezza è inscindibile da una percezione/valutazione, sia pure implicita, dell’ospitalità e dell’abitabilità dei luoghi. In altri termini il giudizio estetico è parte integrante del sentirsi o meno accolti e a proprio agio nei contesti rappresentati. Il paesaggio e l’ambiente che si vorrebbero tenere distinti tornano a interagire e a produrre significati e senso.
E questo vale anche per l’arte di rappresentare i paesaggi, almeno fino agli impressionisti.

 
La copertina del volume
 
Note
(1). Emilio Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza, Bari 1972 (1961), p. 19.
(2). Giulio G. Rizzo. Clivo. Lettura morfologica del paesaggio della Divina Commedia con le cantiche figurate da Giulio Repulino. Scritti di Alice Di Piero, Monica Ferrarini, Veronica La Porta, Mariella Zoppi, Gangemi, Roma 2021.
(3). Detto, per inciso, l’uso di clivo da parte dell’autore de Gli ossi di seppia è un poco approssimativo. Semmai trattasi di suolo in pendio per balze (solum per gradus acclive), mentre clivo sta a indicare un semplice pendio o il fianco di una collina.
(4). Francesco Erbani, Paesaggi da sogno e argini alle frane il tesoro nascosto delle terrazze d’Italia, in «la Repubblica», 9 ottobre 2016.
(5). Di questo quadro straordinario dà conto il volume: Luca Bonardi, Mauro Varotto (a cura di), Paesaggi terrazzati d'Italia. Eredità storiche e nuove prospettive, FrancoAngeli, Milano 2016.
(6). Eugenio Turri, Antropologia del paesaggio, Edizioni di Comunità, Milano 19832, p. 51.
(7). Maurizio Vitta, Il paesaggio. Una storia tra natura e architettura, Einaudi, Torino 2005.
(8). Archivio di Stato di Milano, L’immagine interessata. Territorio e cartografia in Lombardia tra 500 e 800, New Press, Como 1984.
(9). Lionello Puppi, L’ambiente, il paesaggio e il territorio, in Storia dell’arte italiana, vol. V, Einaudi, Torino 1980, p. 68.
(10). Carlo Cattaneo, La città considerata come principio ideale delle istorie italiane, in «Il Crepuscolo», a. IX, nei fasc.: 42, 17 ottobre 1858, pp. 657-659; 44, 31 ottobre 1858, pp. 689-693; 50, 12 dicembre 1858, pp. 785-790; 52, 26 dicembre 1858, pp. 817-821, ora anche in Id., Storia universale e ideologia delle genti. Scritti 1852-1864, a cura di Delia Castelnuovo Frigessi, Einaudi, Torino 1972, p. 122.
(11). Id., Agricoltura e morale, in Atti della Società d’incoraggiamento d’arti e mestieri. Terza solenne distribuzione dei premi alla presenza di S.A.I.R. il Serenissimo Arciduca Vicerè nel giorno 15 maggio 1845, Milano 1845, ora anche in Id., Scritti sulla Lombardia, p. 326.
(12). Rainer Maria Rilke, Del paesaggio e altri scritti, a cura di Giorgio Zampa, Cederna Milano 1949.
(13). E. Turri, cit., pp. 55 e 52.