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Vasco Pratolini |
Quando mi è stato proposto
di accompagnare un gruppo di giovani e di adulti in visita a via San Leonardo e
Costa San Giorgio ho accettato l’invito con entusiasmo. L’Oltrarno è sempre
stato per me, fiesolano di nascita, l’altra Firenze, la vera Firenze: la
Cappella Brancacci di Masaccio, la reggia di Pitti con Boboli e Belvedere, la
ripida Costa San Giorgio sulla via di Arcetri, Borgo San Jacopo e via de’ Bardi
ricostruite nel dopoguerra, le botteghe artigiane intorno a Santo Spirito. Di
fronte alla casa di Galileo, e poi a quella di Francesco Guicciardini, viveva
mio zio Vittorio, un cuoco raffinato e mai dimenticato per il suo prelibato
risotto allo zafferano, e la zia Teresa che cuciva per le grandi famiglie
fiorentine. Era la Firenze rinata dalla guerra e poi dall’alluvione che
raggiungevo con i primi turisti di massa, spesso attraverso il Corridoio
Vasariano. È la città che ho voluto far conoscere ai miei studenti di Dartmouth
College e della Georgetown University, liberata dalle macerie e dal fango,
salvata convintamente da giovani e vecchi, fiorentini e stranieri, da donne
alla ricerca della parità con gli uomini.
Questa è la Firenze magica di Elizabeth Barrett
Browning e di Ottone Rosai, di Carlo Levi e di Dostoevskij, di Anna Maria Luisa
e di Pietro Leopoldo, di Frederick Hartt e di Ugo Procacci, la città dei
mercanti, degli orafi e dei banchieri, dei sovrani di Toscana e d’Italia, dei
cultori del bello e del raffinato, ma anche dei disperati e dei visionari, che
ha sofferto, sperato ed amato, sempre proiettata verso il sublime, nemica delle
sciatterie e delle banalità.
Che cosa rimarrà dell’universo proletario di Vasco
Pratolini, che da via dei Magazzini e da via del Corno saliva su su verso via
San Leonardo? Ecco alcuni brani illuminanti tratti da Cronaca familiare.
“Quando la mamma morì tu avevi venticinque giorni,
eri ormai lontano da lei, sul colle. I contadini che ti custodivano ti davano
il latte di una mucca pezzata; ne ebbi anch’io una volta che venimmo a trovarti
con la nonna”. (…) “Ti venivamo a trovare, sul colle, quasi tutti i
giorni. Si saliva Costa de’ Magnoli, Costa Scarpuccia, era estate, luglio; ogni
volta, finita l’ascesa, io volevo trattenermi a guardare San Giorgio e il Drago,
scolpiti sulla Porta; la nonna mi tirava per mano. Gli ulivi erano bianchi
sotto il sole, emergevano con tutti i rami dai muretti in cui è incassata via
San Leonardo. Al di là, i campi arati, perfetti, in leggera pendenza; un gran
frinire di cicale, e farfalle smarrite nella luce.” (…) “Venirti a trovare
a Villa Rossa significava prepararsi a un rito”. (…) “Secondo le stagioni,
al ritorno, facevamo degli incontri sulla strada. A cavalcioni del muretto di
cinta un contadino potava gli ulivi, si toglieva il cappello per salutare la
signora; il giovane mezzadro ch’era stato a distribuire il latte ai clienti di
città, ritornava col barroccino tirato dal cavallo: il suonare dei bubboli e il
tintinnio dei bidoni riempiva il luogo di fracasso, gli zoccoli del cavallo
avevano l’eco più forte;” (…) La strada è lastricata, larga pochi metri,
i muri di cinta sono alti poco più di un uomo, le cancellate delle ville lo
stesso.” (…) Scendendo Costa de’ Magnoli |la nonna| piangeva a labbra
strette. Sul Ponte Vecchio io le chiesi: “Dove lo si potrebbe mettere a dormire?”.