Prevenire le malattie e gestire gli squilibri globali Lo sviluppo e il benessere non vanno
confusi con la crescita. Hanno a che fare, piuttosto, con l’armonia. La
crescita potrebbe diventare tumultuosa, sbilanciata, afinalistica e
progressiva, come nel caso dei tumori, e portare, più o meno rapidamente, alla
distruzione. In tutti i sistemi vitali, dai più
semplici ai più complessi, la sopravvivenza e lo sviluppo sono il risultato di
relazioni tra gli elementi che li costituiscono. Serve l’equilibrio, non la
crescita tumultuosa. La vita individuale e collettiva origina da interazioni
armoniche: tra gli atomi, le molecole, le particelle subcellulari, le cellule,
i tessuti, gli organi, le componenti ambientali, gli esseri umani, le famiglie,
le comunità, le nazioni, i continenti, gli eco-sistemi… A protezione della vita si sono
evoluti, lungo il corso di quasi quattro miliardi di anni, i processi
omeostatici che consentono sopravvivenza e sviluppo attraverso meccanismi di
autoregolazione e mantengono, così, i valori delle variabili biologiche entro
un intervallo ben definito, adatto alle funzioni vitali (1). Se la vita proviene da un flusso
incessante di interazioni, cui partecipano anche elementi basilari come le
molecole del cibo che mangiamo e dell’aria che respiriamo, allora il senso
della vita consiste nell’avere cura di queste relazioni e renderle più feconde,
rispettando tutto ciò che ci circonda, a incominciare dagli altri esseri umani,
nella loro intrinseca dignità. La vita, quindi, si sviluppa attraverso
una molteplice serie di relazioni, regolate da meccanismi biologicamente
determinati e da norme culturali, di ordine morale, giuridico e professionale. Anche la nostra mente, grazie alle
neuroscienze, viene oggi riconosciuta come una proprietà “emergente”, esito
delle interazioni tra cervello, corpo umano e ambiente esterno (2). Dalla
modalità di queste interazioni dipende sia la qualità della nostra esistenza
che quella dei sistemi di cui siamo parte.
Acquisire questa consapevolezza
significa affrancarsi dalla gabbia dell’individualismo e comprendere come il
nostro benessere dipenda, in gran parte, da quello di altre persone e altre
entità con cui ci troviamo a interagire. Ci è facile capire come nelle età
estreme dell’esistenza, alla nascita e durante la vecchiaia, viviamo in uno
stato di dipendenza. Quando cresciamo e diventiamo adulti, però, la nostra
percezione cambia e ci sentiamo indipendenti. Si tratta, tuttavia, di
un’illusione perché la vera prerogativa degli esseri umani consiste
nell’interdipendenza. E questo vale in ciascuna fase della nostra vita. Gli insegnamenti della fisica
quantistica estendono queste considerazioni alla realtà materiale. La teoria
quantistica ha infatti contribuito a comprendere meglio la realtà, in modi
nuovi e sorprendenti. Le entità materiali non hanno proprietà di per sé stesse.
Le proprietà dei sistemi esistono in virtù delle relazioni con altre entità. Di tutto questo, però, non riusciamo
ancora ad apprezzare fino in fondo le implicazioni. Si deve esplorare meglio la
trama sottile che associa ogni entità e la espone alle più diverse influenze
ambientali (3). Molte scienze, non solo la biologia e
la medicina, ma la psicologia, la sociologia, l’economia, l’ecologia e tante
altre ancora dovranno, perciò, concentrare maggiormente i loro studi sulle
relazioni, piuttosto che su singole entità, isolate in sé stesse. Alla luce di questi cenni, anche la
prevenzione in ambito sanitario e sociale assume un significato diverso e più
ampio. Il suo compito resta sempre quello di rimuovere le “cause” di malessere
e malattia. Deve, però, sforzarsi sempre più di risalire a quelle più radicali,
alle meta-cause, che sono cause di altre cause. E deve prestare un’attenzione
particolare alle interazioni e studiarle per preservarle, migliorarle,
generarne di nuove e feconde, interrompere i circoli viziosi, le sinergie
negative… Insomma, grazie al ruolo
dell’interdipendenza nella nostra vita, lo scopo della prevenzione potrebbe
diventare quello di promuovere la cura delle relazioni, la crescita
dell’equilibrio, la corretta gestione dei problemi e degli squilibri globali,
il perfezionamento dei nostri sistemi auto-regolativi. La prevenzione potrebbe
scaturire, così, in modo del tutto naturale, come conseguenza di una maggiore
armonia tra le parti che compongono il tutto dei diversi sistemi vitali.
Attività economiche e produttive Come è possibile trascurare
l’importanza delle relazioni? Come facciamo a credere in una crescita che
progredisce all’infinito, pur dovendosi materializzare in un mondo finito? Da
cosa siamo distratti per non accorgerci che l’equilibrio è alla base di ogni
sviluppo autentico e durevole? In parte siamo stati inebriati dai
sorprendenti successi legati alla rivoluzione industriale che è volata sulle
ali di conquiste incalzanti: la macchina a vapore, il motore a combustione
interna, l’elettricità, la chimica, l’informatica, l’intelligenza artificiale… È avvenuto, così, che verso la metà del
XIX secolo, alcuni Paesi del mondo, quelli che appartengono all’occidente
industrializzato, hanno incominciato a correre. Altri li hanno inseguiti e
stanno guadagnando terreno. Altri ancora continuano a procedere più lentamente.
Durante questi ultimi 150 anni si sono create differenze abissali nel reddito
pro-capite e nella qualità della vita dei diversi Paesi del mondo. Siamo
lontani da uno sviluppo globale armonico. E, a parte la disarmonia, i Paesi che
hanno conquistato il “successo” economico non hanno raggiunto un traguardo di
pari portata nell’ambito più globale del benessere. Per di più, si sono
macchiati, lungo la strada, di tremende atrocità che hanno comportato
l’oppressione di altri esseri umani e la devastazione sconsiderata dei beni
ambientali. Il colonialismo e la schiavitù sono da
annoverare, forse, tra le punte più atroci dell’espressione della volontà di
dominio dell’uomo. Potremmo consolarci pensando che appartengono, ormai, alla
storia passata. Nel frattempo, però, sono comparse nuove forme di
prevaricazione, meno vistose, ma altrettanto inique: la precarietà del lavoro,
l’assottigliamento dei sistemi di welfare, l’insicurezza, i licenziamenti, la
diminuzione del potere d’acquisto dei salari… Anche per chi ha saputo correre, poi, è
stato un percorso accidentato, funestato da crisi e instabilità. Basti pensare
alle guerre, ai totalitarismi, all’aumento delle disuguaglianze socio-economiche,
al cambiamento climatico, alla crisi finanziaria del 2008 e alla pandemia da
cui siamo stati travolti all’inizio del 2020, che riversa i suoi effetti
sull’economia, la società e l’esistenza di tutti, sconvolgendo i modi di vita
cui eravamo abituati. C’è qualcosa di insano in questa corsa.
Tanto che diversi pensatori hanno iniziato a riflettere sulla natura stessa del
capitalismo: il sistema economico tipico della tradizione liberale, in cui si
impiegano denaro e beni materiali per produrre e remunerare il capitale.
Qualcuno lo ritiene, ormai, insostenibile, da un punto di vista ambientale (per
via della crisi climatica e dell’inquinamento), sociale (a causa delle
disuguaglianze eccessive), politico (per via delle derive populistiche e/o
plutocratiche) ed economico (a causa della recessione e dell’instabilità, in
continuo agguato).
A voler ben guardare, però, non esiste
il capitalismo di per sé stesso, ma una numerosa serie di sue combinazioni con
diverse altre componenti economiche e sociali, dalle caratteristiche molto
varie. Le forze della competizione e della regolamentazione all’interno del
“libero” mercato, l’assetto del sistema fiscale, i meccanismi pre-distributivi,
distributivi e redistributivi, le caratteristiche del sistema di welfare, della
sanità e della scuola fanno del capitalismo un sistema condizionato da una
molteplicità di fattori capaci di cambiarne radicalmente forma e sostanza. Il
problema vero è dato dal fatto che abbiamo un sistema capitalistico globale,
pur nella molteplicità delle sue varianti nazionali, senza che esista un
sistema globale di leggi e regole. Oggi è possibile svolgere tutti i propri
affari in un determinato Paese e ricorrere all’espediente di creare un’entità
legale in un altro Paese con una regolamentazione e un sistema fiscale più
vantaggiosi. Accade, così, che alcune aziende, grazie al supporto di potenti
studi legali - i cosiddetti signori del codice - si arrogano il diritto di
scegliere a quali leggi ubbidire, secondo le proprie convenienze. Senza alcun riguardo
per le conseguenze sociali delle loro scelte. Il sistema economico, ai livelli
più alti, si è svincolato da un controllo democratico, erodendo profondamente
la fiducia nella giustizia, nei doveri di solidarietà e nella politica. È riuscito a intervenire sulle leggi
che regolano i contratti, il credito, la proprietà, le strutture societarie, i
fallimenti. E si è procurato vantaggi indebiti a scapito di moltitudini di
cittadini e lavoratori. E ha sostituito, alla riflessione morale su ciò che è
giusto o sbagliato, il calcolo minuzioso del rischio da correre nel
perseguimento del profitto (4). È bene rendersi conto di queste
anomalie e di questa fisionomia multiforme perché, fino a quando la
contrapposizione resta tra capitalismo e comunismo, non rimane altro che
rassegnarsi alla sua egemonia. La contrapposizione deve, invece, opporre i
diversi tipi di capitalismo, caratterizzati dai differenti mezzi capaci di
addomesticarlo e renderlo compatibile col benessere dell’umanità. Una
ristrutturazione radicale del sistema capitalistico deve tener presente che il
fallimento del socialismo reale non equivale allo screditamento perpetuo delle
ragioni di fondo del socialismo ideale, a partire dalle disuguaglianze
sfacciate, dal dominio dell’uomo sull’uomo, dalla alienazione, lo stress, il
malessere sanitario e sociale. Queste ragioni di fondo mantengono la loro
validità, ma possono essere compatibili anche con alcune forme di capitalismo,
capaci di conciliare gli interessi degli investitori con quelli dei lavoratori,
dei fornitori, dei consumatori, delle comunità locali e dell’ambiente. Non è un caso se il capitalismo ha
funzionato al meglio nel trentennio decorso dal secondo dopo-guerra, quando a
regolarlo vigevano politiche social-democratiche, che cercavano di conciliare
le esigenze del profitto con quelle del lavoro e dell’etica. La crescita era
distribuita in modo più uniforme, i cittadini avevano un miglior accesso ai
sistemi di welfare, esisteva una maggiore mobilità sociale e veniva riservata
più attenzione al problema della generazione e dell’educazione dei figli. Col procedere della globalizzazione e
la diffusione delle democrazie liberali, però, la natura del lavoro è cambiata,
i lavoratori dell’industria sono diminuiti, i sindacati hanno perso la loro importanza,
la tassazione su redditi e successioni è diminuita, e sono state ulteriormente
esacerbate le disuguaglianze. Ma gli effetti di quei cambiamenti non hanno
tardato a farsi sentire.
Problemi globali come conseguenze di
squilibri Alla luce di quanto è stato detto sul
ruolo delle interazioni, i problemi più importanti che affliggono l’umanità
possono essere interpretati come conseguenze di gravi squilibri, con impatti
globali. Non interessano solo singoli Paesi, ma il mondo, nella sua interezza.
Richiedono, perciò, l’azione congiunta di tutte le nazioni e delle
organizzazioni sovranazionali che le rappresentano, come unica comunità di
destino (5). A questo fine, dovrebbero essere affidati più poteri a organismi
rappresentativi degli interessi di tutta l’umanità. Così pure andrebbero
riaggiustate le falle teoriche del diritto internazionale che non tutela
adeguatamente i beni comuni e la loro destinazione intergenerazionale. C’è
molto da fare in questa direzione, ma già con la definizione degli Obbiettivi
dello sviluppo sostenibile per il 2030, l’Onu ha compiuto un passo decisivo
sulla strada che dobbiamo percorrere. L’attenzione e l’impegno devono, però,
moltiplicarsi, aggiornando e valorizzando quanto è già stato fatto per
raggiungere i traguardi che ci siamo imposti, all’insegna di una maggiore
equità, a partire dalla lotta contro la fame, la povertà, l’analfabetismo e la
malattia. In coerenza con un orientamento
preventivo, dovremmo tentare di rimuovere o attenuare gli squilibri esistenti
per riuscire ad arginare la portata dei problemi che ci minacciano. Prima di
addentrarci all’interno della rete di problemi, cause, conseguenze, fattori di
aggravamento e circoli viziosi, vale la pena descrivere, per sommi capi, la
natura di alcuni squilibri, alla base dei nostri principali problemi.
Squilibri energetici Consumiamo più energia di quanta ne
produciamo con fonti rinnovabili. Utilizziamo in prevalenza combustibili
fossili come carbone, petrolio, gas metano anche se rappresentano, ormai, una
minaccia alla sopravvivenza dell’umanità. La loro combustione produce, oltre ad
anidride carbonica (la principale responsabile dei cambiamenti climatici), gas
inquinanti, come biossido di azoto, anidride solforosa, idrocarburi policiclici
aromatici, particolato PM 10 e PM 2,5, che degradano l’ambiente e danneggiano
la salute. I cambiamenti climatici esercitano una pluralità di effetti, tra
cui: - effetti diretti (uragani,
inondazioni, siccità, desertificazione, ondate di calore…); - effetti indiretti (aumento di malattie
trasmesse da zanzare come la malaria, la febbre dengue, la malattia da virus
zika…); - migrazioni (si tenta di fuggire dai
Paesi più colpiti, che coincidono, in gran parte, con quelli più poveri).
Squilibri produttivi Tra il 1950 e il 2010 la popolazione è
triplicata. Il Pil globale, invece, è cresciuto di 7 volte, ma in modo
disarmonico tra i diversi Paesi (6). Se ne sono giovati maggiormente i Paesi e
le persone che meno ne avevano bisogno. Produciamo e consumiamo più di quanto
dovremmo sia perché siamo diventati consumisti, sia perché il prezzo delle
merci non assolve alla sua funzione di strumento regolatore della domanda e
dell’offerta. Nel prezzo non vengono inclusi i costi
delle “esternalità negative”, ossia i danni recati all’ambiente e alla salute,
che non compaiono nella contabilità economica delle aziende, ma incidono
profondamente sulla “contabilità ecologica” del nostro pianeta. Le emissioni
legate alla produzione, a causa del loro carico in anidride carbonica,
concorrono ai cambiamenti climatici. Quelle stesse emissioni, ricche di altri
gas e composti inquinanti, insieme con i rifiuti conseguenti alla produzione e
al consumo delle diverse merci, inquinano, poi, aria, acqua e suolo,
danneggiando la bio-diversità, la vita degli esseri umani e di tutte le altre
specie.
Squilibri nutrizionali Consumiamo più proteine animali (in
particolare quelle della carne rossa) di quanto dovremmo. Negli anni 60,
secondo dati forniti dalla Fao, il consumo di carne pro-capite ammontava a 28
grammi giornalieri, oggi supera i 110 grammi, sempre a livello globale. Ma le
medie non tengono conto delle differenze abissali tra le diverse aree
geografiche, per cui c’è chi consuma troppo e chi troppo poco. Pur tralasciando
i Paesi a basso reddito, ad esempio, si stima che in Cina si consumino 60 Kg a
testa di proteine animali all’anno, mentre in Europa se ne consumano 120 Kg e
negli Stati Uniti addirittura 180 Kg. Per rifornire tutta questa carne si
moltiplicano gli allevamenti intensivi, dentro i quali il bestiame viene
stipato in spazi minimi, con atroci sofferenze. La zootecnia è, inoltre,
responsabile dell’aumento delle polveri sottili Pm 2,5 che provocano malattie e
disabilità. Si incendiano le foreste e si depaupera il suolo. Il prezzo della
carne non tiene conto delle esternalità negative su salute, ambiente,
biodiversità, risorse idriche… Il bestiame e l’abbattimento delle
foreste concorrono all’aumento di gas serra e all’aggravamento dei fenomeni
legati ai cambiamenti climatici. Si scatenano guerre fra poveri: gli
agricoltori si contendono con gli allevatori le terre fertili sempre più
scarse, mentre il controllo dell’acqua diventa per moltitudini diseredate
questione di vita o di morte. La distruzione di ecosistemi con la
loro biodiversità avviene a ritmi incalzanti, avvicinando la fauna selvatica a
quella domestica. E rende possibile il “salto di specie” di micro-organismi
patogeni, alla base della diffusione di nuove epidemie, come è avvenuto per il
Covid-19. Per di più, viene fatto un uso massivo di antibiotici all’interno dei
mangimi, che aumentano il fenomeno dell’ antibiotico resistenza. Si sprecano calorie vegetali per
produrre quantità caloriche molto minori sotto forma di proteine animali. Oltre
tutto, i sussidi elargiti agli imprenditori agricoli nei Paesi industrializzati
sono disfunzionali perché non tengono conto degli impatti delle loro attività
su salute e ambiente. Non si tratta di qualcosa di irrilevante. Secondo Green
Peace, infatti, nell’Unione europea circa un quinto del bilancio comunitario è
destinato a sussidi per l’allevamento intensivo e la produzione di mangimi.
Squilibri socio-economici Esistono differenze abissali nel
reddito pro-capite dei diversi Paesi del mondo. Ma anche all’interno dei
singoli Paesi, il prodotto interno lordo viene distribuito in modo molto
disuguale tra tutti coloro che concorrono a ottenerlo. La povertà assoluta e
quella relativa, conseguenti alle disuguaglianze socio-economiche, hanno
effetti deleteri sulla salute umana, mediati, in parte, dallo stress cronico (7).
Le eccessive disuguaglianze hanno effetti nocivi sulla stessa crescita
economica (8) e determinano un vergognoso spreco di potenzialità all’interno
delle popolazioni che ne sono colpite. La grande concentrazione di ricchezza
genera un enorme potere di influenza sulle decisioni politiche che vengono
adottate dai vari governi. Il potere politico è concentrato nelle mani dei più
ricchi. Anche per questo i meccanismi distributivi, redistributivi e la
mobilità sociale si sono inceppati negli ultimi 40 anni. I sistemi di welfare
si sono assottigliati. I sistemi fiscali dei vari Stati nazionali sono molto
diversi tra loro, persino all’interno della stessa Unione europea. Si è
generata, addirittura, una competizione fiscale al ribasso, che ostacola la
cooperazione internazionale oltre che la possibilità di una tassazione
autenticamente progressiva.
Le relazioni tra i problemi Nella figura seguente (Figura 1)
vengono rappresentati in modo molto schematico alcuni dei problemi più
importanti da affrontare, generati dall’esistenza dei gravi squilibri
enunciati. Vale la pena soffermarsi brevemente sulle relazioni che li
associano, sui problemi da cui vengono aggravati e i circoli viziosi che si
instaurano. Alcuni problemi potrebbero essere
specificati come problemi-causa, altri come problemi-conseguenza. Ad esempio,
la domanda e l’offerta di una quantità eccessiva di carne (problema-causa)
provocano la costruzione di allevamenti intensivi di bestiame e l’abbattimento
di foreste (problemi-conseguenza). Spesso, tuttavia, un problema è
contemporaneamente causa e conseguenza. Ad esempio, gli allevamenti intensivi e
l’abbattimento delle foreste sono anche problemi-causa: di cambiamenti
climatici e cattiva salute. Ricorrendo a un altro esempio, le eccessive disuguaglianze
socioeconomiche sono, a loro volta, causa di cattiva salute. Nel contempo,
però, la cattiva salute aggrava le disuguaglianze socioeconomiche. Si instaura,
così, un circolo vizioso, in cui il problema delle disuguaglianze
socioeconomiche appare contemporaneamente come causa e conseguenza di cattiva
salute. Le retroazioni di potenziamento aumentano progressivamente la gravità
degli effetti complessivi. Richiedono, perciò, interventi tempestivi
finalizzati alla interruzione più precoce possibile dei circoli viziosi. Dal punto di vista della prevenzione,
però, questa situazione così intrecciata ha anche aspetti positivi perché offre
delle potenzialità aggiuntive. Diventa sufficiente intervenire appropriatamente
su uno degli squilibri esaminati per ottenere effetti benefici su un insieme di
problemi legati con quello. Ogni problema può essere ridimensionato
attraverso una molteplicità di approcci.
Figura 1
I problemi di salute, ad esempio,
possono essere arginati da una maggiore regolazione di ognuno dei 4 tipi di
squilibrio esaminati. I problemi legati ai cambiamenti climatici, che a loro
volta aggravano gli squilibri socioeconomici, possono essere migliorati da
interventi regolativi nell’ambito di ognuno degli altri 3 squilibri
considerati. Gli squilibri nutrizionali, infatti, peggiorano i cambiamenti
climatici attraverso la deforestazione e gli allevamenti intensivi. Gli
squilibri energetici e quelli produttivi lo fanno attraverso le emissioni di
gas serra. Se volessimo, in nome della
prevenzione, intervenire sugli squilibri energetici e produttivi con
appropriati investimenti e riconversioni, nell’ambito della cosiddetta economia
verde, ridurremmo, oltre alle emissioni di anidride carbonica, quelle di altri
gas, polveri sottili e composti inquinanti derivanti dai combustibili fossili.
E così riusciremmo a ottenere enormi guadagni in aggiunta a quelli relativi ai
cambiamenti climatici: guadagni in ambito di salute e degrado ambientale. Lo schema, pur nei suoi evidenti limiti
di semplificazione, contribuisce a fornire una prospettiva più ampia di quella
cui siamo soliti riferirci. Possiede il pregio di mostrarci le relazioni tra
gli squilibri e i problemi considerati. Ha, tuttavia, il difetto di non dirci
nulla sugli aspetti quantitativi dei problemi e delle relazioni che li
legano. A titolo di esempio, proprio per
chiarire gli ordini di grandezza relativi ai problemi di salute, basti
ricordare che, a livello globale, le esposizioni ambientali nocive sono
responsabili, annualmente, di 13 milioni di morti. Di questi, oltre 7 milioni
sono dovuti al solo inquinamento atmosferico (9). E limitandosi ai danni legati
alle esposizioni a PM 2,5, si stimano più di 4 milioni di morti e 103 milioni
di anni di vita perduti in seguito a disabilità (10). In riferimento al nostro
Paese, l’agenzia europea per l’ambiente stima un numero di circa 60.000 morti
all’anno dovuti solo a PM 2,5, biossido d’azoto e ozono (9). La pianura padana
figura, purtroppo, come il luogo, in Europa, in cui si muore di più per
inquinamento (11). È un triste primato. A titolo di paragone, a metà maggio
2021, l’epidemia di coronavirus nel mondo aveva mietuto poco più di 3 milioni e
200 mila vittime. Recentemente, ci si è resi conto che la diffusione
eccezionale dell’epidemia in pianura padana, a Wuhan e nella provincia di Hubei
è stata influenzata anche dall’inquinamento dell’aria presente in quelle zone
(12). Si è chiarito, così, come l’inquinamento atmosferico non sia solo
responsabile di malattie cronico degenerative, ma abbia aumentato anche
l’incidenza di malattie infettive, come il Covid-19. Insomma, l’inquinamento
atmosferico, anche solo in relazione alla salute umana, manifesta degli impatti
finora imprevisti e maggiori di quelli che siamo stati abituati a calcolare:
influenza, infatti, anche la gravità e, probabilmente, la trasmissibilità delle
infezioni per via aera, tra una persona e l’altra.
La prevenzione “primordiale” La rete di relazioni esaminata, insieme
con questi ulteriori dati quantitativi, dimostra la necessità e l’urgenza di
una prevenzione “primordiale”, volta alla rimozione degli squilibri descritti,
alla radice di tanti problemi. Si tratta di una prevenzione che ricerca e attenua
le cause più radicali. Adottando queste strategie preventive, riusciremmo non
solo a migliorare la salute, ma anche a contrastare altri problemi, come
l’emergenza climatica, ambientale, socio-economica e migratoria. Gli effetti
positivi sulla salute, sull’ambiente e la società potremmo verificarli con un
anticipo di diversi anni rispetto agli effetti sui cambiamenti climatici, che
sono destinati ad apparire più tardivamente. I gas serra, infatti, si
accumulano progressivamente e persistono nel tempo perché sono, purtroppo,
dotati di una lunga emivita. Ad esempio, le emissioni di anidride carbonica nel
corso del 2021 perdureranno fino alla fine di questo secolo: la nostra
imprevidenza di oggi condizionerà negativamente per molto tempo la vita delle
generazioni future e la loro stessa sopravvivenza. Se non interveniamo con la dovuta
urgenza rischiamo di non poter avvalerci dei benefici della prevenzione.
Potremmo, infatti, arrivare a superare un punto di non ritorno, oltre il quale
i cambiamenti climatici fuoriescono dalle nostre possibilità di controllo
preventivo. Da quel momento in poi non basterebbe più azzerare o limitare la
produzione di gas serra con tutta la serie aggiuntiva di benefici legati alla
salute e alla riduzione del degrado ambientale. Non resterebbe altra
possibilità che quella di “catturare” l’anidride carbonica in eccesso, magari
imprigionandola sottoterra. È quello che già stanno facendo colossi
dell’energia come Exxon Mobil e la Royal Dutch Shell che, pur continuando a
lucrare grazie ai combustibili fossili, hanno iniziato a fare buoni affari
anche con la cattura e lo stoccaggio dell’anidride carbonica nel sottosuolo.
Gli interventi, a questo punto, servono “solo” a contenere l’emergenza
climatica. La nostra inerzia ci condanna a una “cura” di portata più ridotta
rispetto alla “prevenzione”, da cui, invece, potremmo aspettarci un insieme ben
più ricco di benefici su salute, ambiente e società. Insomma, se si tarda a
decidere con la dovuta radicalità si perdono enormi potenzialità. Non ci si
limita a procrastinare colpevolmente la decisione, ma si viene costretti a
cambiare, in senso riduttivo e peggiorativo, la natura stessa della decisione.
Si dovrebbero prendere decisioni relative alla cura, dal momento che la
prevenzione, ormai, non basterebbe più.
Modelli di sviluppo diversi Sono stati esaminati succintamente 4
esempi di squilibrio, alla base dei principali problemi che affliggono
l’umanità. Non possiamo illuderci che basti qualche intervento di aggiustamento
per riequilibrare il sistema economico-produttivo e riportarlo sui binari
giusti. Occorre, invece, ripartire da una diversa mentalità, capace di
concepire modelli di sviluppo profondamente differenti. Ce lo impongono ragioni
di ordine morale e pratico. Il richiamo al senso del limite e all’equilibrio
deve frenare la volontà di dominio, le prevaricazioni, i giochi a somma zero,
gli eccessi e gli squilibri. Ma deve arginare anche il risentimento, il rancore
e gli atteggiamenti rivendicativi che ostacolano una leale collaborazione tra tutte
le componenti sociali. In un’indagine compiuta tra il 2011 e 2012 su milioni di
lavoratori in 142 Paesi del mondo si è rilevato che solo il 13% afferma di
tenere al proprio lavoro. Il 63% dichiara di essere indifferente rispetto alla
propria occupazione: investe tempo, ma non energia e passione. Il 24%, invece,
è attivamente disinteressato, più o meno deciso a danneggiare l’azienda (13). È
un’indagine ormai datata, ma sembra improbabile che la situazione sia nel
frattempo migliorata. Ci troviamo di fronte a un problema serio. Qualcuno parla
di lavoro “stupido”, volendo, così, mettere in evidenza l’insensatezza di ciò
che si è chiamati, spesso, a dovere fare (14). Per non parlare, poi, delle
molestie morali e degli sgarbi reiterati che alimentano l’angoscia di molti
lavoratori. Se il lavoro è gratificante contribuisce a dar senso alla vita. Ma
quando si trasforma in qualcosa di lontano o di ostile per l’87% dei lavoratori
occupati, come si rileva nell’indagine citata, inibisce la produttività e
dissemina tanta disaffezione da inquinare i rapporti sociali. E in aggiunta ai
rapporti deteriorati di chi lavora, c’è la frustrazione di chi non ha lavoro né
alcuna sicurezza. Purtroppo, finché non veniamo colpiti
direttamente tendiamo a restare indifferenti di fronte a problemi come questi
che soffocano le aspirazioni di miliardi di persone per un lavoro decente e una
maggiore giustizia sociale. In un mondo in cui pochissimi
personaggi detengono immense risorse e tantissimi possiedono poco più di una
padella e una tazza, diventa prioritario interrogarsi su come raggiungere più
elevati gradi di equità e un benessere più diffuso. Va anche cambiata radicalmente la
mentalità per cui la terra viene concepita come una fonte inesauribile di
risorse e, nello stesso tempo, un’immensa discarica in cui riversare ogni
rifiuto. Il degrado ambientale non può continuare a essere considerato
un’esternalità che fuoriesce dall’ambito di interesse dell’economia. E
l’incremento del profitto non può continuare a essere la stella polare destinata
a guidare la “responsabilità sociale” delle imprese. Gli sforzi che oggi sono orientati
verso la massimizzazione della produzione e dei profitti vanno riconvertiti nel
senso della ottimizzazione. Dobbiamo passare da sistemi produttivi la cui progettazione
è intrinsecamente degenerativa, perché basata sulle fasi sequenziali del
prendere, produrre, usare e buttare, a una logica di progettazione
rigenerativa, che ripristini i cicli vitali da cui dipende il benessere
dell’umanità. Si tratta di una metamorfosi che richiede il passaggio a
un’economia circolare: un diverso modo di produrre, che reinterpreta i
materiali di lavorazione, ripristinandoli nella loro appartenenza al ciclo
biologico o al ciclo tecnico e, in quanto tali, li usa indefinitamente, attraverso
processi di recupero e rinnovamento.
Alla base di tutto questo deve stare
una diversa concezione del valore economico. Esso non va più confuso col flusso
di denaro che accompagna gli scambi di beni e servizi, ma nella preziosità dei
beni prodotti, nel capitale sociale, nella qualità delle relazioni, nelle
caratteristiche della biosfera, nella conoscenza e nel benessere diffuso. Vanno
sostituiti i vecchi paradigmi che i nuovi economisti del XXI secolo ormai
considerano, oltre che obsoleti, disfunzionali (6). Non è più tempo di
considerare le profonde disuguaglianze socio-economiche come un effetto
indesiderato della crescita, sul cui altare può essere sacrificata la qualità
della vita di una buona parte di popolazione. È tempo, invece, di considerarle
per quello che sono: un tragico errore politico di pianificazione, cui
rimediare al più presto. Anche perché le società in cui la disuguaglianza è
maggiore hanno una crescita economica più lenta e più fragile (8). Le eccessive
disuguaglianze socio-economiche, per cui pochissimi possiedono tantissimo e
moltissimi possiedono pochissimo, non sono conseguenze inevitabili di leggi
economiche universali, ma frutto di cattiva politica. La crescita è stata alleata per decenni
di una politica timida e conservatrice perché è servita a procrastinare
indefinitamente la necessità di una diversa distribuzione e redistribuzione di
reddito e ricchezza. Si puntava sulla teoria della tracimazione, per cui tutti
avrebbero approfittato dell’abbondanza. Con l’alta marea, si diceva, tutte le
barche riprendono a galleggiare, anche quelle che erano prima impantanate nel
fango. Ma queste illusioni si sono infrante alla luce dell’esperienza reale. Oggi, perciò, le politiche economiche
dovrebbero esercitare un sano agnosticismo nei confronti della crescita.
Dobbiamo passare da politiche che hanno bisogno della crescita per sostenere
produzione e consumo, indipendentemente dal benessere che apportano, a
politiche che diffondono benessere nell’umanità e nell’ambiente,
indipendentemente dal fatto che si accompagnino o meno con la crescita (6).
Riflessioni conclusive
Le nostre società appaiono sempre più
frammentate e incapaci di sostenere un programma fondato su valori, diritti e
doveri comuni. Pensiamo ancora, sia come individui che come Stati, di poter
agire da soli. E così ci troviamo ad affrontare i problemi globali senza avere
istituzioni sovra-nazionali dotate del potere e dell’autorità necessarie per
governarli. Bisognerebbe, invece, unire le forze a tutti i livelli sociali e
istituzionali e preoccuparsi maggiormente per il benessere degli altri, per le
specie non umane, la preservazione del nostro pianeta, la qualità della vita e
dell’ambiente. Sembra quasi contro-intuitivo, per come siamo abituati a
ragionare, ma il nostro interesse individuale viene meglio garantito
prodigandoci in favore del bene comune. In particolare, di fronte all’emergenza
climatica che minaccia la stessa sopravvivenza della nostra specie, bisogna
pensare a programmi di impegno e vastità straordinari. Occorre un cambiamento
di mentalità per concepirli e realizzarli, perché hanno a che fare con modelli
di sviluppo profondamente diversi rispetto al passato: uno sviluppo che non va
più confuso con la crescita, ma, se mai, con la crescita della moderazione e
dell’equilibrio. Il Pil ha smesso di essere l’indicatore adatto per misurare il
benessere. Eppure continuiamo a monitorarlo con questa finalità. E misurando la
cosa sbagliata adottiamo dei provvedimenti sbagliati. I problemi che degradano la qualità
della nostra esistenza derivano da varie forme di squilibrio che non abbiamo
saputo riconoscere nella loro gravità. Ne abbiamo considerate alcune in ambito
energetico, produttivo, nutrizionale e socio-economico. E abbiamo potuto
esaminare, nel semplice schema presentato (Figura 1), il reticolo delle
interazioni che associano i diversi squilibri e ne potenziano gli effetti
dannosi. Questo scenario così negativo offre,
però, delle potenzialità cruciali, da un punto di vista preventivo. È
possibile, infatti, agire anche solo su un singolo ambito degli squilibri
considerati per ottenere degli effetti benefici su una molteplicità di problemi-conseguenza
che, a loro volta, possono essere identificati come problemi-causa perché ne
scatenano altri ancora. Appropriati interventi nel campo dell’economia verde
non solo allontanerebbero la minaccia di cambiamenti climatici irreversibili,
ma realizzerebbero anche enormi guadagni in ambito di salute, ambiente e
giustizia sociale. Tutto questo, però, richiede profondi
cambiamenti culturali attraverso cui si possa arrivare a una diversa concezione
del valore economico. Esso dovrebbe coincidere con la preziosità dei beni
prodotti, con il capitale sociale, la qualità delle relazioni, le
caratteristiche della biosfera, la diffusione del benessere e della conoscenza.
E le eccessive disuguaglianze
socio-economiche non dovrebbero più essere considerate un effetto collaterale
della crescita, ma un tragico errore nell’ambito della pianificazione economica
e politica. Da tempo sappiamo che esistono delle
semplificazioni ideologiche in base alle quali tutto il male deriva da un’unica
causa e tutti i problemi vedono un’identica soluzione. A seconda delle stagioni
e dei venti, il male è stato identificato nello Stato o nel mercato, nella
libertà o nell’uguaglianza eccessiva, nella crescita o nella decrescita (15).
Purtroppo, invece, non esiste un unico elemento su cui far leva, capace di
garantire il miglioramento di tutti gli altri. Di fronte ai problemi complessi,
la scienza ci suggerisce di incominciare a intervenire con approcci multipli
(diversificazione), di scegliere, in seguito, quelli che sembrano funzionare
meglio (selezione) e, da ultimo, quando siamo davvero convinti della loro
efficacia, far leva su quelli più promettenti, utilizzando maggiori risorse
(amplificazione). Potremmo chiederci se, a causa di
questa nostra enfasi sul ruolo cruciale della moderazione e dell’equilibrio,
rischiamo, a nostra volta, di cadere in una semplificazione ideologica. È innegabile
che l’equilibrio si posizioni alle radici della vita biologica, quale esito dei
processi omeostatici. Ma va ben compreso nella sua natura. Sia in ambito
biologico che nelle incertezze della vita sociale, l’equilibrio non va confuso
col mantenimento di un determinato stato e dell’ordine tradizionale. Si deve
tendere a un equilibrio dinamico, sensibile ai cambiamenti ambientali cui si
viene continuamente esposti. Non c’è nulla di automatico nelle
risposte che devono essere date per gestire gli squilibri energetici, economici
e sociali. Non abbiamo a che fare con reazioni istintive come nei processi
omeostatici della biologia. C’è bisogno di riflessione e cultura, di
negoziazioni e accordi delicati, affinché la forza della ragione prevalga,
insieme coi buoni sentimenti, sulle ragioni della forza, e si stabiliscano
equilibri che, nel loro dinamismo, diventino capaci di migliorare ambiente,
salute e benessere. Bisogna credere nelle nostre capacità di miglioramento. Non
va lasciato nulla al fatalismo, perché, nonostante tutto, c’è ancora un futuro
per lo “sviluppo” umano. [*Medico - Bergamo]
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