DEMOCRAZIA E (ANCORA UNA VOLTA) SINISTRA di
Franco Astengo
La
perdita di credibilità della struttura costituzionale della democrazia
rappresentativa agita attraverso il sistema dei partiti rappresenta la causa
preminente della crisi del sistema politico italiano e anche del definitivo
“salto del tappo” all’interno del Movimento Cinque Stelle. Quel M5S che,
attraverso meccanismi molto complessi di aggregazione del consenso, aveva
illuso molti circa la possibilità di costruzione di un’alternativa. L'esito
possibile di questa fase così convulsa potrebbe essere quello di un'ulteriore
dispersione di forze verso l'ennesimo incremento di riflusso sociale e non
soltanto di astensionismo elettorale. È evidente che la democrazia diretta
esercitata attraverso il web non può rappresentare un’alternativa di sistema
nei riguardi di quelle forme di democrazia rappresentativa e delegata, oggi in
crisi. La
causa vera di questo complicato stato di cose in atto è dovuta prima di tutto a
un mutamento di fondo nella concezione stessa dell’agire politico allorquando
si è cominciato a considerare la “governabilità” quale fine esaustivo,
abdicando alla capacità di rappresentanza dei diversi settori sociali verso i
quali i grandi partiti di massa avevano saputo esercitareforme di pedagogia collettiva indicando la
via della formazione di un “blocco storico” all’interno del quale trovare
sicurezza di “appartenenza”.
Di Maio
La
crisi del sistema politico indotta dalle tre cause concomitanti (o concatenate
fra loro?) della caduta del muro di Berlino, di Tangentopoli e della cessione
di sovranità dello Stato-Nazione implicata dalla stipula del Trattato di
Maastricht, fu affrontata semplicisticamente attraverso il taglio di nodi
gordiani: via i partiti di massa, via il proporzionale e affermazione di un
maggioritario (misto) per creare un bipolarismo “temperato” (pur nella
demonizzazione mediatica dell’avversario, e con l’apporto “sostituivo” della
magistratura) inteso come panacea di tutti i mali nella logica della
dismissione dell'intervento pubblico in economia, dell'abbattimento dello stato
socialee dell'allineamento alla
trionfante Europa liberista. La
formula elettorale però è soltanto “parte” dell’incardinamento di un sistema
politico. Il
maggioritario fu inteso, invece, come panacea di tutti i mali perché considerato
di capace di produrre la tanto agognata “governabilità” in un mondo con un solo
gendarme e nell’Europa a trazione tedesca. Nessuno
in quel momento, primi anni ’90, previde l’instabilità successiva, la crisi del
subprime e tutto il resto: mentre a sinistra ci si limitava ad una esternazione
movimentista contro la globalizzazione e tutti, proprio tutti, pensavano che
all’Est si sarebbero aperte le praterie del mercato libero inteso come nuova
frontiera della “fine della storia”.
Bipolarismo
e maggioritario (con relative tensioni presidenzialiste: si ricordi l’esito
della Bicamerale del 1997 presieduta da Massimo D’Alema) da accompagnare, sul
piano delle relazioni sociali, con il riformismo blairian-tachteriano e
lasciando, in Italia, libero sfogo al “partito-azienda” (sublimazione del
passaggio dal “catch all party” al partito-personale) e al conflitto
d’interessi con relativo corollario. Risultato
di tanta insipienza (qui ridotta in un raccontino all’osso) la ferocia
dell’austerità con relativa reazione populista, prima interpretata appunto
dall’idea della democrazia diretta, dall’avvento del web, dallo “scambio”
assistenzialista mutato nella “fine della povertà”: poi grazie anche
all’incredibilità di un trasformismo acrobatico (causa di ulteriore crisi di
credibilità complessiva) il passaggio “hard” al populismo sovranista,
alimentato dalla situazione internazionale e dall’evidente mistificazione
portata avanti dai media sul tema dei migranti (anche perché agitare uno
spauracchio ha sempre rappresentato il “classico” della voglia di disporre di
un capo che parli direttamente alle masse). Populismo
sovranista non contenuto, alla fine, dalla formazione di una governabilità con
parvenza di unità nazionale. Una
parvenza di unità nazionale basata sulla volontà di spartizione “ineguale” dei
fondi europei considerati l’occasione di un “piatto ricco mi ci ficco” come
conclusione della più drammatica fase della storia mondiale recente. Ricordando
infine che, oggi come oggi, in testa alla fallacia dei sondaggi ci sono i
fascisti (saliti dal 4 al 20%) che presto entreranno nel gioco di governo non
resta da chiedersi perché a sinistra ci si stracci le vesti per il fallimento
del tentativo neo-democristiano di riconversione del M5S.
Non si riflette a sufficienza sul fatto che a
sinistra ci si stia adagiando nell’europeismo/atlantismo e nel “populismo
gentile” del PD, una linea di riferimento che proprio nel PD segna una
continuità di linea di riferimento nonostante le scissioni e l'alternarsi nella
guida di "carissimi nemici". Il
“populismo gentile” del PD (partito che soffre, anche al suo interno, il vuoto
lasciato dall'assenza di una autonoma presenza di sinistra) appare
contrassegnato da chiari accenti anti-parlamentari e dalla voglia di
cambiamento della forma di governo. A
dimostrazione di questo stato di cose si può indicare prima il voto favorevole
nel referendum riguardante la riduzione nel numero dei componenti di Camera e
Senato (il cui esito concreto ha cancellato di fatto il bicameralismo) e
adesso, nell’ultima idea del segretario PD l’attacco (in perfetto stile Grillo)
all’articolo 67. Una
sinistra adagiata su queste coordinate apparentemente incapace di mettere in
moto un meccanismo di ricostruzione di soggettività per la cui ipotesi stanno
invece riaprendosi spazi (molto semplicemente basti pensare alla questione del
blocco dei licenziamenti).
Una
ricostruzione di soggettività a sinistra (fatta salva la necessità di utilizzo
razionale degli strumenti di innovazione tecnologica) per la quale, senza voler
sprecare eccessi di ottimismo, esistono comunque evidenti condizioni sociali
rispetto ai nostri sempre presenti soggetti di tradizionale riferimento : lotta
per la pace (atlantismo rampante, neo-bipolarismo, voglia di guerra) tutela del
lavoro dipendente nel quadro generale di intensificazione dello sfruttamento e
di allargamento complessivo delle disuguaglianze in un quadro di nuova lettura
delle fratture sociali e delle prospettive di integrazione (compresele fratture riguardanti le urgenze
ambientali) e ricerca di eguaglianza in una politica di welfare
universalistico. Socialdemocrazia
keynesiana? Addirittura
ritorno di una sorta di “socialismo d’antan” con accenti mutualistici da
società fabiana? Può darsi, intanto nella sostanza si tratterebbe di cercar di
capire come ci si sia venuti a trovare di fronte alla necessità di recuperare
questo vero e proprio smarrimento di senso che ci ha profondamente colpiti.