Ciò che cade sotto gli occhi, gli accadimenti, le sensazioni o i
sentimenti che l’uomo prova sono letti con il linguaggio del pastore, che, spesso,
attribuisce alla creatura in grembo ciò che lui fa o sente. Quando conia i
verbi medio-passivi, i deponenti o i verbi in eo/έω, dice ciò che
fa o ciò che avviene in lui, quando si manifestano alcuni processi formativi. Quando
i latini coniarono interpretorinterpretaris: interpreto, spiego,
comprendo, traduco non utilizzarono radici (la radice è,
tuttalpiù, tutto il simbolo verbale), ma una perifrasi resa con i simboli
alfabetici, che si può tradurre così: per me pastore (in quanto si
tratta di un verbo deponente) i segni in evoluzione (dal primo abbozzo
fino all’incipienza del parto) della gravida sono leggibilie
interpretabili. Da questo verbo dedussero interprete, da interpretato
interpretazione. Interpretare, quindi, rimanda a quella particolare
lettura, che, poi, non solo viene generalizzata, ma si arricchisce di nuovi
significati. Quando i greci coniarono (ermeneuo) ἑρμενεύω: interpreto, traduco, spiego
usarono questa perifrasi: è ciò che consegue da dentro la permanenza nel
grembo, durante i nove mesi, deducendone quanto appena detto. Quindi,
coniarono l’ermeneuta, da cui l’ermeneutica, come capacità/arte d’interpretare. Da (sema
sematos) σῆμασῆματος: segno, che, per i greci, rappresentò, inizialmente, quello del grembo
materno, i greci dedussero semaino: faccio sapere, comprendo,
mostro, manifesto, significo, in quanto quel segno comunicava,
quindi da (semantòs) σημαντός: notato,
distinto, significato fu ricavato (semantikòs) σημαντικός: significativo, poi con semantica indicarono la
capacità di leggere e interpretare i simboli. Sempre da sema dedussero
σημεῖον: indizio,
segno critico, prova, da cui σημειόω: esamino, faccio una diagnosi, poi: σημειωτικός: osservante i segni, diagnostica. Oggi con semeiotica s’intende
lo studio dei segni per pervenire ad una diagnosi. La stessa cosa fecero i latini
con signum: segno, che corrisponde al sema dei greci, da
cui dedussero tanti lemmi e, in particolare, significo.
Così, quando
il pastore deve definire chi è libero, dice che è l’essere in formazione,
che, dopo inenarrabili vicissitudini e dopo impari e aspre battaglie (il
travaglio), riesce a conquistare la libertà, nascendo. I latini ebbero il culto
di Liber, che si manifestava con le Liberalia, nel mese di marzo, durante le
quali il giovinetto indossava la toga virile ed esaltava la capacità
fecondativa, eccedendo nei piaceri del vino. Tale libertà veniva intesa come
rottura di ogni freno inibitorio. Inoltre, i latini definirono i figli liberi
liberorum, proprio perché il concetto di figlio si deduce da chi è nato.
Anche i greci avevano definito con (eleutheros) ἐλεύθερος la creatura cresciuta al massimo, che vince la
battaglia del travaglio, venendo alla luce. Quando il
pastore greco parla di tornare, conia il verbo (trepo/trapo) τρέπω/τράπω: volgo, torco, per indicare che la
creatura, dopo essersi legata alla madre, torna verso il mondo di
provenienza, per cui il pastore latino disse che quella persona è τρέπida, è trepidante (in quanto non vede l’ora di venire alla luce),
mentre altri, battaglieri, pensarono a chi è intrepido. Poi dalla radice
τραπ furono dedotti τραπetum (quando
giro, rimanendo nello stesso ambito), trappola (la creatura è in
trappola), traffico (in chi va e chi viene, c’è il traffico). In altri
termini, il traffico è rappresentato dal periodo di fertilità della femmina: le
ripetute inseminazioni e le numerose nascite anche plurigemellari.
Quando si pensò a un ritorno, in greco νόστος, si usò questa perifrasi: si riscontra quando la creatura legata alla
madre tende per nascere. Quando, in epoca più recente, coniarono
nostalgia, molto probabilmente, non intesero parlare di dolore del
ritorno, ma che quel ritorno era causato dal desiderio struggente di
tornare al luogo di provenienza, per cui Dante interpretò con tenerezza velata
di malinconia questo sentimento: “Eragià l’ora che volge il desio/ ai
navicanti e ‘ntenerisce il core/ lo dì c’han detto ai dolci amici addio;/
e che lo novo peregrin d’amore punge, / se ode squilla di lontano/ che
paia il giorno pianger che si more;” ecc. Il pastore
greco aveva coniato il verbo medio-passivo (edomai) ἥδομαι: mi
rallegro, mi compiaccio, godo ad indicare il suo stato
d’animo in occasione della nascita di un figlio (il δè da tradurre
qui: mancare/nascere). Poida questo verbo, meglio dentro il
concetto di nascita dedusse (edonè) ἡδονή: piacere, diletto, godimento, voluttà,
ad indicare il piacere fisico, quindi edonico, mentre altri coniarono
l’astratto edonismo. I latini, da spero,
coniarono l’aggettivo prosperus, nel senso di favorevole/ propizio
e di ciò che arreca benessere, a seguito di questo ragionamento: è
ciò che consegue (pro) dal fare il mancare (che è la formazione
della creatura in grembo per poi nascere) a seguito del legare
(espressione con cui avevano definito spes/la speranza: come attesa
dell’essere in formazione). Quindi, le nascite determinano prosperità.
I greci per
definire il ricco usarono la metafora del grembo. Si avvalsero di (o
echon) ό ἔχων, che si traduce: colui che ha. Con questa perifrasi, in realtà,
dissero: colei che ha la creatura in grembo, dove la creatura non solo è
un possesso, ma rappresenta anche la capacità di far crescere dal nulla i beni,
oltre al fatto che la creatura ha quanto le necessita e dà quanto necessita. Inoltre,
dal verbo πίμπλημι: riempio (il grembo) dedussero gli aggettivi
che indicano ricco: πλούσιοςe πλουτῶν, da cui plutocrate
e plutocrazia. Gli italici
dedussero ricco da ό ἔχων. Anche i latini usarono la metafora del grembo
per indicare il dives divitis o locuples locupletis. Il dives è
colui che dal nulla, faticando, riesce a far crescere i suoi averi, realizzando,
nell’accumulo, la creatura; il locupletes indica colui che ha raggiunto
la grandezza massima del grembo: ha tutto in modo abbondante, è ben fornito, è
lo straricco. Il pastore
greco per indicare la dura fatica del vivere coniò il verbo (penomai) πένομαι: lavoro penosamente, mi affatico, sono indigente, che
è la metafora della fatica per la realizzazione della creatura. Da penomai
fu dedotto (penes) πένης: povero,
misero, indigente, da cui i latini ricavarono penuria. Da penomai
fu dedotto il deverbale (penthos) πένθος: sofferenza,
sventura, sciagura, da cui la parola dialettale pintura,
ad indicare un malanno come la broncopolmonite. Da (poinao) ποίναω: vendico, punisco fu dedotta (poiné) ποινή: ammenda, pena, che i latini ricalcarono in poena.
Come espansione logica di poena si ebbero poenio/punio: punisco
e me poenitet, da cui pentimento e penitenza. Pauper dei latini fu
l’omologo di πένης e rappresentò la creatura in grembo bisognosa di
tutto. Inoltre, quella stessa creatura, definita povera e in pena, fu anche
detta (makar) μακάρ: beata, da cui gli italici
dedussero magari, in quanto, legata alla madre, ha tutto quello di cui
necessita. Con δόραδόρατοςe con donum greci e latini indicarono il
nascere come frutto delle fatiche. Inoltre, gli italici da dono dedussero
perdono, attraverso questo concetto macchinoso: se il grembo, che lega
al buio la creatura, è il luogo della pena, del pagare il fio (in altro
contesto rappresenta gli inferi), la nascita può rappresentare la
liberazione e, quindi, il perdono.
Il pastore latino
disse che era lieto (laetus) quando si accertava dell’incipiente
gravidanza: dal tendere il flusso gravidicoè avvenuto il legame tra
madre e creatura. L’omologo di lieto in greco è (ilaròs) ἱλαρός, che
corrisponde a hilarus dei latini. Da sottolineare che sullo iota c’è lo
spirito aspro, che, in greco, forse, sostituiva la lettera χ (il passare),
resa dai latini con la muta h: hilarus. Inoltre, ἱλαρός fu dedotto
da ἵλημι: sono favorevole, sono propizio, ad indicare lo stato
d’animo di una persona, cui le cose giravano bene: la moglie era incinta ed
aveva superato le prime difficoltà del concepimento. Dal verbo con-tineo,
meglio dal participio passato contentus: che ha avuto dentro di sé,
che ha portato dentro di sé si dedusse l’aggettivo contentus: che
si appaga di, per cui Dante poté dire: state contenti, umana
gente al quia, che, se ecc... Se è bello contento,
ancora più bello è accontentarsi di quello che si ha. Inoltre,
dalla radice ten di ten-eo, che rimanda al tenere in grembo,
fu dedotto l’aggettivo ten-ax tenacis, ad indicare lo sforzo
continuo per realizzare e conseguire l’oggetto del desiderio. Inoltre, da ten
fu dedotta tenaglia, che, rimandando alla stretta durante il
travaglio, indicò la funzione di questo attrezzo. I greci con χαίρωindicarono
cosa provavano durante i nove mesi dell’attesa: mi rallegro, gioisco,
sono lieto, da cui dedussero i deverbali (chara) χαρά e (charma chàrmatos) χάρμαχάρματος: gioia, letizia, gaudio, che è quanto si prova per
l’annuncio della gravidanza. I latini attribuirono a gaudeo e, quindi, a
gaudium la gioia intensa, pervasiva e, quasi, contagiosa per la nascita
del figlio. Si sottolinea, inoltre, che da charma fu dedotta la parola
latina carmen carminis e, in italiano, carme.
Infine, i greci con (eudaimon) εὐδαίμων, i latini con felix felicis dissero che è felice
il bambino che nasce, perché ha raggiunto la meta agognata, dopo
inenarrabili vicissitudini e traversie. Pertanto, la felicità consiste nell’attimo
di gioia intensa, dopo aver realizzato, a prezzo di fatiche, patimenti, rischi
e pericoli, soprattutto quelli finali del parto, l’oggetto dei propri desideri.
Infatti, i latini definirono la felicità ciò che prova il felice.