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sabato 11 settembre 2021

PAROLE E LINGUA
di Nicola Santagada


Libero e felice.


Ciò che cade sotto gli occhi, gli accadimenti, le sensazioni o i sentimenti che l’uomo prova sono letti con il linguaggio del pastore, che, spesso, attribuisce alla creatura in grembo ciò che lui fa o sente. Quando conia i verbi medio-passivi, i deponenti o i verbi in eo/έω, dice ciò che fa o ciò che avviene in lui, quando si manifestano alcuni processi formativi. Quando i latini coniarono interpretor interpretaris: interpreto, spiego, comprendo, traduco non utilizzarono radici (la radice è, tuttalpiù, tutto il simbolo verbale), ma una perifrasi resa con i simboli alfabetici, che si può tradurre così: per me pastore (in quanto si tratta di un verbo deponente) i segni in evoluzione (dal primo abbozzo fino all’incipienza del parto) della gravida sono leggibili e interpretabili. Da questo verbo dedussero interprete, da interpretato interpretazione. Interpretare, quindi, rimanda a quella particolare lettura, che, poi, non solo viene generalizzata, ma si arricchisce di nuovi significati. Quando i greci coniarono (ermeneuo) ρμενεύω: interpreto, traduco, spiego usarono questa perifrasi: è ciò che consegue da dentro la permanenza nel grembo, durante i nove mesi, deducendone quanto appena detto. Quindi, coniarono l’ermeneuta, da cui l’ermeneutica, come capacità/arte d’interpretare.
Da (sema sematos) σμα σματος: segno, che, per i greci, rappresentò, inizialmente, quello del grembo materno, i greci dedussero semaino: faccio sapere, comprendo, mostro, manifesto, significo, in quanto quel segno comunicava, quindi da (semantòs) σημαντός: notato, distinto, significato fu ricavato (semantikòs) σημαντικός: significativo, poi con semantica indicarono la capacità di leggere e interpretare i simboli. Sempre da sema dedussero σημεον: indizio, segno critico, prova, da cui σημειόω: esamino, faccio una diagnosi, poi: σημειωτικός: osservante i segni, diagnostica. Oggi con semeiotica s’intende lo studio dei segni per pervenire ad una diagnosi. La stessa cosa fecero i latini con signum: segno, che corrisponde al sema dei greci, da cui dedussero tanti lemmi e, in particolare, significo.



Così, quando il pastore deve definire chi è libero, dice che è l’essere in formazione, che, dopo inenarrabili vicissitudini e dopo impari e aspre battaglie (il travaglio), riesce a conquistare la libertà, nascendo. I latini ebbero il culto di Liber, che si manifestava con le Liberalia, nel mese di marzo, durante le quali il giovinetto indossava la toga virile ed esaltava la capacità fecondativa, eccedendo nei piaceri del vino. Tale libertà veniva intesa come rottura di ogni freno inibitorio. Inoltre, i latini definirono i figli liberi liberorum, proprio perché il concetto di figlio si deduce da chi è nato. Anche i greci avevano definito con (eleutheros) λεύθερος la creatura cresciuta al massimo, che vince la battaglia del travaglio, venendo alla luce.
Quando il pastore greco parla di tornare, conia il verbo (trepo/trapo) τρέπω/τράπω: volgo, torco, per indicare che la creatura, dopo essersi legata alla madre, torna verso il mondo di provenienza, per cui il pastore latino disse che quella persona è τρέπida, è trepidante (in quanto non vede l’ora di venire alla luce), mentre altri, battaglieri, pensarono a chi è intrepido. Poi dalla radice τραπ furono dedotti τραπetum (quando giro, rimanendo nello stesso ambito), trappola (la creatura è in trappola), traffico (in chi va e chi viene, c’è il traffico). In altri termini, il traffico è rappresentato dal periodo di fertilità della femmina: le ripetute inseminazioni e le numerose nascite anche plurigemellari.



Quando si pensò a un ritorno, in greco νόστος, si usò questa perifrasi: si riscontra quando la creatura legata alla madre tende per nascere. Quando, in epoca più recente, coniarono nostalgia, molto probabilmente, non intesero parlare di dolore del ritorno, ma che quel ritorno era causato dal desiderio struggente di tornare al luogo di provenienza, per cui Dante interpretò con tenerezza velata di malinconia questo sentimento: “Era già l’ora che volge il desio/ ai navicanti e ‘ntenerisce il core/ lo dì c’han detto ai dolci amici addio;/ e che lo novo peregrin d’amore punge, / se ode squilla di lontano/ che paia il giorno pianger che si more;” ecc.
Il pastore greco aveva coniato il verbo medio-passivo (edomai) δομαι: mi rallegro, mi compiaccio, godo ad indicare il suo stato d’animo in occasione della nascita di un figlio (il δ è da tradurre qui: mancare/nascere). Poi da questo verbo, meglio dentro il concetto di nascita dedusse (edonè) δονή: piacere, diletto, godimento, voluttà, ad indicare il piacere fisico, quindi edonico, mentre altri coniarono l’astratto edonismo.
I latini, da spero, coniarono l’aggettivo prosperus, nel senso di favorevole/ propizio e di ciò che arreca benessere, a seguito di questo ragionamento: è ciò che consegue (pro) dal fare il mancare (che è la formazione della creatura in grembo per poi nascere) a seguito del legare (espressione con cui avevano definito spes/la speranza: come attesa dell’essere in formazione). Quindi, le nascite determinano prosperità.




I greci per definire il ricco usarono la metafora del grembo. Si avvalsero di (o echon) ό χων, che si traduce: colui che ha. Con questa perifrasi, in realtà, dissero: colei che ha la creatura in grembo, dove la creatura non solo è un possesso, ma rappresenta anche la capacità di far crescere dal nulla i beni, oltre al fatto che la creatura ha quanto le necessita e dà quanto necessita. Inoltre, dal verbo πίμπλημι: riempio (il grembo) dedussero gli aggettivi che indicano ricco: πλούσιος e πλουτν, da cui plutocrate e plutocrazia.
Gli italici dedussero ricco da ό χων.
 Anche i latini usarono la metafora del grembo per indicare il dives divitis o locuples locupletis. Il dives è colui che dal nulla, faticando, riesce a far crescere i suoi averi, realizzando, nell’accumulo, la creatura; il locupletes indica colui che ha raggiunto la grandezza massima del grembo: ha tutto in modo abbondante, è ben fornito, è lo straricco.
Il pastore greco per indicare la dura fatica del vivere coniò il verbo (penomai) πένομαι: lavoro penosamente, mi affatico, sono indigente, che è la metafora della fatica per la realizzazione della creatura. Da penomai fu dedotto (penes) πένης: povero, misero, indigente, da cui i latini ricavarono penuria. Da penomai fu dedotto il deverbale (penthos) πένθος: sofferenza, sventura, sciagura, da cui la parola dialettale pintura, ad indicare un malanno come la broncopolmonite. Da (poinao) ποίναω: vendico, punisco fu dedotta (poiné) ποινή: ammenda, pena, che i latini ricalcarono in poena. Come espansione logica di poena si ebbero poenio/punio: punisco e me poenitet, da cui pentimento e penitenza.
Pauper dei latini fu l’omologo di πένης e rappresentò la creatura in grembo bisognosa di tutto. Inoltre, quella stessa creatura, definita povera e in pena, fu anche detta (makar) μακάρ: beata, da cui gli italici dedussero magari, in quanto, legata alla madre, ha tutto quello di cui necessita.
Con δόρα δόρατος e con donum greci e latini indicarono il nascere come frutto delle fatiche. Inoltre, gli italici da dono dedussero perdono, attraverso questo concetto macchinoso: se il grembo, che lega al buio la creatura, è il luogo della pena, del pagare il fio (in altro contesto rappresenta gli inferi), la nascita può rappresentare la liberazione e, quindi, il perdono.  



Il pastore latino disse che era lieto (laetus) quando si accertava dell’incipiente gravidanza: dal tendere il flusso gravidico è avvenuto il legame tra madre e creatura. L’omologo di lieto in greco è (ilaròs) λαρός, che corrisponde a hilarus dei latini. Da sottolineare che sullo iota c’è lo spirito aspro, che, in greco, forse, sostituiva la lettera χ (il passare), resa dai latini con la muta h: hilarus. Inoltre, λαρός fu dedotto da λημι: sono favorevole, sono propizio, ad indicare lo stato d’animo di una persona, cui le cose giravano bene: la moglie era incinta ed aveva superato le prime difficoltà del concepimento. Dal verbo con-tineo, meglio dal participio passato contentus: che ha avuto dentro di sé, che ha portato dentro di sé si dedusse l’aggettivo contentus: che si appaga di, per cui Dante poté dire: state contenti, umana gente al quia, che, se ecc... Se è bello contento, ancora più bello è accontentarsi di quello che si ha.
Inoltre, dalla radice ten di ten-eo, che rimanda al tenere in grembo, fu dedotto l’aggettivo ten-ax tenacis, ad indicare lo sforzo continuo per realizzare e conseguire l’oggetto del desiderio. Inoltre, da ten fu dedotta tenaglia, che, rimandando alla stretta durante il travaglio, indicò la funzione di questo attrezzo.
I greci con χαίρω indicarono cosa provavano durante i nove mesi dell’attesa: mi rallegro, gioisco, sono lieto, da cui dedussero i deverbali (chara) χαρά e (charma chàrmatos) χάρμα χάρματος: gioia, letizia, gaudio, che è quanto si prova per l’annuncio della gravidanza. I latini attribuirono a gaudeo e, quindi, a gaudium la gioia intensa, pervasiva e, quasi, contagiosa per la nascita del figlio. Si sottolinea, inoltre, che da charma fu dedotta la parola latina carmen carminis e, in italiano, carme.



Infine, i greci con (eudaimon) εδαίμων
, i latini con felix felicis dissero che è felice il bambino che nasce, perché ha raggiunto la meta agognata, dopo inenarrabili vicissitudini e traversie. Pertanto, la felicità consiste nell’attimo di gioia intensa, dopo aver realizzato, a prezzo di fatiche, patimenti, rischi e pericoli, soprattutto quelli finali del parto, l’oggetto dei propri desideri. Infatti, i latini definirono la felicità ciò che prova il felice.