GIUSTIZIA E RIFORMEdi Guido Salvini*
Contributo del dr Guido
Salvini alla discussione della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati
in merito all’ordinamento penitenziario e all’ergastolo ostativo. 29 settembre 2021Ringrazio il Presidente e tutti i componenti della Commissione per
avermi invitato a fornire il mio contributo ad un tema oggi tanto discusso.Faccio subito presente che
ho svolto per molti anni la funzione di Giudice Istruttore e poi di Giudice per
le Indagini Preliminari sempre al Tribunale di Milano e in tali ruoli mi sono
occupato soprattutto di terrorismo di destra e di sinistra ma anche dell’attività
della ’ndrangheta e di altre associazioni che si sono radicate in Lombardia.Per l’esperienza che ho
avuto in materia di terrorismo prendo spunto dal fenomeno della dissociazione che
ha riguardato le organizzazioni eversive e che può essere utilizzato, con le
differenze di cui dirò, anche per mettere a fuoco il problema dell’articolo 4 bis
dell’Ordinamento penitenziario e quindi del trattamento dei detenuti condannati
all'ergastolo o a lunghe pene detentive. Le organizzazioni terroristiche che
hanno operato in Italia per un lungo periodo, dall'inizio degli anni ’70 sino
ad esaurirsi solo negli anni ’80, avevano un progetto politico pur sorretto da
un fanatismo malato, un progetto che se non era in grado di progredire era
destinato, anche se sono stati necessari molti anni, a spegnersi scontrandosi
con l’oggettiva impossibilità di raggiungere il potere. La consapevolezza dell’impossibilità
di realizzare il proprio progetto ha provocato in numerosi militanti la caduta
completa della motivazione anche psicologica e da qui sono nati i fenomeni imponenti del pentimento e della
dissociazione che hanno portato allo smantellamento e in alcuni casi, come per
Prima linea, all'autoscioglimento delle organizzazioni terroristiche.
Non erano delitti, per
quanto gravissimi, commessi a fini di potere locale o di lucro e, venuto meno
il progetto, le organizzazioni armate si sono dissolte.La legge sui pentiti del
1982 e quella sulla dissociazione del 1984 hanno colpito dall'interno il
fenomeno della lotta armata che aveva già superato la curva del suo massimo
possibile sviluppo e aveva iniziato un percorso discendente.
I militanti che con la legge
del 1984 si sono dissociati anche senza collaborare non erano più pericoloso per
la semplice ragione che intorno a loro e sul territorio le condizioni per
continuare la lotta armata contro lo Stato non vi erano più. È significativo,
del resto, che tra di essi, una volta scarcerati vi sia stato un bassissimo
tasso di recidiva. Oggi potremmo dire che se anche i 20 o 30 “irriducibili” ancora
in carcere fossero scarcerati non succederebbe niente perché le organizzazioni
armate, che pur hanno operato per 25 anni, hanno cessato di esistere più e non
sono più ricostituibili. Completamente diversa è la realtà delle associazioni
mafiose che nonostante gli arresti di capi e gregari con le grandi
operazioni condotte anche a Milano a partire dall’inizio degli anni ’90*,
seguite da un gran numero di condanne all’ergastolo o a pene molto pesanti, continuano
a riprodursi sul territorio lombardo, come in altri, in forma endemica. Queste
associazioni si rigenerano, non scompaiono mai del tutto. Del resto non
scompaiono certo le famiglie da cui originano, sempre ben presenti sul
territorio. Queste considerazioni inducono con certezza ad affermare che il possibile
distacco degli affiliati dalle associazioni criminali come la ’ndrangheta è una
cosa ben diversa da quella dalle organizzazioni terroristiche e diversamente va
trattata. Voglio ricordare un piccolo episodio avvenuto non molto tempo fa nell’hinterland
milanese utile a far comprendere come anche dopo molti anni la pericolosità
possa permanere, silente e simbolica. Nell’estate 2020 era stato posto in
regime di libertà vigilata, dopo 26 anni di carcere, nella sua vecchia
palazzina di Buccinasco, Rocco Papalia, uno dei più importanti capi della ’ndrangheta
nel Nord. Nel frattempo una parte della palazzina era stata confiscata ed
affidata ad una associazione antimafia. C’era tuttavia al confine tra i due
“territori” un piccolo cortile, pochi metri quadrati di cemento utili appena
per parcheggiarvi le biciclette. Buccinasco, ricordiamolo, è una
cittadina dell’hinterland milanese dove, come ad Assago, Corsico, Trezzano sul
Naviglio, hanno sempre comandato alcune grandi famiglie criminali (i Barbaro, i
Bruzzaniti, i Flachi, i Papalia, solo per citarne alcune) tanto che tali cittadine
sono state definite le “Platì del Nord”. Appena ritornato a casa Rocco
Papalia ha rivendicato come di suo uso esclusivo quel piccolo cortile giungendo
a intraprendere una causa civile contro il Sindaco e ad affermare pubblicamente
che aveva fatto che lui che l’amministrazione del comune di Buccinasco,
costruendo case (con quali modalità sotto il profilo del reimpiego del denaro e
del rispetto della concorrenza possiamo immaginarlo) per cui era semmai il
Sindaco e non lui che se ne doveva andare. Ha dichiarato che non doveva
chiedere scusa al Comune e ai parenti delle vittime perché a Buccinasco “La
mafia non esiste”. Questi sono indici di pericolosità che non è venuta
meno.
Rocco Papalia, se
non altro per ragioni di età, certamente non avrebbe più commesso reati in proprio.
È uno di quei capi che si limitano al più a dire: “Ho pagato” ma questo
non elimina il fatto che egli, come altri, continui a godere nel suo territorio
dove era tornato di manifestazioni di rispetto e di ammirazione. Una sfida di
questo genere significa che Rocco Papalia, pur dopo molti anni di carcere,
sapeva di aver mantenuto sul territorio ancora buona parte del suo potere.
I capi più importanti delle associazioni criminali, del resto, anche se
detenuti per lungo tempo, continuano a rappresentare un simbolo e a costituire
un modello per figli, nipoti e nuovi affiliati che via via si aggiungono sul
territorio riempiendo i vuoti provocati dagli arresti. Continuano così a dare
un contributo alla vita dell’associazione criminale, la rafforzano con la loro
sola presenza. In fondo Totò Riina non è stato scarcerato, benché
malato, per le stesse ragioni: non perché in proprio potesse commettere nuovi
reati. Se fosse riuscito a tornare vivo nel suo territorio, comunque avrebbe
conseguito una vittoria simbolica, la sua casa sarebbe divenuta meta di omaggi
e pellegrinaggi deferenti. Questa è la ragione profonda, bisogna avere il
coraggio di dirlo, al di là delle faticose motivazioni dei provvedimenti del
Tribunale di Sorveglianza che hanno negato la scarcerazione. Bisogna quindi
intervenire in questo spazio ristretto rispettando nella nuova normativa che
deve essere approvata le indicazioni delle Corti europee, della Corte
Costituzionale e della Corte di Cassazione ma nel contempo evitando di aprire
varchi pericolosi che possono favorire la ripresa delle attività criminose.
La Corte Costituzionale, nella
sentenza n. 253 del 2019 ha scritto che non è solo la collaborazione ma anche qualche
forma, obiettivamente apprezzabile, di netta recisione dei contatti con il
mondo criminale in cui si è vissuti a poter consentire l’applicazione di
benefici penitenziari. Le proposte di legge che riguardano l’art. 4 bis
dell’Ordinamento penitenziario elencano una serie di elementi, non sempre facilmente
verificabili, possibili indici di questo distacco. Certo non basta il buon
comportamento mantenuto all'interno del carcere, proprio i capi delle
associazioni hanno facilità e sono esperti nel presentarsi come “detenuti
modello” né basta la partecipazione a qualche attività di rieducazione
all’interno dell’Istituto. È richiesto di più, e le diverse proposte convergono
pur con qualche differenza sugli stessi indici che possono provare il
superamento della pericolosità sociale. Ad esempio la prova dell’assenza
di pericoli di ripresa di collegamenti
con la criminalità desumibile anche dall’ammissione delle proprie
responsabilità anche senza fare il nome di complici e desumibile anche dal
perdurare o meno dell’operatività del gruppo criminale cui apparteneva il
condannato, l’idoneità dei luoghi ove questi è destinato a godere del
beneficio, lo spostamento del nucleo familiare in un luogo diverso da quello
ove sono avvenuti i reati, le disponibilità economiche del detenuto ed il
tenore di vita anche della sua famiglia, tali da non far sospettare il possesso
attuale di beni provento dei reati e
sottratti alla confisca, l’impegno adoperato per l'adempimento delle
obbligazioni civili derivanti dai reati. Ma a mio avviso serve soprattutto un
concetto di chiusura che colga l’essenza del problema, funzioni di elemento di
unificazione di tutti questi indicatori. Si tratta cioè di capire se dai comportamenti
positivi che sono considerati indici di cessata pericolosità nelle varie
proposte di legge si possa desumere, nell’insieme, una definitiva ripulsa dei
reati commessi e del contesto criminoso in cui sono maturati, con comportamenti
attivi e irreversibili, rispetto alle precedenti forme e stile di vita. Mi
riferisco, come suggerito anche in alcune proposte, a comportamenti pur non
collaborativi che dimostrano tuttavia il distacco interno e definitivo del
condannato dalle associazioni criminali come le esplicite prese di posizione
pubbliche e i giudizi critici sul suo passato incompatibili con la figura di un
soggetto che ambisca ad essere imitato e seguito nella sua scelta di vita. Si
tratta di avere certezza che per il condannato la vita all'interno di un gruppo
criminale non è semplicemente un’esperienza conclusa, magari per via dell’età,
ma una scelta da non imitare. In pratica pretendere comportamenti che rendono
il soggetto, anche di alta caratura nelle organizzazioni criminali, non più un
personaggio simbolo da imitare ma un personaggio negativo che alla fine
ha riconosciuto l'improponibilità di uno stile di vita e quindi non può più
fungere da modello da simbolo per coloro che operano o si accingono ad entrare
nelle organizzazioni criminali.
Bisogna trovare nella norma
un’espressione che spieghi il nuovo possibile stato e che sia idonea a definire
come possano concretizzarsi comportamenti che non sono collaborazione ma
cessazione di utilità nel senso di cessazione di forza e capacità di
attrazione e di coesione di un soggetto rispetto al mondo e al territorio
criminoso in cui ha operato in passato e su cui poteva avere ancora influenza. Il
concetto chiave che bisogna riuscire ad inserire, anche solo con una frase, deve
rappresentare sul piano tecnico questa realtà: “Ho pagato e non commetterò
più reati” ma non solo, serve anche “non fate come me, non seguite il
mio esempio”. Certo non è
facile congegnare una norma di questo tipo perché si rischia di passare al
terreno della abiura ma per me una indicazione di chiusura in questi termini è
essenziale. Possono essere di grande utilità in questa valutazione, i meccanismi
della giustizia riparativa che la riforma Cartabia ha inteso rafforzare e che
possono verificare, anche con l’opera di mediatori e stabilendo un rapporto con
le vittime, già nella fase carceraria, la serietà del ravvedimento. Per quanto
concerne poi gli aspetti procedurali contenuti nelle varie proposte di legge ho
qualche perplessità sulla concentrazione delle istanze presso il Tribunale di
Sorveglianza di Roma sia per ragioni di organico, che dovrebbe essere
notevolmente aumentato, sia perché un unico Tribunale centralizzato potrebbe essere
meno a conoscenza delle singole realtà territoriali che sono il cuore pulsante
del potere mafioso. Sono invece del tutto d'accordo che la competenza per le
istanze di benefici penitenziari sia in questi casi sempre affidata al
Tribunale di Sorveglianza inteso come organo collegiale e ciò in ragione della
delicatezza delle decisioni che devono essere assunte. Mi sembrano anche
importanti le indicazioni contenute nelle proposte sulla necessità non tanto di
coinvolgere il Comitato Provinciale per la sicurezza, che si occupa più che
altro di scorte e di ordine pubblico, ma delle forze di Polizia giudiziaria specializzate
che hanno condotto le indagini e che conoscono il territorio nonché delle
Direzioni Distrettuali Antimafia e della Direzione Nazionale antimafia che devono
esprimere pareri che certamente non sono vincolanti ma possono essere
illuminanti**. Con la facoltà anche di partecipare alle udienze dinanzi al
Tribunale di Sorveglianza da parte dei Pubblici ministeri in servizio presso il
distretto ove è stata emessa la sentenza*** che più di ogni altro dispongono di
elementi di conoscenza sul richiedente, sui delitti commessi e sul contesto
criminale in cui ha operato. Spero, per concludere che in questa delicata
materia sia possibile percorrere una strada razionale, senza proclami e
astratte posizioni di principio né da parte dell’uno, gli ultragarantisti né
dall’altro, i giustizialisti, degli schieramenti “giudiziari”. *Ufficio
GIP del Tribunale di Milano
Note*) Ad esempio le operazioni Nord-sud e Wall Street,
con centinaia di arresti,
che tuttavia non hanno certo posto fine
all'infiltrazione e alla presenza delle cosche criminali in Lombardia. Basti
pensare che nel 2010 l'indagine cd Crimine- Infinito ha portato
all'individuazione
di una quindicina di “Locali” della 'ndrangheta
che si erano radicate nell'hinterland milanese, rimanendo in stretto rapporto
con la casa madre calabrese, e che i nomi che compaiono in tale indagine sono
spesso quelli delle stesse famiglie già colpite dalle indagini di vent'anni
prima. **)
pareri che devono essere resi entro 30 giorni dalla richiesta, termine tuttavia
prorogabile in ragione della complessità degli accertamenti, come previsto
nella proposta
degli onorevoli Bonafede e Ascari. ***) e
dei sostituti della Procura Nazionale antimafia e antiterrorismo.
Per l’esperienza che ho
avuto in materia di terrorismo prendo spunto dal fenomeno della dissociazione che
ha riguardato le organizzazioni eversive e che può essere utilizzato, con le
differenze di cui dirò, anche per mettere a fuoco il problema dell’articolo 4 bis
dell’Ordinamento penitenziario e quindi del trattamento dei detenuti condannati
all'ergastolo o a lunghe pene detentive. Le organizzazioni terroristiche che
hanno operato in Italia per un lungo periodo, dall'inizio degli anni ’70 sino
ad esaurirsi solo negli anni ’80, avevano un progetto politico pur sorretto da
un fanatismo malato, un progetto che se non era in grado di progredire era
destinato, anche se sono stati necessari molti anni, a spegnersi scontrandosi
con l’oggettiva impossibilità di raggiungere il potere. La consapevolezza dell’impossibilità
di realizzare il proprio progetto ha provocato in numerosi militanti la caduta
completa della motivazione anche psicologica e da qui sono nati i fenomeni imponenti del pentimento e della
dissociazione che hanno portato allo smantellamento e in alcuni casi, come per
Prima linea, all'autoscioglimento delle organizzazioni terroristiche.
Bisogna trovare nella norma
un’espressione che spieghi il nuovo possibile stato e che sia idonea a definire
come possano concretizzarsi comportamenti che non sono collaborazione ma
cessazione di utilità nel senso di cessazione di forza e capacità di
attrazione e di coesione di un soggetto rispetto al mondo e al territorio
criminoso in cui ha operato in passato e su cui poteva avere ancora influenza. Il
concetto chiave che bisogna riuscire ad inserire, anche solo con una frase, deve
rappresentare sul piano tecnico questa realtà: “Ho pagato e non commetterò
più reati” ma non solo, serve anche “non fate come me, non seguite il
mio esempio”.