Nel
nebbione, Parma aveva smesso di urlare. Sussurrava
come le vecchie in chiesa. Valerio Varesi Quel tempo da studente, ormai alle spalle, fa capolino qua e là nella
memoria, gioca e trama alle spalle il gaglioffo, folletto agile e pestifero che
conduce a rivangare trafelati giorni (quando non mansueti, perché talvolta
accadeva pure), passati di corsa a perdifiato lungo i corridoi alti e solenni,
interminabili per una matricola universitaria. Turbini di emozioni vorticavano
in testa allora, ora molto meno: lontano un poco dai pensieri dell'oggi e
sogguardando in foto le inferriate alle finestre dell'aula magna, un sussulto,
uno strappo a questo presente infiacchito, lo ammetto, è giunto spontaneo quasi
a coronare l'ultima carezza dell'occhio sull'imponente edificio insistente
sulla stretta strada (qui, a Parma, lo dico a uso del turista, le vie sono
strade, i quartieri borghi, un vezzo da capitale che fu, nobildonna decaduta ma
pur sempre desiderosa di distinguersi per quel che ancora può valere).
Foto di
rito, dunque, e sia, a tenere ancora stretto un cordone ombelicale con la
giovinezza, non dispiegata allora pienamente nella città che pure amavo e amo,
quasi come un urlo rimasto strozzato in gola sì che di gioia piena non si potrà
mai parlare, ma giusto scriverne come a depositare, più protetti, il proprio Io
abitante territori di realtà e finzione. Quasi, questa è la verità, a tenersi
vicine e care, nel cuore, nella mente (vai a capire dove sarà mai ciò che
sento, un rigurgito che va e viene, talvolta lancinante talaltra più smorzato)
speranze sparse a più mani su e giù dagli sbrecciati scaloni dell'antico
palazzone, mentre il destino già s'ingegnava a cambiare le carte in tavola a
me, pessimo giocatore da sempre.
Così, la memoria matrigna, in fondo, coccola
le lagnanze odierne, e ci si crogiola ancora un poco, ferendosi, nel rammentare
ciò che è ormai macerato alle spalle, e come non fece Orfeo s'ha da guardare
avanti o perire nella sofferenza dell'anima.