TUROLDO. IL DIRITTO A DISPERARE di
Claudio Fantozzi*
Quante
parole sono state dette in questi mesi di pandemia, una vera rassegna dei modi
di reagire a un pericolo incombente. Sono state anche scritte poesie e dotte
disquisizioni. Distaccandomi dalla pressione della cronaca e col pensiero anche
al dopo, ho voluto fare un sorvolo sulla letteratura per trovare puntuali
descrizioni di questa reazione al pericolo in alcuni scrittori e scrittrici da
me amati. Vorrei presentare un testo molto particolare, un testo di David Maria
Turoldo, sacerdote e frate dei Servi di Maria che con l’esempio della sua vita,
leggendo la sua opera, mi è stato di grande aiuto, un po' come è accaduto a Paula
Becker con Rainer Maria Rilke, nella notte. Ho
quasi la sua intera produzione di scritti, compreso un meraviglioso film
autobiografico, diretto dal regista Vito Pandolfi, Gli ultimi, 1963,
sulla sua infanzia di bambino figlio di contadini poverissimi nel paese di
Coderno, nella bassa friulana. Cercavo dunque un testo che affrontasse il tema
che mi son dato, reagire al pericolo, e sapevo bene che un pericolo di cui lui
conosceva beni il volto, era la morte, la paura di morire, perché per tre anni
David ha lottato contro un tumore dolorosissimo al pancreas, che lo ha
consumato fino a farlo diventare pelle ed ossa, lui che era un omone alto due
metri. David
era anche poeta, e anche nell’ultima fase della sua vita, morì nel 1992,
continuò a scrivere, anzi, come diceva lui biblicamente, a cantare, e chiedeva
aiuto a Dio per questo.
Esiste
un libro, Ultime Poesie (1991-1992), Garzanti, in cui questo tema della
morte viene evidenziato, con il suo consueto dialogare con Dio, quasi fosse un
amico di viaggio, un grande amico. In fondo al libro c’è una raccolta, l’ultima
raccolta prima di morire, che si intitola: E con Giobbe, in attesa della
Pasqua. Davanti
all’arrivo imminente della morte, devastato dalla malattia, David non ce l’ha
fatta a volare alto, con l’impeto che caratterizza il suo far versi, e ha
trovato un compagno, per l’ultimo tratto del viaggio della vita, in un
personaggio, il biblico Giobbe, il caduto in rovina nel patrimonio e nel corpo,
che, come dice David, rivendica il diritto alla disperazione. David si identifica
in Giobbe, ma come Giobbe non perde la fede. Giobbe, tra le sue disperazioni,
vide anche la moglie e i tre amici, rivoltarglisi contro, ma Turoldo dice: “Ma
io non sarò il quarto amico a gracchiare teologie inutili intorno a tuo monumento
di cenere”. Turoldo vuole sedersi accanto a Giobbe e patire con lui. Riporto
una parte della raccolta, lo scritto: “Le mie ragioni per Giobbe”, e il corpo
delle sette poesie: parole tremende, in cui Turoldo si fa scudo dell’esperienza
di Giobbe, per farsi delle domande su Dio, visto troppo alto per capire la
miseria della sua malattia, sordo nonostante l’invio del figlio, Gesù: “...il
piccolo dio degli amici non giova…”; troppo alto per essere capito, e con
strani accordi con Satana: “...il sospettato accordo di Lui con l’Altro, del
nero Vagabondo:...”. Si
sente braccato da una attenzione di Dio per la sua malattia che non capisce:
“Perché non smetti di spiarmi e non mi lasci inghiottire la saliva? Scrutatore
dell’uomo che sei?”. E il finale della spossatezza: se mi chiedi se capisco
qualcosa delle tue ragioni, sia davanti al perché e come facesti il mondo, sia
perché io devo soffrire per morire: “No, non c’ero, mio Dio, non so nulla...
Anch’io farò silenzio e in cenere e cilicio attenderò la mia Pasqua”. David
si fa come Gesù, senza capire niente. Riporto l’estratto che David fa dal libro
“La ribellione” di Joseph Roth, con la terribile invettiva del personaggio
Andreas contro Dio: “(...) Milioni di esseri come me metti al mondo, Dio, nella
Tua feconda insensatezza, ed essi crescono creduli e codardi, e nel tuo nome
sopportano le bastonate...”, ma, premette Turoldo: “Andreas nonostante tutto
non ha ragione”.
W. Blake "Giobbe"
Perché
dal libro di Giobbe? Perché di questo libro antico di millenni, su cui tanto si
è scritto, al quale tuttavia l'umanità riflessiva ritorna come a una fontana di
ribellione e di lacrime, quasi fosse appena sgorgata dalla roccia del nostro
altrettanto vecchio cuore, che vorrebbe farsi insensibile e duro e invece non
finisce mai di piangere? Proprio così. Tale la ragione che mi ha spinto nelle
braccia questo uomo, senza più carne, scheletrite, disegnanti nel vuoto della
notte la danza della sua violenta e totale disperazione. Perché Giobbe, prima
di dire con la parola, parla con il suo silenzio, con la sua faccia non più
umana, con le sue ossa rosicchiate dalla lebbra, con i suoi occhi lucenti per
la febbre che tentano di forare il tempo e il mistero fitto dell'esistenza.
Parla con le sue maledizioni e con il suo rancore!... Ci possono essere dei
tempi per tutte le altre opere umane, per tutti gli altri messaggi; perfino dei
tempi per i capolavori dell'umanità ormai dichiarati necessari come il pane e
l'amore. Ma, non so perché e se per errore, queste opere non sempre riescono a consolarmi
o a redimermi. Non sempre mi riconciliano con me stesso, o con Dio, o con gli
altri. Io sono ritornato a Giobbe, perché non posso vivere senza di lui, perché
sento che il mio tempo, come ogni tempo, è quello di Giobbe; e che, se ciò non
si avverte, è solo per incoscienza o illusione. Io ritorno a lui, perché da lui
ricevo l'unica soluzione possibile della mia vita: il diritto a disperare. È di
Giobbe la Disperazione come categoria della Ragione,
come evento positivo e provvidenziale. E in un certo senso la sua parola è
necessaria come quella di Cristo; la sua è la parola della terra, quella di
Cristo del Cielo; e per fortuna si richiamavano nello spazio dei secoli, come
ora si incrociano e si integrano nella totalità di una medesima rivelazione, all'infuori
della quale non esiste che tenebra. Anzi, mentre non posso confondermi col
Cristo il quale, per quanto uomo, è anche Dio, sento invece l'identità di
Giobbe e la sua storia come l’inevitabile mia storia, che si ripete, giorno per
giorno consumato dalla pena, e dentro questa carne destinata ai vermi,
destinata ad essere cenere, per ricomporsi poi, nella nuova forma, in attesa di
vedere con questi miei occhi il mio Salvatore.
Turoldo allo scrittoio
Assiso
tra canto e canto O
Giobbe, sei la nostra ragione appesa al Legno, voce
del tenebroso Oceano, delle
foreste devastate... Ma
io non sarò il quarto amico a
gracchiare teologie inutili intorno
al tuo monumento di cenere: solo
mi assiderò tra canto e canto a
udire il tuo ululo franare
nell'orribile Silenzio. *attore
e drammaturgo