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lunedì 8 novembre 2021

ANNIVERSARIO
In memoria di Annamaria De Pietro


Annamaria De Pietro

L’universo in quattro versi: le quartine.


Nella sua prefazione al Primo Libro delle Quartine, Annamaria considerava questa forma poetica “quasi un aforisma” e sottolineava come questi suoi componimenti rivendicassero “il compito di una evidente, e occulta, epitome del cosmo.” Parole emblematiche, come del resto era il titolo di quella raccolta in tre volumi Rettangoli alla ricerca di un Pi Greco, di fatto un trittico di ampio respiro composto da centinaia di poesie. Si può senz’altro affermare che queste quartine nella loro folgorante brevità – cristallizzata, salvo rare eccezioni, nel lineare schema ABBA – rappresentino non solo uno specchio del cosmo, ma risultino spesso in una sentenza (ovvero un corrispettivo poetico dell’apoftegma).
Si diceva un titolo emblematico, giacché la ricerca del Pi greco, o di una quadratura del cerchio – sempre come scritto nella predetta introduzione – non è cosa possibile “per sensata esperienza e certa dimostrazione”. Ma in questo “malcerto laboratorio” poetico Annamaria ha riprodotto il mondo e la sua personale reazione allo stesso, quasi sempre in quattro rime, talvolta in sei strofe, lasciando che il suo lapidario discorso smarginasse come un frattale che tende all’infinito. Ed è in questa forma poetica che Annamaria trova una ideale eco e la estende al lettore, abbinando una glossa a ciascuna quartina – un’intuizione prodigiosa, benché tali glosse raramente chiariscano o interpretino i relativi testi e anzi più spesso svelino aneddoti legati direttamente o indirettamente al componimento, aggiungendo un fascino obliquo alle composizioni. Come avevo scritto anni fa in un blog, quella di Annamaria è una poesia che s’impossessa, trasfigurandoli, non solo degli oggetti ma anche dei miti, della storia e dei riferimenti culturali più disparati (la letteratura o perfino il cinema). Si pensi a questo proposito alla raccolta “Venti fusioni a cera persa”, dedicata a figure mitologiche e al loro destino, al tempo stesso commento poetico e dolente riflessione su un Fato che nulla risparmia, dei, semidei o uomini. Ma è nelle quartine che Annamaria trova il migliore elemento di espressione della propria arte, riuscendo a specillare con destrezza chirurgica il mondo reale e a portarne alla luce i lati più inconsueti, con un taglio metafisico che conferisce alla sua opera la vertigine di una familiarità straniante, tanto che il lettore – al quale spesso Annamaria si rivolge nelle glosse con domande dirette finisce col sovrapporre la propria visione a quella dell’autrice. “Smarrirai, tu che mi vivi dentro, le tue orme”, come recita, non a caso, la chiusa de “L’identità”.
Il processo creativo di Annamaria fa leva su un immaginario nel quale si associano – in modo insolito quanto raffinato – situazioni, bestiari e oggetti ricorrenti (specchi, porte, ventagli, rose). Un procedimento alchemico nel quale si armonizzano spezzoni di vita, squarci onirici, riflessioni sulla natura ambigua delle cose e concessioni alla memoria, un vortice contraddistinto da una lucidità mai consolatoria, a volte perfino spietata, che si riverbera in un ritmo veloce, non di rado secco e tagliente. Non per questo mancano un’ironia di fondo né, tanto meno, il gusto del gioco verbale.



L’impressione complessiva che danno questi magnifici componimenti è quella di una struttura al contempo statica e mobilissima ora placida e contemplativa, ora debordante, ora furibonda che nasconde un flusso ipogeo di vitalità. Il lettore si trova così, già nel primo libro, di fronte a un universo miniaturizzato, nel quale trovano posto rimandi oscuri all’infanzia (“Alla porta di corno”), ammiccamenti esoterici incistati nel quotidiano (“L’alchimista”), i frutti della natura contrapposti all’artificio della teofagia (“Il sacrilegio”), la sacralità laica negli oggetti (“La perfetta orazione”), la corporeità astratta (“La condensazione”), le ambigue metamorfosi del linguaggio (“Orlando”).
E ancora il suono muto (“La cassa cava”), l’erosione come ineludibile processo vitale (“La cripta”), e una prospettiva esoterica sulla creazione (“L’ingrediente segreto”). E si prosegue su questa falsariga con “L’affaccendata” (che mostra una curiosa assonanza con un vecchio spiritual americano), la geminazione di organico e inorganico come seme della bellezza nel mondo (“Torsade”) o il gioco dell’ossimoro nel processo vitale (“Sale di cava dolce”).
Non di rado, tuttavia, trapela in questi versi uno smarrimento davanti a ciò che si credeva già noto e che pure si rivela, in una qual certa misura, destabilizzante o estraneo. E così una stanza da percorrere in “immota corsa”, un angolo d’ombra o una semplice porta diventano un invito a uscire dalla percezione comune delle situazioni, dei luoghi e degli oggetti. Parimenti in queste quartine – cito una delle glosse della raccolta – domina un tempo che funge da differenziale fra “raggiungimenti di luoghi”, il tempo sospeso della riflessione poetica. Del resto, la stessa Annamaria, in un’intervista di qualche anno fa, sosteneva che la poesia vive in un eterno presente, “intenta al suo eterno sconcerto concertante del mondo”.
Un eterno sconcerto di barocca e labirintica visionarietà, si potrebbe aggiungere e in quest’ottica il silenzio eloquente delle cose che si conoscono (o che si pensa di conoscere) e la capacità di ascoltarlo e di raccoglierlo sono affidate, come al solito, alle “morbide pagine” citate in un’altra poesia di vibrante tensione, “Fuga e agguato”.



Ma, soprattutto, non si può non sottolineare come le quartine di Annamaria, come un nastro di Möbius, si dispieghino nel flusso conchiuso - e, talvolta, vorticoso - di una dimensione a sé stante, offrendo al lettore un gioco di immagini familiari che assumono una connotazione e una prospettiva affatto nuove e diverse (si pensi, ad esempio, a “Vivisezione” e alla relazione quasi anamorfica tra la cassa di una mela tagliata a metà e la cassa di un liuto).
La ricchezza di stimoli che caratterizza le quartine meriterebbe analisi ancora più approfondite, come lo meriterebbe il linguaggio di assoluta finezza che – secondo la stessa Annamaria – ostenta una patina aristocratica nella forma e nel lessico, benché “aristocraticamente familiare” (soprattutto nelle glosse), perché trattasi di un linguaggio “intervallato e screziato di segmenti colloquiali e realistici”, proprio come i rimandi più colti ed elevati vanno a braccetto con i riferimenti alla quotidianità. Impossibile, con questi presupposti, non pensare alle liriche di un John Donne e alla loro commistione tra alto e basso che sfocia in una vitale ricchezza di contrasti.
Come sigillo poetico ai volumi della propria raccolta, Annamaria ha scelto un componimento intitolato “L’approssimazione”, caratterizzato da una glossa molto estesa, quasi una confessione imperniata sull’esigenza artistica ed esistenziale dalla quale sono scaturite le quartine e, soprattutto, sul significato delle stesse per lei: “Allora pensai che la quartina potrebbe essere vista come una prova tecnica e puntuale di afasia, non proprio ancora la morte ma l’officiatura ben replicata e ligia dei suoi riti preparatori come dire un rito a ripetizione potenzialmente senza fine.”
Senza fine risulta essere anche la suggestione che questa raccolta diffonde, perfino quando l’ombra di un epitaffio sembra fare capolino oppure parafrasando un altro titolo di Annamaria – quando il nodo di un definitivo inventario viene sciolto. Ma è solo un’impressione, perché molto probabilmente la verità è contenuta nell’ultimo verso di una poesia dell’amato Pierre de Ronsard, tradotta e rielaborata in modo magistrale da Annamaria, nella quale si conclude che la vita “oggi se ne va presto, domani viene tardi.”
In questo verso c’è anche la chiave per comprendere la visione del mondo che informa la sua opera, in particolare le quartine che ci ha lasciato e nelle quali diviene impossibile non smarrire le nostre orme.
[Claudio Ceriani]