Nella sua prefazione al Primo Libro
delle Quartine, Annamaria considerava questa forma poetica “quasi un aforisma” e
sottolineava come questi suoi componimenti rivendicassero “il compito di una
evidente, e occulta, epitome del cosmo.”Parole
emblematiche, come del resto era il titolo di quella raccolta in tre volumi Rettangoli
alla ricerca di un Pi Greco, di fatto un trittico di ampio respiro composto
da centinaia di poesie. Si può senz’altro affermare che queste quartine nella
loro folgorante brevità – cristallizzata, salvo rare eccezioni, nel lineare
schema ABBA – rappresentino non solo uno specchio del cosmo, ma risultino spesso in una sentenza (ovvero un corrispettivo poetico
dell’apoftegma). Si diceva un titolo emblematico, giacché la ricerca del Pi
greco, o di una quadratura del cerchio – sempre come scritto nella predetta
introduzione – non è cosa possibile “per sensata esperienza e certa dimostrazione”.
Ma in questo “malcerto laboratorio” poetico Annamaria ha riprodotto il mondo e
la sua personale reazione allo stesso, quasi sempre in quattro rime, talvolta
in sei strofe, lasciando che il suo lapidario discorso smarginasse come un
frattale che tende all’infinito. Ed è in questa forma poetica che Annamaria
trova una ideale eco e la estende al lettore, abbinando una glossa a ciascuna
quartina – un’intuizione prodigiosa, benché tali glosse raramente chiariscano o
interpretino i relativi testi e anzi più spesso svelino aneddoti legati direttamente
o indirettamente al componimento, aggiungendo un fascino obliquo alle
composizioni. Come avevo scritto anni fa in un blog, quella di Annamaria è una
poesia che s’impossessa, trasfigurandoli, non solo degli oggetti ma anche dei
miti, della storia e dei riferimenti culturali più disparati (la letteratura o
perfino il cinema). Si pensi a questo proposito alla raccolta “Venti fusioni a
cera persa”, dedicata a figure mitologiche e al loro destino, al tempo stesso
commento poetico e dolente riflessione su un Fato che nulla risparmia, dei,
semidei o uomini. Ma è nelle quartine che Annamaria trova il migliore elemento
di espressione della propria arte, riuscendo a specillare con destrezza
chirurgica il mondo reale e a portarne alla luce i lati più inconsueti, con un
taglio metafisico che conferisce alla sua opera la vertigine di una familiarità
straniante, tanto che il lettore – al quale spesso Annamaria si rivolge nelle
glosse con domande dirette – finisce col sovrapporre la propria
visione a quella dell’autrice. “Smarrirai, tu che mi vivi dentro, le tue orme”,
come recita, non a caso, la chiusa de “L’identità”. Il processo creativo di Annamaria fa leva su un immaginario
nel quale si associano – in modo insolito quanto raffinato – situazioni,
bestiari e oggetti ricorrenti (specchi, porte, ventagli, rose). Un procedimento
alchemico nel quale si armonizzano spezzoni di vita, squarci onirici,
riflessioni sulla natura ambigua delle cose e concessioni alla memoria, un
vortice contraddistinto da una lucidità mai consolatoria, a volte perfino
spietata, che si riverbera in un ritmo veloce, non di
rado secco e tagliente. Non per questo mancano un’ironia di fondo né, tanto meno,
il gusto
del gioco verbale.
L’impressione complessiva che danno questi magnifici
componimenti è quella di una struttura al contempo statica e
mobilissima – ora placida e contemplativa, ora debordante, ora
furibonda –che nasconde un flusso ipogeo di vitalità. Il
lettore
si trova così, già nel primo libro, di fronte a un universo miniaturizzato, nel
quale trovano posto rimandi oscuri all’infanzia (“Alla porta di corno”),
ammiccamenti esoterici incistati nel quotidiano (“L’alchimista”), i frutti
della natura contrapposti all’artificio della teofagia (“Il sacrilegio”), la
sacralità laica negli oggetti (“La perfetta orazione”), la corporeità astratta
(“La condensazione”), le ambigue metamorfosi del linguaggio (“Orlando”). E ancora il suono muto (“La cassa cava”), l’erosione come
ineludibile processo vitale (“La cripta”), e una prospettiva esoterica sulla
creazione (“L’ingrediente segreto”). E si prosegue su questa falsariga con
“L’affaccendata” (che mostra una curiosa assonanza con un vecchio spiritual americano), la geminazione di
organico e inorganico come seme della bellezza nel mondo (“Torsade”) o il gioco
dell’ossimoro nel processo vitale (“Sale di cava dolce”). Non di rado, tuttavia, trapela in questi versi uno smarrimento
davanti a ciò che si credeva già noto e che pure si rivela, in una qual certa
misura, destabilizzante o estraneo. E così una stanza da percorrere in “immota
corsa”, un angolo d’ombra o una semplice porta diventano un invito a uscire
dalla percezione comune delle situazioni, dei luoghi e degli oggetti. Parimenti
in queste quartine – cito una delle glosse della raccolta – domina un tempo che
funge da differenziale fra “raggiungimenti di luoghi”, il tempo sospeso della
riflessione poetica. Del resto, la stessa Annamaria, in un’intervista di
qualche anno fa, sosteneva che la poesia vive in un eterno presente, “intenta
al suo eterno sconcerto concertante del mondo”. Un eterno sconcerto di barocca e labirintica visionarietà, si
potrebbe aggiungere e in quest’ottica il silenzio eloquente delle cose che si conoscono (o che si
pensa di conoscere) e la capacità di ascoltarlo e di raccoglierlo sono affidate,
come al solito, alle “morbide pagine” citate in un’altra poesia di vibrante
tensione, “Fuga e agguato”.
Ma,
soprattutto, non si può non sottolineare come le quartine di Annamaria, come un
nastro di Möbius, si dispieghino nel flusso conchiuso - e, talvolta, vorticoso -
di una dimensione a sé stante, offrendo al lettore un gioco di immagini
familiari che assumono una connotazione e una prospettiva affatto nuove e diverse
(si pensi, ad esempio, a “Vivisezione” e alla relazione quasi anamorfica tra la
cassa di una mela tagliata a metà e la cassa di un liuto). La
ricchezza di stimoli che caratterizza le quartine meriterebbe analisi ancora
più approfondite, come lo meriterebbe il linguaggio di assoluta finezza che –
secondo la stessa Annamaria – ostenta una patina aristocratica nella forma e
nel lessico, benché “aristocraticamente familiare” (soprattutto nelle glosse),
perché trattasi di un linguaggio “intervallato e screziato di segmenti
colloquiali e realistici”, proprio come i rimandi più colti ed elevati vanno a
braccetto con i riferimenti alla quotidianità. Impossibile, con questi
presupposti, non pensare alle liriche di un John Donne e alla loro commistione
tra alto e basso che sfocia in una vitale ricchezza di contrasti. Come
sigillo poetico ai volumi della propria raccolta, Annamaria ha scelto un
componimento intitolato “L’approssimazione”, caratterizzato da una glossa molto
estesa, quasi una confessione imperniata sull’esigenza artistica ed
esistenziale dalla quale sono scaturite le quartine e, soprattutto, sul
significato delle stesse per lei: “Allora pensai che la quartina potrebbe
essere vista come una prova tecnica e puntuale di afasia, non proprio ancora la
morte ma l’officiatura ben replicata e ligia dei suoi riti preparatori – come dire un rito a ripetizione
potenzialmente senza fine.” Senza
fine risulta essere anche la suggestione che questa raccolta diffonde, perfino
quando l’ombra di un epitaffio sembra fare capolino oppure – parafrasando un altro titolo di Annamaria –
quando il nodo di un definitivo inventario viene sciolto. Ma è solo
un’impressione, perché molto probabilmente la verità è contenuta nell’ultimo
verso di una poesia dell’amato Pierre de Ronsard, tradotta e rielaborata in
modo magistrale da Annamaria, nella quale si conclude che la vita “oggi se ne
va presto, domani viene tardi.” In
questo verso c’è anche la chiave per comprendere la visione del mondo che
informa la sua opera, in particolare le quartine che ci ha lasciato e nelle
quali diviene impossibile non smarrire le nostre orme. [Claudio Ceriani]