La vergogna criminale del crollo
del ponte sul Polcevera il 14 agosto del 2018 in quel di Genova con i suoi 43
morti, una decina di feriti e oltre 600 sfollati, è una delle tante stragi che
hanno insanguinato l’Italia dal dopoguerra ad oggi. Ciò che è avvenuto col
Ponte Morandi, statene certi, continuerà impunemente per quella perversa
saldatura che è andata a costituirsi nel tempo fra malagiustizia e malapolitica
e non pagherà nessuno, come avviene d’abitudine nel nostro Paese. È avvenuto
costantemente sotto ogni genere di governo: sotto quelli democristiani e sotto
quelli di centro-destra; sotto quelli di centro-sinistra e delle larghe intese;
sotto quelli che comprendevano il coinvolgimento di partiti cosiddetti
“radicali” e con quelli che ha visto assieme la cloaca leghista e
l’opportunismo miserabile dei Cinque Stelle. Tragedie sempre annunciate, sempre
segnalate da Comitati di cittadini, inchieste giornalistiche e sempre prese
alla leggera da chi è tenuto a vigilare, a provvedere, a farsene carico, e da chi,
quando è necessario, dovrebbe far scattare le manette. Ma non avviene quasi
mai, e i morti restano senza giustizia e beffati. Assistiamo alla solita
passerella di autorità che esibiscono la loro contrita ipocrisia davanti alle
telecamere, le loro banali frasi di circostanza, e poi tutto scivola nel
dimenticatoio in attesa dell’ennesima prescrizione giudiziaria. Tragedie
annunciate che lasciano il segno non solo sui familiari delle vittime, ma sulla
parte più onesta e indifesa del corpo sociale. Del corpo sociale fanno parte
gli oppositori del saccheggio e dello sfregio del territorio, e qualche volta
anche alcuni decenti poeti. Fra questi rari decenti poeti dobbiamo annoverare
il calabrese Alfredo Panetta che con i suoi 43 “pilastri poetici” – tanti sono
i testi che compongono la raccolta Ponti sdarrupatu (Il crollo del
ponte), pubblicata dalle edizioni Passigli di Bagno a Ripoli – lancia il suo
perentorio j’accuse. Quarantatré pilastri poetici, quante sono state le
vittime del crollo. È un j’accuse duro, doloroso, corale, dedicato alle
vittime e che delle vittime raccolgono le voci. Parlano in prima persona i
trapassati, come nel poema dantesco, e parlano i sopravvissuti per dar loro
voce.
E in questo modo brandelli di vita emergono a comporre un album fatto di
mestieri, luoghi, aspirazioni tradite, scampoli di affetti e di umanità. Ogni
testo si chiude con una dedica perché la memoria dello scomparso non venga
dispersa. Sono testi poetici di una dolorosa e laica via crucis che Panetta ha
composto nella lingua dialettale della sua terra d’origine, la lingua musicale
ed espressionista della Locride come per le altre precedenti raccolte. Portano
la traduzione in lingua italiana a fronte per la necessaria fruizione del
lettore, di ogni tipo di lettore, ma va detto che la versione italiana di Ponti
sdarrupatu ha una sua dignità e bellezza, una forma conchiusa in sé, e non vuole
essere affatto una semplice traduzione di servizio. Nella lettera che
accompagna il libro Panetta lo ribadisce chiaramente: “Il testo in italiano
non è assolutamente una traduzione di servizio”. Tuttavia, chi il dialetto
lo riesce ad interpretare, potrà apprezzare fino in fondo la ricchezza poetica
di una parola che si fa immagine e di una immagine che si rivela come suono. Un
suono che nessuna traduzione può eguagliare, come avviene per qualunque
originale rispetto alla traslazione in un’altra lingua. Ponti sdarrupatu è
anche un libro fortemente politico perché l’accusa di Panetta prende di petto “il
dissesto delle nostre infrastrutture e del territorio in generale”, e fa un
preciso riferimento “anche alla natura predatoria dell’uomo e all’incapacità
di prendersi cura di ciò che egli stesso costruisce”, come scrive sempre
nella lettera. È una consapevolezza etico-politica senza ambiguità questa di
Panetta, e i suoi sono versi schierati. È probabile che faranno storcere il
naso a più di uno; consiglio costoro di andarsi a leggere la poesia “Figli
dell’epoca” del premio Nobel Wisława
Szymborska e non perché “anche le poesie apolitiche sono politiche”, ma perché “Ciò
di cui parli ha una risonanza, /Ciò di cui non parli ha una valenza / in un
modo o nell’altro politica”. Lo sapevamo da sempre dai classici, e lo
sappiamo dal Novecento; lo sappiamo attraverso il pensiero del filosofo
francese Jean-Paul Sartre: “Ogni parola ha conseguenze. Ogni silenzio anche”.
Alfredo
Panetta Ponti
sdarrupatu Il
crollo del ponte Passigli
Edizioni 2021 Pagg.
192 € 18,50