Lutti Nostri LA SCOMPARSA DI LUIGI
BLASUCCI di Michele Feo*
Luigi Blasucci
Piangi Pisa e
piangi Altamura, piangi Palazzo San Gervasio terra di sua madre, piangete
leopardiani e leopardisti, piangete amici delle lettere, della Scuola Normale,
dell'ironia e dei libri, della vita come impegno etico e passione degli studi.
È morto Luigi Blasucci. È morto stamattina. È morto giovane, all'età di
novantasette anni. Figlio di ferroviere, normalista e da ultimo professore
nella Scuola dove aveva studiato, amico dei grandi della letteratura italiana,
amico di Sebastiano Timpanaro jr e di tutta una nuova generazione di
italianisti, critico finissimo con forti propensioni poetiche mai ostentate,
venerato da molti studenti e amato da molte studentesse per quella sua figura
un po' così, per quell'aria un po' così che hanno i grandi senza scorta, che
vanno in bicicletta, che credono in quello che dicono e che parlano poco, che
sono candidi. Gino lascia almeno tre incompiute: un libro di teologia laica
(che arieggia inconsapevolmente la Théologie portative del barone d'Holbach),
il secondo volume dello splendido commento ai Canti di Leopardi, un carteggio
di circa 50 lettere con Sebastiano Timpanaro. Esorto i suoi allievi diretti a
non lasciarli muffire in un cassetto. Rimpiango che non sia stata registrata la
sua ultima conferenza sull'Infinito di Leopardi tenuta nell'Accademia Toscana
di Scienze e Lettere "La Colombaria". Meglio di me sapranno
commemorarlo i suoi allievi. Io chiedo venia se riproduco qui poche parole che
ebbi a scrivere di lui dopo un simpatico incontro in casa sua. Perché piangiamo i morti? Quando muore
una persona cara, e non sappiamo capacitarci della sua perdita, facciamo
persino violenza al nostro dovere sociale di eroismo stoico, alle nostre
convinzioni di razionalisti, e ci lasciamo andare all'irrazionalità del pianto.
Perché? Rispose Leopardi che “il piangere non era inclinazione sua propria, ma
necessità de' tempi e volere della fortuna”; e in forma più dolente e commossa
scrisse altrove che, se pensiamo a cosa passa nell'animo nostro in occasione
della morte di qualche nostro caro, troveremo che il pensiero che più ci
commuove è questo: “egli è stato, egli non è più, io non lo vedrò più. E qui
ricorriamo colla mente le cose, le azioni, le abitudini, che sono passate tra
il morto e noi; e il dir tra noi stessi: queste cose sono passate; non saranno
mai più, ci fa piangere”. Gino avrebbe sottoscritto tutte queste motivazioni
del suo amato Leopardi e sono sicuro che anche lui ha pianto per la morte di
persone amate, di amici e allievi di lui più giovani, perché al cielo care. Raccolga
il nostro segno di affetto, si quid sunt manes. Vorrei non porre fine a questo
compianto, ma non ho più citazioni, che mi aiutino come àncora di sicurezza, e
allora torno a chiedere venia se ripropongo a voi, miei cari amici e cari
lettori, un pezzo che su Gino scrissi in un momento di felicità, nel ricordo di
un'ultima citazione, da Petrarca questa: “Muor mentre sei lieto”, che voglio
pensare si attagli ai sentimenti di Gino nel suo ultimo respiro mortale.
I libri
Condivide quel che dice Nel suo nido di gufo, piccolo ma adatto a lui e a nessuno dannoso, parla.
Parla di Leopardi, della terzina di Dante, del carattere scontroso di
Timpanaro, parla di altri compagni e maestri di vita e di studi, di quel Mario
Fubini che si sentì offeso nella sua persona quando gli disse di non amare
Foscolo. Parla del secondo volume del suo magnifico commento ai Canti di
Leopardi che deve consegnare prima che si faccia sera, condisce i discorsi di
aneddoti, legge ad alta voce alcuni pensieri della sua nascente Teologia
abusiva, che è più severa della allegra Théologie portative del Barone
d’Holbach, ma di quella non meno corrosiva e più di quella venata di autentica
ricerca spirituale. Mentre parla vedo sul suo viso di fanciullo
novantacinquenne spandersi la felicità. Non posso fare a meno di dirglielo. E
lui, che forse di questo prima non s’era accorto, me lo spiega: “È così, perché
io condivido quello che dico. E per questo mi vogliono bene”. E io ricordo le
signore che, accogliendo gli ospiti in casa, li coprono di parole false, che
lodano mentendo la bellezza dei loro volti incartapecoriti e il cattivo gusto
dei loro vestiti; e penso a quei politici che nel giro di una settimana son
capaci delle più mirabili piroette e di fissare la concordia di tutti gli opposti,
simili a quelli che nei romanzi di Heinrich Böll si sono dimenticati degli
ideali della giovinezza e, piantati sul potere, son ridotti a leggere i
discorsi scritti per loro da prezzolati ghost-writers. Sto parlando a mia volta di Luigi o Gino Blasucci, già professore di
Letteratura italiana nell’Università e nella Scuola Normale di Pisa. Dicono di
lui che si è occupato solo dei grandi. Per l’appunto è devoto di Dante, afferma
convinto che la sua terzina è straordinaria, un sistema che non si chiude in se
stesso, ma va sempre liberamente avanti e lascia il lettore sempre in attesa di
quello che potrà venire. Lo affascinano i suoni dei versi leopardiani, la
musica che li pervade, l’arte dell’allitterazione ed altre innervature
fonetiche, come l’apertura di una serie di a o l’oscurità di una serie
di o, la noncuranza della tirannica rima, il prolungamento del pensiero
che, oltre la fine del verso, procede in un inesausto desiderio di orizzonti
irraggiungibili. Mi chiedo se siamo in presenza di una nuova o vecchia
religione della forma, che, come si diceva una volta, è tutto. No, Gino sa bene
che le vere risorse tecniche della poesia sono quelle che non si sovrappongono
e non condizionano il pensiero, il quale invece vive sotto, accanto, in
inestricabile e ontologica simbiosi con esse. Va da sé, anche se non la
sbandiera, la orgogliosa dichiarazione di Dante tramandata dall’Ottimo, che mai
egli sacrificò il pensiero all’esigenza della rima. Eppure la rima la fa da
padrona, oserei dire da architetto, nell’edificio di quella Commedia a cui
posero mano e cielo e terra. Solo a questo prezzo, per Blasucci, la poesia riesce ad assolvere “la
funzione rimarginatrice e incantatoria” nei confronti delle lacerazioni che
affliggono il poeta e per suo mezzo quelle dei fruitori della sua poesia. La
poesia che entra in competizione con la teologia. I teologi costruirono il loro
Dio come privo di amore, se ha fatto soffrire tanto suo Figlio, e come cattivo
giurista, se commina condanne eterne, quindi ingiuste. Ma forse non è proprio
così. Quando attraverseranno l’ultimo vecchio ponte, e Dio li dovrà accogliere
o rigettare, credete – chiede il teologo abusivo Gino – che sarà più tenero
verso il democristiano Andreotti o verso l’ateo Giacomo da Recanati?
*già docente di Letteratura e Filologia medievale e umanistica nelle Università di Pisa e Firenze.