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mercoledì 3 novembre 2021

Lutti Nostri
LA SCOMPARSA DI LUIGI BLASUCCI
di Michele Feo*

Luigi Blasucci
 
Piangi Pisa e piangi Altamura, piangi Palazzo San Gervasio terra di sua madre, piangete leopardiani e leopardisti, piangete amici delle lettere, della Scuola Normale, dell'ironia e dei libri, della vita come impegno etico e passione degli studi. È morto Luigi Blasucci. È morto stamattina. È morto giovane, all'età di novantasette anni. Figlio di ferroviere, normalista e da ultimo professore nella Scuola dove aveva studiato, amico dei grandi della letteratura italiana, amico di Sebastiano Timpanaro jr e di tutta una nuova generazione di italianisti, critico finissimo con forti propensioni poetiche mai ostentate, venerato da molti studenti e amato da molte studentesse per quella sua figura un po' così, per quell'aria un po' così che hanno i grandi senza scorta, che vanno in bicicletta, che credono in quello che dicono e che parlano poco, che sono candidi. Gino lascia almeno tre incompiute: un libro di teologia laica (che arieggia inconsapevolmente la Théologie portative del barone d'Holbach), il secondo volume dello splendido commento ai Canti di Leopardi, un carteggio di circa 50 lettere con Sebastiano Timpanaro. Esorto i suoi allievi diretti a non lasciarli muffire in un cassetto. Rimpiango che non sia stata registrata la sua ultima conferenza sull'Infinito di Leopardi tenuta nell'Accademia Toscana di Scienze e Lettere "La Colombaria". Meglio di me sapranno commemorarlo i suoi allievi. Io chiedo venia se riproduco qui poche parole che ebbi a scrivere di lui dopo un simpatico incontro in casa sua.
Perché piangiamo i morti? Quando muore una persona cara, e non sappiamo capacitarci della sua perdita, facciamo persino violenza al nostro dovere sociale di eroismo stoico, alle nostre convinzioni di razionalisti, e ci lasciamo andare all'irrazionalità del pianto. Perché? Rispose Leopardi che “il piangere non era inclinazione sua propria, ma necessità de' tempi e volere della fortuna”; e in forma più dolente e commossa scrisse altrove che, se pensiamo a cosa passa nell'animo nostro in occasione della morte di qualche nostro caro, troveremo che il pensiero che più ci commuove è questo: “egli è stato, egli non è più, io non lo vedrò più. E qui ricorriamo colla mente le cose, le azioni, le abitudini, che sono passate tra il morto e noi; e il dir tra noi stessi: queste cose sono passate; non saranno mai più, ci fa piangere”. Gino avrebbe sottoscritto tutte queste motivazioni del suo amato Leopardi e sono sicuro che anche lui ha pianto per la morte di persone amate, di amici e allievi di lui più giovani, perché al cielo care. Raccolga il nostro segno di affetto, si quid sunt manes.
Vorrei non porre fine a questo compianto, ma non ho più citazioni, che mi aiutino come àncora di sicurezza, e allora torno a chiedere venia se ripropongo a voi, miei cari amici e cari lettori, un pezzo che su Gino scrissi in un momento di felicità, nel ricordo di un'ultima citazione, da Petrarca questa: “Muor mentre sei lieto”, che voglio pensare si attagli ai sentimenti di Gino nel suo ultimo respiro mortale.

I libri
 
Condivide quel che dice
Nel suo nido di gufo, piccolo ma adatto a lui e a nessuno dannoso, parla. Parla di Leopardi, della terzina di Dante, del carattere scontroso di Timpanaro, parla di altri compagni e maestri di vita e di studi, di quel Mario Fubini che si sentì offeso nella sua persona quando gli disse di non amare Foscolo. Parla del secondo volume del suo magnifico commento ai Canti di Leopardi che deve consegnare prima che si faccia sera, condisce i discorsi di aneddoti, legge ad alta voce alcuni pensieri della sua nascente Teologia abusiva, che è più severa della allegra Théologie portative del Barone d’Holbach, ma di quella non meno corrosiva e più di quella venata di autentica ricerca spirituale. Mentre parla vedo sul suo viso di fanciullo novantacinquenne spandersi la felicità. Non posso fare a meno di dirglielo. E lui, che forse di questo prima non s’era accorto, me lo spiega: “È così, perché io condivido quello che dico. E per questo mi vogliono bene”. E io ricordo le signore che, accogliendo gli ospiti in casa, li coprono di parole false, che lodano mentendo la bellezza dei loro volti incartapecoriti e il cattivo gusto dei loro vestiti; e penso a quei politici che nel giro di una settimana son capaci delle più mirabili piroette e di fissare la concordia di tutti gli opposti, simili a quelli che nei romanzi di Heinrich Böll si sono dimenticati degli ideali della giovinezza e, piantati sul potere, son ridotti a leggere i discorsi scritti per loro da prezzolati ghost-writers.
Sto parlando a mia volta di Luigi o Gino Blasucci, già professore di Letteratura italiana nell’Università e nella Scuola Normale di Pisa. Dicono di lui che si è occupato solo dei grandi. Per l’appunto è devoto di Dante, afferma convinto che la sua terzina è straordinaria, un sistema che non si chiude in se stesso, ma va sempre liberamente avanti e lascia il lettore sempre in attesa di quello che potrà venire. Lo affascinano i suoni dei versi leopardiani, la musica che li pervade, l’arte dell’allitterazione ed altre innervature fonetiche, come l’apertura di una serie di a o l’oscurità di una serie di o, la noncuranza della tirannica rima, il prolungamento del pensiero che, oltre la fine del verso, procede in un inesausto desiderio di orizzonti irraggiungibili. Mi chiedo se siamo in presenza di una nuova o vecchia religione della forma, che, come si diceva una volta, è tutto. No, Gino sa bene che le vere risorse tecniche della poesia sono quelle che non si sovrappongono e non condizionano il pensiero, il quale invece vive sotto, accanto, in inestricabile e ontologica simbiosi con esse. Va da sé, anche se non la sbandiera, la orgogliosa dichiarazione di Dante tramandata dall’Ottimo, che mai egli sacrificò il pensiero all’esigenza della rima. Eppure la rima la fa da padrona, oserei dire da architetto, nell’edificio di quella Commedia a cui posero mano e cielo e terra.
Solo a questo prezzo, per Blasucci, la poesia riesce ad assolvere “la funzione rimarginatrice e incantatoria” nei confronti delle lacerazioni che affliggono il poeta e per suo mezzo quelle dei fruitori della sua poesia. La poesia che entra in competizione con la teologia. I teologi costruirono il loro Dio come privo di amore, se ha fatto soffrire tanto suo Figlio, e come cattivo giurista, se commina condanne eterne, quindi ingiuste. Ma forse non è proprio così. Quando attraverseranno l’ultimo vecchio ponte, e Dio li dovrà accogliere o rigettare, credete – chiede il teologo abusivo Gino – che sarà più tenero verso il democristiano Andreotti o verso l’ateo Giacomo da Recanati?
 

*già docente di Letteratura e Filologia medievale e umanistica nelle Università di Pisa e Firenze.