La realtà economica smentisce l’ottimismo di Draghi. Per quanto sia tenace
l’ottimismo distribuito a piene mani dal governo sull’andamento della
situazione economica del nostro paese non appare affatto giustificato. Il 2021
viene accreditato di un tasso di crescita del 6%, superiore alle previsioni di
solo qualche mese fa che lo stimavano al 4,5%. Il dato certamente colpisce,
visto che tale incremento nell’arco di un solo anno non si verificava dal 1976.
Ma siamo veramente di fronte ad una crescita dell’economia italiana, per quanto
diseguale e iniqua nella sua composizione? La risposta non può che essere
negativa, se alle parole attribuiamo il loro vero significato e non quello
della propaganda di governo. Si può parlare di crescita solo se ci trovassimo
di fronte ad un incremento dell’attività produttiva di non breve periodo, con
un trend in salita di investimenti,
produttività (non solo del lavoro ma di tutti i fattori) e domanda globale. Non
cito l’aumento dell’occupazione perché ormai da tempo ciò che nel mainstream si intende per crescita
economica non comporta un corrispondente andamento occupazionale. Anzi spesso
avviene proprio il contrario, ovvero un aumento della disoccupazione e
soprattutto della precarietà pur in compresenza di indicatori economici
positivi di non breve periodo. Ma nemmeno quest’ultimo è il caso del nostro paese, ove
da trent’anni si conoscono tassi di crescita annuali che ruotano attorno
all’uno per cento, quando non si verificano crolli drammatici, quale quello
dell’anno scorso che ha segnato un 8,9%. Nel mentre è cresciuta la precarietà,
si è ridotto il tasso di occupazione, in particolare quello femminile,
giovanile e nel Sud, e si è allargata, come ci ripete l’Istat, la fascia di
persone che vive in condizioni di povertà assoluta, fino a investire circa il
10% dell’intera popolazione. Recentemente l'Ocse ha elaborato una statistica
che mostra, a parità di potere d'acquisto, che in Italia il salario medio di un
lavoratore dal 1990 al 2020 è sceso del 2,9%. Certamente l’abolizione della scala
mobile non è stato un fattore innocente in questo processo. Nello stesso
periodo, per fare solo qualche esempio, in Francia e Germania i salari medi
sono cresciuti più del 30%, negli Stati Uniti quasi del 50%.
Quando si guarda all’anno in corso è quindi del tutto
improprio, o quantomeno totalmente prematuro, parlare di crescita. Malgrado ciò
si vorrebbe ulteriormente indorare la pillola parlando addirittura di “nuovo
miracolo economico” sostenendo che la presunta crescita italiana sarebbe
addirittura più veloce che altrove. Ma anche questo non è vero. Nel 2020 il Pil
italiano era caduto dell’8,9%, rispetto al -3,1% del pil mondiale, al 3,4% di
quello statunitense, al -6,3% nell’area dell’euro. Ovvero l’Italia partiva più
bassa rispetto agli altri paesi industrializzati già alla fine dell’anno
scorso. Secondo il Fondo monetario internazionale l’aumento previsto nell’area
dell’euro, che dovrebbe avvicinarsi al + 5%, potrebbe colmare l’80%
dell’arretramento, mentre per l’Italia non si arriva a recuperarne i due terzi. Se questo è il quadro che abbiamo di fronte ci vorrebbe
una manovra economica di straordinarie proporzioni e forza per riuscire non
solo a recuperare il terreno perduto ma a invertire la tendenza. Nessuno pensa
a nuovi miracoli. Anzi. Se stiamo alle valutazioni di un economista come
Nouriel Roubini, che costruì la sua fama di “Cassandra” prevedendo inascoltato
e per tempo la crisi e la recessione del 2008, il mondo va incontro
probabilmente a un periodo non breve di sostanziale stagnazione e di aumento
dell’inflazione. Ovvero ritorna lo spauracchio della stagflazione, a noi nota
dagli anni Settanta del secolo scorso, che combina bassa o nulla crescita con
aumento dei prezzi. È vero che tanto negli States quanto in Europa le Banche
centrali per il momento tengono fermi e bassi i tassi confidando che
l’inflazione sia una ventata di breve periodo. Ma, per l’appunto, si tratta di
previsioni non di certezze. Mentre è un fatto la frenata dell’economia cinese,
così come l’incremento dell’inflazione in Russia (ove i prezzi al consumo sono
aumentati in ottobre dell’8,1%) e dove la Banca centrale ha alzato il costo del
denaro per ben sei volte nell’anno e si appresta a farlo per la settima, dopo
che i tassi di interesse ha già raggiunto il 7.5% alla fine di ottobre. E gli
analisti di quel paese temono entro i prossimi 18 mesi un avvio di una crisi
finanziaria mondiale di proporzioni simile a quelle che abbiamo già conosciuto.
Dobbiamo quindi chiederci se il Pnrr, la legge di bilancio, le leggi collegate
rispondono a quella esigenza di spostare con energia le tendenze in atto. A
quanto si vede non pare proprio. Per un insieme di ragioni che riguardano
l’impianto del Pnrr e della legge di bilancio, cioè le scelte di fondo della
manovra da 30 miliardi che approda in questi giorni al Senato, dopo la
supervisione europea. L’argomento merita un esame approfondito e dettagliato
che tuttavia può, in estrema sintesi e scontando qualche approssimazione,
essere riassunto lungo due filoni critici.
Si può convenire con Luca Bianchi, direttore di Svimez,
quando afferma, seppure con qualche generosità interpretativa, che l’impianto
della Next Generation Eu sia basato
“sulla scommessa di innalzare il tasso di sviluppo attraverso la riduzione
delle diseguaglianze e la liberazione del potenziale di crescita inespresso”.
Purtroppo però le scelte di fondo del nostro Pnrr non vanno affatto in questa
direzione, anzi rischiano di produrre effetti opposti, ovvero quello di
allargare il solco delle diseguaglianze territoriali. Recentemente il neoeletto
sindaco di Napoli, l’ex ministro Gaetano Manfredi, ha alzato un grido di dolore
sulle condizioni nelle quali si trovano gli enti locali nel Mezzogiorno. “Ora
che abbiamo una pioggia di risorse per il Sud c’è il rischio concreto che non
saranno mai spese, per l’impossibilità di tanti Comuni di presentare progetti
del Recovery per la mancanza di
strutture tecniche. Napoli è il caso più emblematico e non può essere
abbandonata”. La ministra Carfagna si è subito profusa in generiche
rassicurazioni che in realtà non tranquillizzano nessuno. Tutti magnificano gli 82 miliardi che arriverebbero al
Sud, pari al 40% delle risorse previste per il nostro paese. Ma già una legge
del 1987 prevedeva che il 40% degli investimenti pubblici dovrebbe essere
destinato al Mezzogiorno. Quindi la percentuale in sé non costituisce una
novità. Anzi, dovrebbe essere il contrario, ossia se bisogna colmare le
distanze, la maggioranza delle risorse dovrebbe essere destinata al Sud, quindi
una cifra ben maggiore di quella decisa.Infatti la Ue ha stanziato e suddiviso i fondi in base alla popolazione,
al Pil pro capite e al tasso di disoccupazione rilevato negli ultimi cinque
anni. Se si fossero rispettati veramente questi parametri al Mezzogiorno
sarebbero toccati il 68% dei fondi, non il 40%. In più, ha giustamente osservato Gianfranco Viesti,
studioso dell’economia e della società meridionali, vi è da domandarsi quanti
sono realmente i nuovi investimenti, che in quanto tali, possono avere almeno
la speranza di diventare investimenti in settori
innovativi e quindi di rimettere in moto l’economia secondo un altro
modello di sviluppo. “Conti alla mano – dice Viesti – studiando le poche cifre
certe del documento sul Pnrr consegnato in Parlamento e a Bruxelles, solo 35
miliardi di risorse aggiuntive andranno al Mezzogiorno”. Tanto per essere
chiari con un semplice esempio, il Sud avrebbe bisogno del 70’% delle risorse
destinate agli asili nido, visto che Reggio Emilia ne ha 60 mentre Reggio
Calabria solo 3.
Come si vede il tema di una burocrazia all’altezza e di
un personale tecnico pronto alla sfida non è il solo che preoccupa gli
amministratori al Sud. I primi bandi del Pnrr suonano già una campana a morto
sulle diseguaglianze che anziché restringersi rischiano di allargarsi. L’inserzione
del disegno di legge quadro sull’autonomia differenziata tra i ben 21
provvedimenti collegati alla decisione di bilancio rende il quadro ancora più
fosco. È vero che la proposta ancora non c’è, dal momento che il testo
annunciato dal ministro Boccia non è ancora stato consegnato, ma l’occupazione
della casella dice tutto sulla volontà di marciare in questa direzione,
giustamente chiamata la “secessione dei ricchi”. La sua attuazione, per questo
un vasto movimento ne richiede lo stralcio dai collegati al bilancio,
condannerebbe buona parte del nostro paese ad uno stato di crescente minorità.
Costituirebbe la traduzione legislativa di un vecchio progetto avanzato negli
anni Novanta sia da quello che poi diventerà il ministro delle finanze della
Germania, ovvero Wolfgang Schauble, che da Kenichi Ohmae proveniente dalla
McKinsey & Company, di restringere l’Unione europea a un nucleo di regioni
forti – non Stati si badi bene – circondato da una periferia di regioni deboli
alle prime sottomesse. L’impegno pubblico diretto nella ripresa dell’economia è
più che mai indispensabile. In questo caso possiamo dire che ce lo ha detto
anche l'Europa. ma di quale intervento pubblico si parla? Cosa si intende
veramente? Non basta distinguere il pubblico dal privato, allargando il campo
del primo e restringendo quello del secondo. Bisogna discutere della qualità e
delle finalità dell’intervento pubblico. Perché se questo diventa non solo
servente del privato, ma ne assorbe le finalità, facendole proprie, saremmo ben
oltre la socializzazione delle perdite e la privatizzazione dei profitti. Ed è
questo il secondo filone critico per affrontare Pnrr e manovra di bilancio.
Conviene perciò, aprendo qui una parentesi, sottolineare
la differenza, oltre ai punti di contatto e sovrapposizione, che intercorre fra
neoliberismo e ordoliberismo e come il secondo non sia affatto una versione
edulcorata del primo grazie all’intervento pubblico. Come ha osservato
Francesco Saraceno “il Nuovo Consenso di matrice anglosassone e l’ordoliberismo
si sono saldati nel processo di costruzione europeo, pur partendo da
presupposti diversi. Il primo enfatizza l’efficienza dei mercati, e il secondo
la loro sostanziale incapacità ad autoregolarsi. Ma entrambi concordano sulla
necessità di imbrigliare l’azione pubblica, che in alcun caso può sostituirsi
ai mercati nella regolazione macroeconomica. La tradizione ordoliberale tedesca
pesa mei negoziati per il trattato di Maastricht.”Tutte queste teorie sono varianti di modalità
di gestione del capitalismo in particolare nel suo rapporto con lo stato. Anche
se nella realtà si manifestano in implementazioni spurie, non sono uguali.
Quello che è importante, per cogliere la specificità del rapporto fra
capitalismo e stato in questa contingenza segnata dalla crisi e da un massiccio
fluire di finanziamenti pubblici, è porre l’attenzione sulla differenza fra
neoliberismo e ordoliberismo. Possiamo, a questo riguardo, prendere in prestito la
definizione che un non economista come Michel Foucault fornisce della differenza
fra liberismo e ordoliberismo, nelle sue famose lezioni al College de France lungo gli anni ‘70: “gli ordoliberali sostengono
che bisogna (…) porre la libertà di mercato come principio organizzatore e
regolatore dello stato, dall’inizio della sua esistenza sino all’ultimo dei
suoi interventi”, Detto altrimenti: uno stato sotto sorveglianza del mercato,
anziché un mercato sotto la sorveglianza dello stato”. Mentre i neoliberisti
stabiliscono i limiti oltre i quali il pubblico non può andare, essendo regno
del mercato, i secondi intendono trasformare l’intera finalità del pubblico in
funzione del mercato.
Se leggiamo l’intervista a Dario Scannapieco insediato
dal governo Draghi a capo della Cassa Depositi e Prestiti, il cui capitale è
detenuto dal Mef per oltre l’83%, troviamo esattamente questo snaturamento
dell’intervento pubblico.Ma anche
Fabrizio Palermo, suo predecessore, aveva detto nella sostanza le stesse cose
quando sosteneva che la Cdp non sarebbe mai diventata una nuova Iri, poiché non
ci sarebbe “la nuova via italiana al capitalismo misto, pubblico e privato
[…]è il capitalismo paziente che
investe lì dove ci sono i fattori per lo sviluppo”.Quasi un antipasto del Pnrr. Il che dimostra
- sia detto qui per inciso - una linea di continuità, al fondo, fra questo
governo e quelli che l’hanno preceduto. L’ordoliberismo si rende garante anche
dell’implementazione del principio della concorrenza, non più come via libera
agli spiriti animali del capitalismo, ma come strumentazione ordinata da un
quadro legislativo nazionale, ma inquadrato nelle normative europee, comprese
quelle di più vecchia data, come la famigerata Bolkenstein. Da qui l’insistenza
posta sulla legge in materia di concorrenza dall’attuale governo. L’impianto del disegno di legge mira alla
liberalizzazione, in realtà privatizzazione o logica del pubblico ispirata ai
criteri della profittabilità, dei servizi pubblici locali, intesi nella loro
globalità. La pandemia pare non avere insegnato nulla dal momento che il
governo intende agevolare “l’accesso all’accreditamento delle strutture
sanitarie private” e introduce “criteri dinamici per la verifica periodica
delle strutture private convenzionate”. Come si sa sono rimasti fuori le
concessioni balneari e gli ambulanti. Il governo si è preso alcuni mesi per una
loro mappatura. Giustificazione che è apparsa subito ipocrita a un politico di
lungo corso, quale Rino Formica, che in una pungente intervista ha ironizzato
sulla dichiarazione di Draghi: «Ha detto che vuol prendersi sei mesi per la
mappatura. Ma a me, nel 1981, quando divenni ministro delle finanze, la diedero
in pochi giorni». In realtà il governo si riserva di valutare le reazioni che
susciterà il disegno di legge. I tassisti sono già sul piede di guerra, visto
che il governo intende promuovere la concorrenza nell’assegnazione delle
licenze.Non stupisce quindi il giudizio
largamente positivo che un economista amico del privato come Alessandro De
Nicola, presidente dell’Adam Smith
Society, ha dato del testo governativo, gioendo del fatto che le norme
pro-concorrenza si applicheranno anche a situazioni oggi particolari come il
servizio idrico e raccolta rifiuti, nonché all’intero comparto del trasporto.
L’intero sistema dei servizi pubblici locali che dovrà essere riordinato da un
prossimo decreto legislativo entro i prossimi sei mesi. L’individuazione degli
ambiti di interesse generale necessarie alle esigenze delle comunità locali
dovrà avvenire nel rispetto “della tutela della concorrenza, dei principi e dei
criteri dettati dalla normativa europea”. La politica economica del governo Draghi precisa quindi i
suoi contorni e i suoi contenuti. Servirebbe contrapporre a questa un progetto
alternativo di congrua ampiezza e forza. Ma questo non esiste, poiché la
sinistra politica è ridotta a poca cosa, per giunta divisa. Una risposta
potrebbe venire dal sindacato. Ma anche la vicenda delle pensioni – che
tradizionalmente ha avuto sempre un peso decisivo nella storia dei conflitti
sociali nel nostro paese, non riesce a smuoverlo verso uno sciopero generale
quanto mai necessario. Eppure una scelta di questo tipo sarebbe ampiamente
motivata e rimetterebbe in campo un conflitto sociale positivo, sottraendo le
piazze alle baruffe chiozzotte dei no vax e simili, con l’inquietante presenza
delle frange più accanite dell’estrema destra.