Spesso i classicisti, specie i
grecisti e i latinisti, di fronte alla poesia contemporanea hanno un moto di
riprovazione dovuto ad una presunta superiorità della letteratura del passato
rispetto ai “balbettuzzi” pseudo sperimentali dei moderni, ed essi si astengono
dal giudizio dichiarandosi incompetenti in materia. In realtà, lungi da una
professione di modestia, la loro è una malcelata alterigia, derivante dal noblesse oblige della loro formazione classica,
dalla presunzione cioè di esser parte di una aristocrazia culturale dalla quale
i modernisti sarebbero esclusi. Ciò non capita solo in ambiti accademici e
scientifici, ma anche a livelli molto più bassi, quando uno che semplicemente
abbia frequentato il liceo classico si erga, a volte sfacciatamente, al di
sopra di chi abbia invece frequentato, per esempio, un istituto tecnico o
professionale, e lo guardi con sufficienza per il semplice fatto che egli non
possegga il latino e il greco. Certo, un simile sciovinismo può essere
fastidioso, davvero impossibile da sopportare anche per chi, come il
sottoscritto, abbia formazione classica. E tuttavia basta che un qualsiasi
lettore, pure fra i meno attrezzati, si metta a leggere qualche passo dei
classici greci e latini, perché subito venga colto, non dico dal dubbio che
quanto i classicisti i di cui sopra vanno sostenendo sia vero, ma dalla
consapevolezza che la letteratura del passato possa reggere degnamente il
confronto con quella moderna e contemporanea. Sol che si leggano i classici in
greco o latino, o almeno con testo a fronte, ci si accorge della loro bellezza
e della piacevolezza e dell’arricchimento interiore e, insomma, continuando a
leggere, alla fine scatta la dipendenza, e ci si ritrova senza volerlo a
ripetere a sé stessi l’abusato luogo comune: “i classici hanno detto già
tutto”.