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giovedì 18 novembre 2021

TEMPO E VITA
di Angelo Gaccione


C’è più tempo che vita recita un adagio popolare di incontrovertibile verità. Altrettanta radicata è la convinzione comune che molti dei nostri progetti rimarranno incompiuti. Marcel Proust ne era così consapevole che ha ingaggiato una spietata lotta contro il tempo per riuscire a portare a termine, prima che la morte giungesse, la stesura definitiva della Recherche. Si è quasi seppellito in casa saltando spesso i pasti. “Ha lasciato molti progetti incompiuti” ha detto la moglie di Philippe Daverio all’indomani della scomparsa del critico d’arte, ed è apparsa a noi tutti, questa frase, una banale evidenza. “Niuna cosa è più veloce che gli anni” ha scritto Leonardo da Vinci e se tempus fugit, come ci avverte la locuzione latina, non solo non c’è scampo, ma neppure consolazione. Noi contemporanei non riproduciamo più nei mosaici la dicitura memento mori come facevano gli antichi romani, né inseriamo teschi nei dipinti come avveniva con la pittura cristiana della Controriforma. Del resto in epoca di sfrenato edonismo, di esibita immortalità, di corpi manipolati dalla chirurgia estetica credendoli eterni ed immarcescibili, come lo è la nostra, chi oserebbe solo lontanamente immaginarsi una austera vita da trappista? Ci sono ottantenni che ricorrono al trapianto dei capelli, ignorando tuttavia, che saranno solo questi e qualche brandello di unghia a “sopravvivere”.



Ma abbandoniamo questo quadro macabro e torniamo al tempo. Non che non fossi a mia volta consapevole, come lo è la stragrande maggioranza degli uomini; lo vedo sul mio volto lo scorrere del tempo, e lo vedo su quello degli altri. Ma alcuni giorni fa, scendendo in Carboneria e leggendo la lettera di Petrarca all’amico Giovanni Anchiseo – che tengo appesa al muro debitamente incorniciata – ho dovuto riflettere sul fatto di avere accumulato anch’io come il poeta, una quantità esagerata di libri, con la fallace illusione di avere, in futuro, il tempo necessario per leggerli tutti. Non avevo fatto i conti con la clessidra; non li avevo fatti con la locuzione latina e tanto meno con la drammatica verità dei trappisti. Una sorte la mia che non risparmierà neppure loro, i libri, così fragili, così deperibili. Ne ho avuto la prova prendendo in mano il secondo volume dei Diari di Kafka, quello che va dal 1914 al 1923. Ingiallito, in parte bucherellato, friabile, esalante un tanfo acre che prende alla gola… mi sono ricordato di una cartolina che avevo comprato molti anni fa e che riproduce una preghiera araba ad Allah perché preservi i libri dalle tarme. Ero così sconfortato alla vista di quel libro che ho rinunciato a cercarla. Ho preferito non cercare neppure il primo dei volumi dei Diari, per non subire un’altra delusione. Non era allineato accanto all’altro, come avrebbe dovuto essere. Si dev’essere mimetizzato molto bene per evitare di darmi un ulteriore dolore. Ah, il tempo! La più effimera di tutte le cose, che rende tutte le cose effimere.