C’è più
tempo che vita recita un adagio popolare di incontrovertibile
verità.Altrettanta radicata è la convinzione comune
che molti dei nostri progetti rimarranno incompiuti. Marcel Proust ne era così
consapevole che ha ingaggiato una spietata lotta contro il tempo per riuscire a
portare a termine, prima che la morte giungesse, la stesura definitiva della Recherche.
Si è quasi seppellito in casa saltando spesso i pasti. “Ha lasciato molti
progetti incompiuti” ha detto la moglie di Philippe Daverio all’indomani della
scomparsa del critico d’arte, ed è apparsa a noi tutti, questa frase, una
banale evidenza. “Niuna cosa è più veloce che gli anni” ha scritto Leonardo da
Vinci e se tempus fugit, come ci avverte la locuzione latina, non solo
non c’è scampo, ma neppure consolazione. Noi contemporanei non riproduciamo più
nei mosaici la dicitura memento mori come facevano gli antichi romani,
né inseriamo teschi nei dipinti come avveniva con la pittura cristiana della
Controriforma. Del resto in epoca di sfrenato edonismo, di esibita immortalità,
di corpi manipolati dalla chirurgia estetica credendoli eterni ed
immarcescibili, come lo è la nostra, chi oserebbe solo lontanamente immaginarsi
una austera vita da trappista? Ci sono ottantenni che ricorrono al trapianto
dei capelli, ignorando tuttavia, che saranno solo questi e qualche brandello di
unghia a “sopravvivere”.
Ma abbandoniamo questo quadro macabro e torniamo al tempo. Non
che non fossi a mia volta consapevole, come lo è la stragrande maggioranza
degli uomini; lo vedo sul mio volto lo scorrere del tempo, e lo vedo su quello
degli altri. Ma alcuni giorni fa, scendendo in Carboneria e leggendo la lettera
di Petrarca all’amico Giovanni Anchiseo – che tengo appesa al muro debitamente
incorniciata – ho dovuto riflettere sul fatto di avere accumulato anch’io come
il poeta, una quantità esagerata di libri, con la fallace illusione di avere, in
futuro, il tempo necessario per leggerli tutti. Non avevo fatto i conti con la
clessidra; non li avevo fatti con la locuzione latina e tanto meno con la drammatica
verità dei trappisti. Una sorte la mia che non risparmierà neppure loro, i
libri, così fragili, così deperibili. Ne ho avuto la prova prendendo in mano il
secondo volume dei Diari di Kafka, quello che va dal 1914 al 1923. Ingiallito,
in parte bucherellato, friabile, esalante un tanfo acre che prende alla gola… mi
sono ricordato di una cartolina che avevo comprato molti anni fa e che
riproduce una preghiera araba ad Allah perché preservi i libri dalle tarme. Ero
così sconfortato alla vista di quel libro che ho rinunciato a cercarla. Ho
preferito non cercare neppure il primo dei volumi dei Diari, per non subire un’altra
delusione. Non era allineato accanto all’altro, come avrebbe dovuto essere. Si
dev’essere mimetizzato molto bene per evitare di darmi un ulteriore dolore. Ah,
il tempo! La più effimera di tutte le cose, che rende tutte le cose effimere.