Dopo la Conferenza stampa di fine anno del Presidente del
Consiglio si può ben dire che al fine il velo è caduto. Ma il re non è nudo.
Anzi vestitissimo, con un abito doubleface. Da un lato Presidente del Consiglio
in atto e Presidente della Repubblica in potenza. Dall’altro capo dello Stato
in divenire e capo del Governo a proseguire, naturalmente interposta persona, ma
solo per difetto di ubiquità. Di questo si tratta, al di là delle compiacenti
autoraffigurazioni - quasi un’icona natalizia - del nonno al servizio delle
istituzioni. Draghi non è parso affatto preoccupato del groviglio istituzionale
che comporta l’inedito passaggio diretto da Palazzo Chigi al Quirinale, che
affligge diversi commentatori. De minimis non curat praetor. Draghi sa bene che
la contesa del Colle si decide altrove rispetto alle sedi proprie del nostro
paese. Fin dal momento della sua designazione a Premier era chiaro che l’ex
presidente della Bce non era il “pilota automatico”, ma piuttosto l’ingegnere
che l’aveva progettato e costruito. Draghi non era solo chiamato a gestire il
flusso di denaro del Recovery Plan
sospinto a quel ruolo della Unione europea, ma la impersonava direttamente.
Così è stato in tutti i momenti topici della storia della globalizzazione
neoliberista e della Ue, lungo la quale Draghi ha ricoperto vari ruoli, a
seconda dei diversi momenti e delle molteplici esigenze, secondo una linea
dinamica, capace di interpretare e dirigere i cambiamenti e i momenti di svolta.
Fu così sul Britannia nel 1992 dove Draghi, nella veste di ministro del Tesoro
italiano, per ridurre il debito spalancò la porta rovinosa delle
privatizzazioni, ove l’Italia fu seconda solo all’Inghilterra della Thatcher.
Fu di nuovo protagonista, assieme a Trichet, nell’indicare al futuro governo
Monti il da farsi per scardinare lo stato sociale. Non ha perso l’occasione di
infierire sulla Grecia come presidente della Bce e sempre in quel ruolo di dare
vita con il celebre whatever it takes ad
una politica espansiva, in parziale contraddizione con il rigorismo affamatore
prima ampiamente applicato. Non c’è quindi da stupirsi se il suo futuro è
argomento di discussione quotidiano sulla stampa internazionale. Mentre Salvini
si appendevaal cellulare immaginandosi
il mazziere (nel senso di chi dà le carte) della partita del Quirinale, Bill
Emmot, che fu direttore dell’Economist dal
1993 al 2006, pigliava a schiaffi il suo ex settimanale dalle pagine del Financial Times, sostenendo che la collocazione,
non ideale ma reale, di Draghi era stretta tra lo stare “sei mesi con le mani
su un volante sempre più incontrollabile o sette anni a dirigere il traffico”,
non lasciando dubbi su quella che per lui era l’opzione migliore. Del resto,
proseguiva l’articolo di Emmot riguardo al nostro paese “di fronte a un
panorama politico sempre più frammentato, i presidenti hanno usato i poteri
conferiti dal ruolo in modo sempre più efficace. Gli ultimi due capi dello
Stato hanno agito in un modo paragonabile a un mix di presidenti non esecutivi
e di pontefici secolari”. Per l’autorevole opinionista, quindi, era già stata
tracciata la strada verso l’ibridazione tra la figura del Presidente della
Repubblica e quella del Presidente del Consiglio. Ma serve un salto in avanti.
Infatti ieri, sempre sul quotidiano finanziario inglese, compare un articolo a
doppia firma, Macron e Draghi, dedicato alla necessità – ovvia ai più – di
rivedere il patto europeo di stabilità a fronte di un debito cresciuto
enormemente e una “ripresa” da favorire. In questo quadro va inserita anche la
visita lampo del neocancelliere Olaf Scholz a Roma. Ma l’autorevolezza di
quest’ultimo, malgrado la vittoria elettorale, non è certo quella, o per i più
ottimisti non lo è ancora, di cui godeva la Merkel. Gli va data una mano, anche
per sottrarlo all’influenza nel neoministro delle finanze, il liberale Lindner
la cui appartenenza alla fazione dei “falchi” contrari a qualsiasi
ammorbidimento delle regole di Maastricht è fin troppo nota. Ma l’asse Macron-Draghi
acquisterebbe in credibilità se fosse meno asimmetrico rispetto ai ruoli e ai
poteri dei due protagonisti. Per questo l’ascesa al Colle di Draghi, mantenendo
una stretta supervisione sugli atti politici del governo, è già più che una
dichiarazione di disponibilità, quanto un semipresidenzialismo di fatto
incardinato nella nuova figura del Presidente della Repubblica. Ma tutto ciò è
contrario alla nostra Costituzione, la quale stabilisce che il capo dello Stato
“non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni,
tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione”. Solo che le
forze politiche non se ne curano. Pensano ad altro. La destra esprime
contrarietà perché si sente tagliata fuori dalla partita, il 5Stelle appare
afono e il Pd non fa resistenza. Anzi, stando a un virgolettato, seppure
anonimo, de ‘IlSole 24 Ore’ fa sapere che “il percorso di
Draghi verso il Colle e la successione a palazzo Chigi devono procedere
insieme”, lasciando guidare il governo da un presunto tecnico, come Marta Cartabia
o Daniele Franco. Mentre i 51 progetti del Pnrr elogiati come un compito
concluso da Draghi, sono in realtà deleghe al governo che verrà, ovvero tutti
da definire per essere operativi. A questo ci ha portato la maggioranza
extralarge: alla soglia della più grande e pericolosa controriforma
istituzionale del paese. Non è un destino baro, è una volontà politica cui ci
si dovrebbe ribellare. Il problema è che manca un soggetto politico a sinistra,
dotato di pensiero, di energia e di massa critica, per poterlo fare. Ed è alla
costruzione di quest’ultimo che ci si dovrebbe prioritariamente dedicare.