Pagine

martedì 14 dicembre 2021

LA VIA STRETTA DELLA PACE 
di Pierpaolo Calonaci    



 
“[…] e siccome lo stadio di maggior ricchezza della società conduce a questa sofferenza della maggioranza e l’economia politica (in generale la società fondata sull’interesse privato) conduce a questo stadio di maggiore ricchezza, bisogna concludere che l’infelicità della società è lo scopo dell’economia politica.
K. Marx, Manoscritti economico-filosofici
 
Una volta ai balconi c’erano appese le bandiere della pace. Era comunque, fra luci ed ombre, un indizio di qualcosa che si desiderava. Poi c’erano le manifestazioni oceaniche contro la guerra; e coloro che si opposero al servire la patria con le armi, e in un attimo fecero sì che l’obbedienza non fosse più una virtù. C’era il maestoso movimento di protesta che confluì a Genova e lì, sotto la violenza istituzionale, venne reciso. C’era una denuncia coraggiosa contro la chimera dell’arma e dell’energia atomica, una delle concause della militarizzazione globale della società. Cosa resta di tutta questa identità popolare? Di tutto quello che costituiva la mentalità con la quale non accettare un’organizzazione sociale fondata sull’ingiustizia? C’era innegabilmente un grido popolare davanti alla mancanza di pace che non era una richiesta (anche se spesso si presentava con la velleità di un mero diritto) ma un impegno quotidiano. Insomma, ci s’infervorava parecchio, nelle strade e nei luoghi privati, se ne discuteva, almeno un po’. Oggi la parola pace, come le parole giustizia sociale o compromesso capitale-lavoro sono state definitivamente assorbite dalla legge sociale dell’economia politica che è (non da oggi) un condensato organico di tecnocrazia amministrativa, di supremazia dell’economia finanziaria su quella reale (il pareggio di bilancio che cancella lo stato sociale e le conquiste del mondo del lavoro ne è l’emblema), ponendo l’interesse  privato del plutocrate come unico fine da realizzare, attraverso ogni tipo di guerra. 


Non è più la pace un sentire ideale (come all’inizio ho tratteggiato e che non era banalmente solo assenza di guerra), la pietra angolare su cui edificare una società più equa, la via stretta da attraversare agendo vicini (oggi è anche vietato, figuriamoci!) in modo costruttivo, facendo della rinuncia all’appropriazione il passaggio verso l’utopia di una giustizia sociale, capace, altresì, di creare quelle condizioni dove l’immaginazione e la creatività siano foriere di un presente e futuro davvero differenti. Fino ad un certo momento storico (la caduta del muro di Berlino segna questo spartiacque), la pace rimandava appunto a questo desiderio di società altra. Con l’entrata definitiva nel lessico partitocratico ed economicista, la pace è stata svilita e deformata da un sistema totalizzante di necessità geopolitiche affinché, legittimando gli interventi “umanitari”, l’esportazione della democrazia, le missioni di pace con le armi, venga trasferita poi sul piano individuale e quotidiano, come la normalità della negazione di ogni conflitto, di ogni dubbio, di ogni critica. Questa normalità totalizzante non le permette di instillare nei cuori la tensione a guardare oltre la grigia quotidianità o di riappropriasi di reali tempi di vita e di spensieratezza (verso i quali l’articolo di Gaccione, 'Tempo e vita', (“Odissea” 18 novembre 2021) ne stimava la perdita esistenziale). Quindi segna un’involuzione, l’instaurarsi di questo nuovo modello culturale e antropologico con cui si ribalta il significato autentico della Pace, consegnandola alla schiavitù della rassegnazione. Una sorta di metamorfosi che sta dentro a ciò che Pasolini denunciava del consumismo (una delle espressioni dell’economia politica), ben peggiore del fascismo. 


Il consumismo, infatti, creando bisogni artificiali senza fine e al contempo distruggendo i bisogni più reali riesce con enorme facilità e a costo zero (basta guardare alla coscienza di classe dei lavoratori) a trasformare anche la pace in una merce per il profitto della guerra e del mito della produzione “inarrestabile”. Come i lavoratori sono merce nella legge della domanda e dell’offerta, così anche la pace. Pasolini, dunque, ammoniva coloro (per estensione, i pacifisti) che assumono l’abito mentale della disobbedienza senza essere disobbedienti; un modo per tornare a obbedire senza saperlo[1]. Di fatto ciò significa restare dentro la mentalità individualista borghese dove i dominati si pensano e pensano secondo le categorie e le rappresentazioni costruite dai dominanti[2]. L’apparato borghese di produzione che, pur di funzionare e prosperare (attraverso la ciclicità dell’omologazione e delle sue retoriche “contro”), fagocita ogni tema rivoluzionario per legittimare la propria funzione dominante[3]. Un esempio palmare di come questo ordine sociale sia capace di sdoppiarsi e produrre altrettanta separazione e divisione negli atteggiamenti e nei linguaggi, anche politici, risiede nel costrutto sociologico di Pierre Bourdieu: l’interesse al disinteresse. La pace ha questo stemma, come ogni merce viene scambiata con questa caratteristica. Non contiene più quel sentire popolare di ricerca ingenua (di libertà autentica, come l’etimo richiama) verso forme di relazioni umanizzanti. Il discorso policromo sulla pace è stato colonizzato da questo sdoppiamento che si muove tra interessi privati, di partito ed egoistici, cristallizzando di fatto quel sentire omnicratico nel puerile grido delle cicale che De Andrè aveva cantato, neutralizzandone così la portata critica e l’agire culturale, il grido di giustizia, riducendo di fatto l’agire pacifico ad un agire interessato autoreferenziale. 


La Marcia della pace Perugia-Assisi testimonia questa involuzione che cancella, tra l’altro, quell’aspetto fisico, popolare, semplice che la pace invece suggellava. Ancora l’interpretazione della critica pasoliniana all’enorme dipinto di Picasso - la pace - ci aiuta a chiarire cosa essa sia diventata. Polemizzando contro l’impianto estetico con cui, da una parte presenta l’opera come un ideale di vita serena (che Pasolini ammira in quanto idillio di pace) dall’altra ne rifiuta l’ideologia idealistica che conduce Picasso a fare della sua rappresentazione della pace un allontanamento da quel sentimento popolare che è la chiave per comprendere l’inferno del reale[4]. Poiché “nel restare dentro l’inferno con marmorea volontà di capirlo, è da cercare la salvezza […]”. La pace è coscienza del dramma delle contraddizioni laceranti di una società classista e fallocentrica, consapevolezza in grado di toccare le cause del dominio; la pace rompe gli argini dei circoli viziosi dove si produce cultura, scienza e obbedienza (il cosiddetto sistema formativo della scuola e dell’università), mette sotto accusa l’ideologia della sicurezza e del nazionalismo (ancora prorompente), rifiuta quella panoplia di comodità e di accumulazione che la riducono a un mercimonio. È vero che la serrata e rigorosa critica sociale della filosofia di Simone Weil pose sotto accusa i pacifisti, poiché temevano la morte, ma altrettanto ne criticava, penso, quell’atteggiamento sdoppiato (borghese) che evita di esporci in virtù della sua ambiguità di fondo: con cui da un lato critichiamo le forme e le strutture delle leggi economiche e dall’altro, più o meno consapevolmente, collaboriamo con il loro funzionamento. La morte, per la mistica Weil, era soprattutto quella dell’anima; quando si aliena o viene alienata dal desiderio estetico, e politico, di Armonia da cui la Pace dovrebbe attingere. Quel desiderio estetico quale forma poetica che sovverte la tranquillità dell’ordine sociale e che al contempo fa operare la pars construens dell’azione pacifica.



Note
1. Cfr. G. Santato, Pier Paolo Pasolini. L’opera poetica, narrativa, cinematografica, teatrale e saggistica. Queste righe e le seguenti si rifanno abbondantemente a questo poderoso e magistrale lavoro di ricostruzione critica dell’opera del poeta italiano.
2. Cfr. P. Bourdieu
3. Cfr. W. Benjamin, L’autore come produttore.
4. Cfr. G. Santato, ibid.