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domenica 12 dicembre 2021

Libri
NEL TREMORE DEGLI ANNI    
di Massimo Silvotti          

La copertina del libro

 
 
Opalescente questo di libro di poesie di Filippo Ravizza. Dal nebbiaio di una raminga memoria, di ramo in ramo, cercare sponda nelle parole eco, manchevoli poiché intangibili, ma pur sempre presenze. In Luzi non vi è calma né ansia, soltanto cristiana accettazione dell’immobilità del mutamento. In Ravizza la rassegnazione al contrario è vibrante, ed è come se il poeta vivesse, chissà, una inconsapevole dicotomia, tra approccio filosofico di cui è intriso e fanciullesca tensione da cui è pervaso. E più l’incedere del tempo, il palesarsi del nulla, intridono di fuliggine la vita, tanto più dalla stessa affiorano tenacissime carezze, come singole note in controcanto, a rimescolare i vissuti.  Una danza di passi vuoti e pieni, ricolmi di silenziosa umanità e laico mistero. Sta in questa dialettica tra opposti apparenti, la peculiare preziosità della poesia di Nel tremore degli anni. Ventinove liriche composte tra il 2018 e il 2020 che segnano un’ulteriore rendez-vous del poeta con la tematica del tempo, già presente in quasi tutte le opere precedenti: Prigionieri del tempo (LietoColle, 2005), Nel secolo fragile (La vita felice, 2014) e La coscienza del tempo (La vita felice, 2017). Eppure nella fissità tematica, leggo uno scarto, una fuoruscita decisiva dall’hegeliano porsi in relazione alla Storia, in senso fenomenologico. Ravizza parrebbe distogliere lo sguardo da una plausibile sintesi, la sua poesia, questa volta, è autentico e coraggioso abbandono. Molto correttamente Giuliana Nuvoli, nella postfazione del libro, ha voluto sottolineare le affinità con Leopardi che azzarderei a definire di natura affettiva, per la qualità della acquisizione che Ravizza ha desunto dal recanatese. Non la mestizia o l’invidia del pastore errante, non la lungimiranza della ginestra, semmai la struggente presa d’atto, e al contempo sublime arrendevolezza, del tramonto della luna. La poesia, molto probabilmente, non concerne la semina, né tantomeno il raccolto, ma smuove, dissoda, disseca la vanità dell’uomo (il maschile è voluto) e predispone, invece, al fragile abbraccio della vita. In conclusione, questo libro di Ravizza, che per riecheggiamenti ritmici e sonorità è perfettamente riconducibile all’alveo poetico dell’autore, nel retrogusto della parola, mostra di sé tutt’altra salinatura rispetto ai lavori precedenti, si riscontra un disabbigliarsi poetico che giunge al cuore dell’avventura umana.
 
 
Pagine, pagine vuote là
lì nella parabola bianca
dei fogli girati e poi alzati
nel fiero computo del vento.


[Tratto da Nella Parabola bianca]