Opalescente
questo di libro di poesie di Filippo Ravizza. Dal nebbiaio di una raminga
memoria, di ramo in ramo, cercare sponda nelle parole eco, manchevoli poiché intangibili,ma pur sempre presenze. In Luzi non vi
è calma né ansia, soltanto cristiana
accettazione dell’immobilità del
mutamento. In Ravizza la rassegnazione al contrario è vibrante, ed è come
se il poeta vivesse, chissà, una inconsapevole dicotomia, tra approccio
filosofico di cui è intriso e fanciullesca tensione da cui è pervaso. E più l’incedere
del tempo, il palesarsi del nulla, intridono di fuliggine la vita, tanto
più dalla stessa affioranotenacissime carezze, come singole note in
controcanto, a rimescolare i vissuti.Una
danza di passi vuoti e pieni, ricolmi di silenziosa umanità e laico mistero. Sta
in questa dialettica tra opposti apparenti, la peculiare preziosità della
poesia di Nel tremore degli anni.
Ventinove liriche composte tra il 2018 e il 2020 che segnano un’ulteriore rendez-vous
del poeta con la tematica del tempo, già presente in quasi tutte le opere
precedenti: Prigionieri del tempo
(LietoColle, 2005), Nel secolo fragile
(La vita felice, 2014) e La coscienza del
tempo (La vita felice, 2017). Eppure nella fissità tematica, leggo uno
scarto, una fuoruscita decisiva dall’hegeliano porsi in relazione alla Storia,
in senso fenomenologico. Ravizza parrebbe distogliere lo sguardo da una
plausibile sintesi, la sua poesia, questa volta, è autentico e coraggioso abbandono.
Molto correttamente Giuliana Nuvoli, nella postfazione del libro, ha voluto sottolineare
le affinità con Leopardi che azzarderei a definire di natura affettiva, per la
qualità della acquisizione che Ravizza ha desunto dal recanatese. Non la
mestizia o l’invidia del pastore errante,
non la lungimiranza della ginestra,
semmai la struggente presa d’atto, e al contempo sublime arrendevolezza, del tramonto della luna. La poesia, molto probabilmente,
non concerne la semina, né tantomeno il raccolto, ma smuove, dissoda, disseca
la vanità dell’uomo (il maschile è voluto) e predispone, invece, al fragile
abbraccio della vita. In conclusione, questo libro di Ravizza, che per riecheggiamenti
ritmici e sonorità è perfettamente riconducibile all’alveo poetico dell’autore,
nel retrogusto della parola, mostra di sé tutt’altra salinatura rispetto ai
lavori precedenti, si riscontra un disabbigliarsi poetico che giunge al cuore dell’avventura
umana. Pagine, pagine vuote là lì nella parabola bianca dei fogli girati e poi
alzati nel fiero computo del
vento.