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martedì 7 dicembre 2021

SPIGOLATURE
di Angelo Gaccione

Massimo Arrigoni
(foto di Daniele Ferroni)
 
Teatro da camera
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Ci eravamo persi di vista da un lungo arco di tempo, con Massimo Arrigoni, e improvvisamente una telefonata e un libro (Teatro da camera e altri poemi, La Vita Felice ed. 2021) mi ricordano che da quella esperienza sono passati più di trent’anni. Si tratta di quella che allora fu considerata una vera e propria sfida all’editoria italiana: obbligare gli scrittori a mettersi alla prova inviando i loro dattiloscritti ad un notaio in forma anonima o con uno pseudonimo, sarebbe stato il solo a conoscerne la vera identità. Il notaio avrebbe consegnato i lavori alla Redazione che li avrebbe distribuiti in lettura ad un comitato altrettanto anonimo per verificarne la qualità. I dattiloscritti meritevoli sarebbero stati pubblicati con lo pseudonimo suggerito al notaio dall’autore che avrebbe stipulato con lui il contratto, e solo dopo tre anni la Casa editrice (Gitti Editore in una prima fase, e poi Gitti Europa) avrebbe rivelato alla stampa il nome vero. In questo modo, tale era l’intento di Giovanni Tritto e del gruppo di letterati che ne appoggiò l’idea, il nome non avrebbe avuto alcuna influenza sul comitato di lettura e si sarebbero pubblicati libri senza pressioni e senza condizionamenti di sorta. A questa idea aderirono numerosi e notissimi autori italiani, ma molti anche gli stranieri: Josif Brodskij, Lawrence Ferlinghetti, Guattari, Volponi, Sanguineti, Fernanda Pivano, Sanesi, Roversi, Consolo, Finzi, Spinella…


La copertina del libro

Centinaia aderirono attivamente all’idea, centinaia e centinaia sottoscrissero l’appello. Attratto da tutte le cause perse aderii anch’io e ne divenni anzi uno dei più attivi lavorando concretamente nella Redazione. Non ero affatto convinto che autori celebri (a meno che non avessero preso la cosa con uno spirito giocoso e con profonda serietà) si sarebbero sottoposti a questa rigida condizione. In fondo il nome funziona per le vendite e stuzzica la vanità di chi scrive. Io ero più interessato a qualche buon dattiloscritto che avremmo potuto intercettare noi, dal momento che le grandi Case non riuscivano a tener dietro a quanto ricevevano ogni giorno. Eravamo agli inizi degli anni Novanta, come mi ricorda Massimo Arrigoni, che in qualità di attore (ho memoria di una sua Orgia pasoliniana al Teatro ì e di altre sue performance che all’epoca devo aver recensito) accompagnava le presentazioni di un libro come In pienezza di cuore con le sue intense e coinvolgenti letture nei luoghi più diversi e a volte assolutamente non canonici: cortili, case private, cascine, istituti carcerari, gallerie d’arte, palazzi storici, librerie, fiere della piccola editoria, come quella al Castello di Belgioioso in provincia di Pavia. Arrigoni si innamorò del romanzo di Michele Malesaputo (alter ego di Mimmo Cervellino) e dopo averlo letto, urlato e recitato per anni, ha raccolto ora la sua personale “partitura” in questo libro di 88 pagine arricchendolo di testi poetici di vari autori che ben si prestano alla verbigerante sonorità e alla vocalità surrealista della parola in libertà, tanto cara a lui stesso ed agli amici del bimestrale “Harta” come Luigi Bianco e Adriano Accattino. Arrigoni, del resto, era un collaboratore assiduo di questa rivista che annoverava il meglio dei performer di casa nostra. Il romanzo di Cervellino ebbe un’ottima accoglienza da parte della critica migliore che salutò il libro con entusiasmo. Arrigoni ricostruisce quel tempo e quel clima e ci dà alcune necessarie suggestioni del “suo” teatro da camera, della poesia sonora, delle molteplici contaminazioni, del “dispotismo” dell’attore totale. Ma a me riconduce il senso della nostalgia e della sottrazione perché molte di quelle persone non ci sono più. Ci sono state sottratte troppo presto e prematuramente.