FABBISOGNO ENERGETICO
E SVILUPPO TECNOLOGICO
di
Romano Rinaldi
Uno
sguardo al presente e al futuro
L’eccezionale
aumento delle tariffe energetiche domestiche ed industriali che sta per
abbattersi sull’economia italiana deve indurre qualche riflessione che non ci
ha contraddistinto nei decenni passati quando, per semplificazione populista, hanno
prevalso convinzioni o illusioni con scarse fondamenta tecniche, economiche o
pratiche.
Come
spesso avviene con le innovazioni tecnologiche, siano questi dispositivi a
larga diffusione, farmaci, vaccini, alimenti, minerali, materiali sintetici,
ecc., si attivano immediatamente le due correnti di favorevoli e contrari.
Questi ultimi, di solito più agguerriti anche se spesso in minoranza, sono in
grado di alimentare dubbi e convinzioni in coloro che altrimenti non avrebbero
opinioni in merito, riguardo possibili danni alla salute o all’ambiente. In
questo può certamente esserci qualcosa di vero ma il più delle volte c’è
abbondante mitologia o leggenda metropolitana di cui qualcuno si avvantaggia,
anche solo per guadagnare popolarità ma la popolazione in generale finisce
spesso per farne inopinatamente le spese.
Prendiamo
il telefono cellulare; quanti anatemi su onde e campi elettromagnetici si sono
consumati finché ci siamo accorti che l’uso in vivavoce (e video) oppure con
gli auricolari, ha fatto sparire il mal di testa a tutti? A chi viene più
qualche sospetto di pericolosità, ora che la psicosi è passata?
Ognuno
può trovare simili argomenti per innumerevoli altri esempi. Anche sull’uso
dell’automobile ci sarebbe molto da dire quanto a pericolosità, basta andare a
vedere i costi sociali in termini di morti e feriti in incidenti stradali. In
questo campo però c’è l’assicurazione obbligatoria e questo ci conforta con le
sue prerogative di “economia circolare”! Tuttavia, anche in questo caso la
ricerca e la tecnologia hanno fornito e stanno fornendo continue risposte alla
domanda di sicurezza. Ormai tutti abbiamo imparato persino la distinzione tra
dispositivi di sicurezza attiva e passiva, basti pensare al grado di sicurezza raggiunto
nelle competizioni di F1 rispetto al passato. A questo proposito, ricordo
ancora il rottame della vettura di Giovanni Bracco dopo l’incidente che causò
la morte di 5 spettatori sul viale di fronte casa mia nel Gran Premio di
Modena. Il volante era l’unica cosa riconoscibile, issato in alto dal piantone
dello sterzo come l’asta di una bandiera sopra un ammasso informe di ferri e
lamiere. Una vera icona della pericolosità di quelle corse. Oggi, tra cinture,
air-bag, rimandi cardanici dello sterzo, ecc., non c’è più motivo per ritenere
il posto dietro al volante come il più pericoloso in caso d’incidente.
In
tempi di cambiamento climatico, al quale la componente antropica sembra
contribuire in modo rilevante, con l’emissione di enormi quantità di inquinanti
aerodispersi e la famigerata anidride carbonica (CO2), risultato inevitabile
delle combustioni che forniscono l’energia necessaria al “metabolismo” del
genere umano, si apre il grande interrogativo su come poter ottenere tanta
energia senza dover ricorrere, in modo così preponderante, ai combustibili
fossili (carbone, petrolio, gas naturale). Di questo si sta attivamente occupando,
con cadenze ravvicinate, la Conferenza COP delle Nazioni Unite, la cui ultima
edizione si è svolta a Glasgow nel dicembre scorso e di cui ho recentemente
scritto su Odissea*
Quando
si parla di fonti energetiche alternative e rinnovabili, tutti pensiamo al sole,
al vento e poco altro. Queste fonti corrispondono del resto, agli impianti più
diffusi, di evidente impatto visivo sul territorio e di cui molti si sono
persino dotati in proprio. Rimangono tuttavia delle lacune, per ora
insormontabili, a queste due fonti di energia “pulita”. Senza voler entrare nel
merito dei materiali necessari per la produzione di questi dispositivi, le
risorse naturali dai quali provengono e il loro eventuale riciclo, entrambe le
sorgenti (sole e vento) devono essere presenti quando abbiamo bisogno di energia
e questo è un limite notevole, nel breve-medio periodo. Finché non disporremo
di tecnologie di stoccaggio dell’energia prodotta da queste fonti per il
consumo di notte e in assenza di vento. È inoltre altrettanto vero che, fatti
due conti e con le attuali tecnologie, la produzione di energia da queste due
fonti può soddisfare il fabbisogno energetico solo in piccola percentuale,
ottimisticamente nell’ordine del 15-20% al massimo. Tuttavia, anche in questo
campo dobbiamo considerare recenti sviluppi, del resto in continuo divenire,
grazie ad ulteriori ricerche di materiali e metodi che rendano lo sfruttamento
di queste sorgenti energetiche sempre più economicamente ed ecologicamente
compatibili.
C’è
poi un’altra tradizionale modalità di produzione dell’energia elettrica, che ha
visto l’Italia tra i migliori al mondo già dall’inizio del secolo scorso: il
sistema idroelettrico, con (o senza) i relativi invasi di raccolta dell’acqua. Grazie
alla diffusa orografia del nostro territorio, questo genere di produzione
elettrica ha raggiunto nel tempo ragguardevoli proporzioni, con oltre 4300
impianti, assicurando una notevole frazione del fabbisogno nazionale di energia
elettrica (oltre il 20%). Questo è un eccellente metodo, pulito e rinnovabile al
100% e che non soffre per le alternanze notte-giorno o presenza e assenza di
vento. Può tuttavia subire qualche conseguenza a seguito dei cambiamenti
climatici e relative modifiche dei regimi pluviali. Rimane però una modalità
sulla quale l’Italia, grazie all’esperienza più che centenaria in materia e
alla naturale configurazione geografica, con catene montuose che percorrono in
lunghezza tutta la penisola e le isole, dovrebbe valorizzare e sviluppare costantemente,
prima ancora di rincorrere mode o novità in termini di produzione energetica.
Un
aspetto meno comprensibile è il continuo adeguamento del prezzo dell’energia
elettrica prodotta dalle centrali idroelettriche, così come da altre fonti
rinnovabili, a quello del costo di produzione tramite combustibili che seguono
le bizze del mercato degli idrocarburi sul quale l’Italia non ha alcun
controllo. Eppure gli enti erogatori vantano una produzione da fonti
rinnovabili di oltre il 40%. Varrebbe veramente la pena cercare di risolvere
questo mistero.
Fermi con McMillan Como, 1949 |
È dunque chiaro da queste premesse che il ricorso a fonti alternative e rinnovabili di energia deve essere visto in una prospettiva molto più ampia e che comprenda tanti aspetti, incluse le regole di mercato. Per quanto riguarda le fonti e le metodologie di sfruttamento, una buona prospettiva si affaccia anche col miglioramento delle tecnologie dell’idrogeno prodotto per idrolisi (scissione della molecola d’acqua, H2O nei due componenti, idrogeno e ossigeno) mediante elettricità da fonti rinnovabili e stoccato in forma gassosa o liquida per l’uso diretto come combustibile oppure nelle batterie (celle a combustibile) per la restituzione dell’energia elettrica in eccesso di quella usata per produrlo. Le prime applicazioni di questa tecnologia si sono già affacciate con l’aggiunta di idrogeno al gas naturale (metano) per ridurne l’emissione di CO2 da impianti di climatizzazione, per ora in due aeroporti del nord Italia. Ma siamo solo agli inizi della produzione dell’idrogeno per idrolisi dell’acqua piuttosto che da idrocarburi.
Rimanendo
nel campo della produzione autoctona di combustibili, un’altra fonte energetica
consiste nello sfruttamento delle biomasse e della raccolta differenziata degli
scarti urbani per la produzione di gas o l’uso diretto in impianti
termovalorizzatori collegati a generatori di elettricità. Ma qui non si tratta
di impatto zero sull’ambiente, anche se tecnologicamente mitigabile.
Un
altro campo molto interessante, in cui sono necessari progressi tecnologici e
culturali per promuoverne lo sfruttamento e l’enorme potenzialità, è quello
geotermico. Anche in questo campo l’Italia vanta un primato assoluto con lo
sfruttamento fino da tempi remoti delle moltissime zone termali della penisola
dove già in epoca romana (e forse prima) le abitazioni godevano di “calidarium”
e per i meno abbienti c’era un diffuso ricorso ad impianti termali pubblici.
Luoghi adibiti a scopi terapeutici e di socializzazione. Oggigiorno sono ancora
troppo pochi gli impianti di sfruttamento di questa notevole mole di energia
naturale di cui è ricchissimo il nostro Paese. Se da una parte dobbiamo
convivere con il pericolo vulcanico, almeno sfruttiamo le manifestazioni del
cosiddetto tardo vulcanismo, che non rappresentano alcun pericolo e possono
viceversa rappresentare fonti inesauribili (entro parecchi millenni) di energia
pulita e costante nel tempo. Gli impianti presenti a Larderello, per lo
sfruttamento di un campo geotermico assolutamente eccezionale ne hanno fatto,
storicamente, un esempio per il mondo intero e molto simile a quanto è oggigiorno
considerato normale in Islanda. Tuttavia, la geotermia è molto più diffusa di
quanto si pensi normalmente facendo riferimento solo alle manifestazioni
esterne di tali fenomeni. In effetti, uno studente del primo anno in Geologia sa
già cosa significa il termine “gradiente geotermico” e qual è la sua entità
media a seconda del tipo di terreni considerati. Si tratta dell’incremento di
temperatura che si incontra scendendo in profondità a partire dalla superficie
del suolo. Questo gradiente può chiaramente variare e le aree termali e i campi
geotermici rappresentano anomalie positive a volte molto rilevanti. Tuttavia,
pur considerando la posizione fortunata della nostra penisola per i suddetti
motivi, il gradiente geotermico può essere sfruttato anche capillarmente sul
territorio, operando trivellazioni anche di poco conto, nell’ordine del
centinaio di metri per raggiungere una zona dalla quale “attingere” calore da
utilizzare per esempio per il riscaldamento domestico attraverso la ormai
consolidata tecnologia delle pompe di calore.
Le
medesime considerazioni, portate su larga scala, potrebbero portare allo
sviluppo di una “cultura energetica” basata su un paradigma completamente
differente dall’attuale. Nel sottosuolo, infatti, oltre ai depositi energetici
rappresentati dagli accumuli fossili (carbone, petrolio, gas naturale), esiste
su tutto il pianeta la fonte geotermica che, se sfruttata adeguatamente,
potrebbe sopperire a tutta la necessità energetica dell’umanità. Chiaramente,
anche per questo sfruttamento c’è bisogno di tecnologie che necessitano di
ulteriore sviluppo ma non si tratta di fantascienza, basta volerlo.
È
chiaro che questa pur breve ma articolata esposizione sulle fonti energetiche e
i problemi ambientali creati dallo sfruttamento delle riserve fossili, non può
eludere il problema dello sfruttamento dell’energia nucleare per la produzione
di elettricità. Il discorso in questo caso si complica notevolmente per via
dell’argomento trattato in premessa, cioè della demonizzazione che ne è stata
fatta, soprattutto in conseguenza degli incidenti che si sono purtroppo
verificati e che hanno avuto un fortissimo impatto emotivo, sull’onda del quale
sono state prese decisioni a carattere permanente e irrevocabile. Volendo
esaminare i fatti nel modo il più obiettivo possibile, dobbiamo inquadrare la
pericolosità degli impianti nell’ambito della tecnologia del tempo e dobbiamo
pur ammettere che l’unico incidente che ha rappresentato un grave inconveniente
negli ultimi 60 anni di esercizio di tutte le centrali nucleari nel mondo, è
stato quello di Chernobyl. Con una incredibile e praticamente impossibile
sequenza di errori da parte del personale addetto, tale da indurre a un totale
ripensamento, non solo nella gestione delle centrali esistenti (e in alcuni
casi la dismissione) ma soprattutto nella progettazione di nuovi impianti sulla
base del principio della intrinseca sicurezza. Quest’ultimo aspetto non ha goduto,
nel nostro Paese, di sufficiente attenzione, sia per l’avversione aprioristica
che suscita l’argomento, sia per l’effettiva carenza scientifica e tecnica che
ormai caratterizza il nostro paese in questo campo.
Segre, Pontecorvo, Amaldi
Como, 1949
Senza voler polemizzare in
alcun modo, si tratta in pratica di un ennesimo esempio di sviluppo tecnologico
che ha visto i nostri tecnici e scienziati al primo posto nel mondo all’inizio,
e poi abbandonare per un motivo o per l’altro il primato e tornare mestamente
al ruolo di paese gregario in attività di cui siamo stati i fondatori e
precursori. Lo stesso è avvenuto nel campo della chimica dei polimeri, nelle
telecomunicazioni, nel radar, nella microelettronica, nel personal computer,
ecc., ecc., tanti altri esempi può ricordare chiunque ponga mente alla
questione.
Tornando
allo sfruttamento dell’energia nucleare per la produzione di energia elettrica,
proprio la settimana scorsa un reattore di nuova generazione e tecnologia
europea (EPR) è stato avviato in Finlandia. In realtà il termine corretto
sarebbe “ha raggiunto il livello critico”. Questa terminologia potrebbe
apparire pre-catastrofica all’orecchio di un profano ma si tratta semplicemente
del termine usato per indicare l’innesco della reazione a catena che produce l’energia
termica che viene a sua volta trasformata in energia elettrica attraverso i
medesimi dispositivi delle centrali convenzionali (turbine, dinamo, ecc.).
Purtroppo in Italia, l’ostracismo ricevuto dal nucleare per scopi pacifici, per
un verso non ha avuto alcuna efficacia per liberarci dagli ordigni a testata
atomica presenti sul nostro territorio, dall’altro ha contribuito a soffocare
la ricerca e lo studio del nucleare per scopi energetici con l’abolizione di
quasi tutti i corsi di laurea in ingegneria nucleare e la relativa ricerca
pubblica e privata. Il risultato è ahimè, quello di una arretratezza culturale
che ci mette ora in condizioni di sudditanza tecnologica con relativi costi e
mancanza di benefici nello sviluppo di nuove tecnologie che promettono, in
prospettiva, la sicurezza intrinseca e il superamento del problema delle
scorie.
Como, 1949