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giovedì 27 gennaio 2022

FILOSOFI
di Silvana Borutti


Aristotele
 
Techne e antropologia
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Nella nostra forma di vita dominata dalla tecnica, si possono lasciare da parte per un breve spazio di riflessione le diagnosi sul destino e sull’essenza di un’epoca, anche se hanno certamente un grande valore filosofico? Si può parlare di tecnica in modo non apocalittico? In questa prospettiva, una riflessione preliminare dovrebbe essere di carattere antropologico.
Erano di tipo antropologico le definizioni che Aristotele dava della techne: un concetto non assimilabile alla nostra idea e alla realtà attuale della tecnica, e tuttavia da tenere presente.
Nel Libro VI dell’Etica Nicomachea (1139 b 15) Aristotele dice che la techne, insieme a scienza, saggezza, sapienza e intelletto, è una delle «forme con cui l’anima è nel vero», e dà questa definizione: «techne è “la produzione [poiesis], e il cercare con l’abilità e la teoria come possa prodursi qualcuna delle cose che possono sia esserci sia non esserci e di cui il principio è in chi crea e non in ciò che è creato» (1140 a 12 – b 15). La tecnica è dunque produzione del possibile; è estensione di quello che l’uomo è per natura, è artificio che supplisce la natura; e va aggiunto che per Aristotele, e per il pensiero antico in generale, questa estensione che supplisce la natura creando oggetti possibili avviene secondo il modello della natura. Scrive Aristotele nella Fisica: «se la casa facesse parte dei prodotti naturali, sarebbe generata con le stesse caratteristiche con le quali è ora prodotta dall’arte» (II, 8, 199 a 12.). Aristotele intende che la tecnica dell’uomo che costruisce una casa è come l’operare della natura, se in essa nascessero case – poiché, come dice nella Politica (VII, 17, 1337 a 1), arte ed educazione intendono supplire le manchevolezze della natura. Tecnica dunque come supplenza che ha per modello la natura.



La concezione antropologica moderna della tecnica conserva il tema aristotelico della supplenza della natura umana, ma cerca di dire, e di capire, un altro aspetto: la tecnica, cioè tutte le forme di protesi, supplemento, artefatto, hanno a che fare con l’evoluzione dell’essenza dell’uomo; le tecniche agiscono infatti come risorse adattative, e intervengono così a mutare lo stesso essere dell’uomo nel suo cammino evolutivo. Di fatto, le tecniche mutano la percezione di noi stessi e della realtà in cui siamo immersi.
Il filosofo Pietro Montani, che studia da alcuni anni la questione della creatività tecnica e il rapporto tra tecnica, sensibilità e immaginazione (rinvio a Tre forme di creatività: tecnica, arte, politica, Cronopio 2017), distingue più interpretazioni del rapporto dell’essere umano con gli artefatti. Scrive che si può interpretare la tecnica come un modo di correggere o integrare le carenze, o i difetti, del nostro corpo, e quindi potenziare la nostra azione adattativa; oppure la si può interpretare come esonero, come modo di delegare alcune attività corporali ad artefatti. Montani individua un altro aspetto più interessante: «la tecnica come empowerment del soggetto umano, vale a dire come realizzazione di una singolare unità di organico e inorganico, capace di scoprire se stessa, e le sue potenzialità, solo nel corso di un’effettiva attività» (su questo ambito tematico, rinvio al n. 4, 2020 della rivista Agalma, dedicato a “Figure dell’inorganico”).



Un esempio straordinario di tecnica come potenziamento ed estensione dell’esperienza umana è la scrittura, che ha cambiato la nostra storia perché ha esteriorizzato in un supporto tecnico la memoria, rendendo possibile la memoria storica e culturale, che va al di là della memoria biologica e individuale.
Un altro esempio semplice ma molto efficace, studiato da Lambros Malafouris in un saggio del 2013 intitolato significativamente How Things shape the Mind (Come le cose modellano la mente), è l’esempio del cieco col bastone. Il cieco col bastone è un vero e proprio insieme di “pensiero-sensibilità-azione”. Il bastone per il cieco non è semplice strumento, non è un semplice oggetto inorganico. Cito in proposito un passo del filosofo Merleau-Ponty:



 
“Per il cieco, il suo bastone ha cessato di essere un oggetto, non è più percepito per se stesso, mentre la sua estremità si è trasformata in zona sensibile: il bastone aumenta l’ampiezza e il raggio d’azione del tatto, è divenuto l’analogo di uno sguardo. Nella esplorazione degli oggetti, la lunghezza di tale bastone non interviene espressamente e come termine medio: il cieco la conosce [la lunghezza] attraverso la posizione degli oggetti più di quanto conosca quest’ultima [la posizione] attraverso di essa. La posizione degli oggetti è data immediatamente dall’ampiezza del gesto che la raggiunge e nella quale è compreso, oltre alla potenza di estensione del braccio, il raggio d’azione del bastone” (Maurice Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Bompiani 2003, p. 198)

 
Nel caso del cieco, chiediamoci, dove finisce il sé e inizia il resto del mondo? Il bastone non è più solo strumento, è un inorganico non vivente che viene propriamente incorporato nel vivente, è una tecnica che diventa potenziamento del soggetto umano. Allargando la prospettiva, è
in questo senso che diventa importante pensare come l’evoluzione tecnologica possa investire la nostra stessa evoluzione biologica.