Techne
e antropologia. Nella nostra forma di vita
dominata dalla tecnica, si possono lasciare da parte per un breve spazio di
riflessione le diagnosi sul destino e sull’essenza di un’epoca, anche se hanno
certamente un grande valore filosofico? Si può parlare di tecnica in modo non
apocalittico? In questa prospettiva, una riflessione preliminare dovrebbe
essere di carattere antropologico. Erano di tipo antropologico le definizioni che
Aristotele dava della techne: un
concetto non assimilabile alla nostra idea e alla realtà attuale della tecnica,
e tuttavia da tenere presente. Nel Libro VI dell’Etica
Nicomachea (1139
b 15) Aristotele dice che la techne,
insieme a scienza, saggezza, sapienza e intelletto, è una delle «forme con cui
l’anima è nel vero», e dà questa definizione: «techne è “la produzione [poiesis], e il cercare con l’abilità
e la teoria come possa prodursi qualcuna delle cose che possono sia esserci sia
non esserci e di cui il principio è in chi crea e non in ciò che è creato»
(1140 a 12 – b 15). La tecnica è dunque produzione
del possibile; è estensione di quello che l’uomo è per natura, è artificio che supplisce la
natura; e va aggiunto che per Aristotele, e per il pensiero antico in generale,
questa estensione che supplisce la natura creando oggetti possibili avviene secondo il modello della natura.
Scrive Aristotele nella Fisica: «se la casa facesse parte
dei prodotti naturali, sarebbe generata con le stesse caratteristiche con le
quali è ora prodotta dall’arte» (II, 8, 199 a 12.). Aristotele intende che la
tecnica dell’uomo che costruisce una casa è come l’operare della natura, se in
essa nascessero case – poiché, come dice nella Politica (VII, 17, 1337 a 1), arte ed educazione intendono supplire
le manchevolezze della natura. Tecnica dunque come supplenza che ha per modello la natura.
La
concezione antropologica moderna della tecnica conserva il tema aristotelico
della supplenza della natura umana, ma cerca di dire, e di capire, un altro
aspetto: la tecnica, cioè tutte le forme di protesi, supplemento, artefatto,
hanno a che fare con l’evoluzione dell’essenza dell’uomo; le tecniche agiscono
infatti come risorse adattative, e intervengono così a mutare lo stesso essere
dell’uomo nel suo cammino evolutivo. Di fatto, le tecniche mutano la percezione
di noi stessi e della realtà in cui siamo immersi. Il
filosofo Pietro Montani, che studia da alcuni anni la questione della
creatività tecnica e il rapporto tra tecnica, sensibilità e immaginazione
(rinvio a Tre forme di creatività:
tecnica, arte, politica, Cronopio 2017), distingue più interpretazioni del
rapporto dell’essere umano con gli artefatti. Scrive che si può interpretare la
tecnica come un modo di correggere o integrare le carenze, o i difetti, del
nostro corpo, e quindi potenziare la nostra azione adattativa; oppure la si può
interpretare come esonero, come modo di delegare alcune attività corporali ad
artefatti. Montani individua un altro aspetto più interessante: «la tecnica come empowerment del soggetto umano, vale a
dire come realizzazione di una singolare unità di organico e inorganico, capace
di scoprire se stessa, e le sue potenzialità, solo nel corso di un’effettiva
attività» (su questo ambito tematico, rinvio al n. 4, 2020 della rivista Agalma, dedicato a “Figure
dell’inorganico”).
Un
esempio straordinario di tecnica come potenziamento ed estensione
dell’esperienza umana è la scrittura,
che ha cambiato la nostra storia perché ha esteriorizzato in un supporto tecnico la memoria,
rendendo possibile la memoria storica e culturale, che va al di là della
memoria biologica e individuale. Un
altro esempio semplice ma molto efficace, studiato da Lambros Malafouris in un
saggio del 2013 intitolato significativamente How Things shape the Mind (Come le cose modellano la mente),
è l’esempio del cieco col bastone. Il
cieco col bastone è un vero e proprio insieme di “pensiero-sensibilità-azione”.
Il bastone per il cieco non è semplice strumento, non è un semplice oggetto
inorganico. Cito in proposito un passo del filosofo Merleau-Ponty:
“Per
il cieco, il suo bastone ha cessato di essere un oggetto, non è più percepito
per se stesso, mentre la sua estremità si è trasformata in zona sensibile: il
bastone aumenta l’ampiezza e il raggio d’azione del tatto, è divenuto l’analogo
di uno sguardo. Nella esplorazione degli oggetti, la lunghezza di tale bastone
non interviene espressamente e come termine medio: il cieco la conosce [la
lunghezza] attraverso la posizione degli oggetti più di quanto conosca
quest’ultima [la posizione] attraverso di essa. La posizione degli oggetti è
data immediatamente dall’ampiezza del gesto che la raggiunge e nella quale è compreso,
oltre alla potenza di estensione del braccio, il raggio d’azione del bastone” (Maurice
Merleau-Ponty, Fenomenologia della
percezione, Bompiani 2003, p. 198)
Nel
caso del cieco, chiediamoci, dove finisce il sé e inizia il resto del mondo? Il
bastone non è più solo strumento, è un inorganico non vivente che viene
propriamente incorporato nel vivente, è una tecnica che diventa potenziamento
del soggetto umano. Allargando la prospettiva, è in questo senso che
diventa importante pensare come l’evoluzione tecnologica possa investire la
nostra stessa evoluzione biologica.