Presidenzialismo versus proporzionale. Le
votazioni per l’elezione del Presidente della Repubblica hanno lasciato persone
e cose al loro posto. Tutto si è giocato attorno alla coppia Mattarella-Draghi
e alla fine l’uno resta Presidente della Repubblica – si suppone per l’intero
settennato – l’altro Presidente del Consiglio, probabilmente fino alla normale
fine della legislatura. Ma sotto questo immobilismo nei ruoli apicali delle
istituzioni, si verificano sommovimenti notevoli, quasi tellurici. Le
coalizioni sono scombussolate; il ruolo dei partiti è apparso inesistente;
mentre al loro interno si profilano lotte accanite, i loro leader sembrano come
storditi in alcuni casi o palesano un’evidente incapacità in altri (e sono
tutti puniti negli inevitabili sondaggi). Il Movimento 5 stelle viene
addirittura decapitato e il suo Statuto cancellato da un tribunale civile, quello
di Napoli – ed è la prima volta che si registra un intervento così pesante
della Magistratura nella vita dei partiti –, accentuando le lotte interne che
potrebbero prefigurare una scissione. Il Parlamento, per la seconda volta
consecutiva nella storia della Repubblica, ha mostrato la sua incapacità di
scegliere una nuova figura da far salire al Colle, disattendendo il monito che
Giorgio Napolitano espresse nel discorso del suo reinsediamento nell’aprile del
2013, per cui “la non rielezione, al termine del settennato, è l’alternativa
che meglio si conforma al nostro modello costituzionale di Presidente della
Repubblica”. Il tema della non rielezione era già stato autorevolmente
affrontato da Carlo Azeglio Ciampi, quando, il 3 maggio del 2006, rese pubblica
una nota con la quale respingeva le proposte che erano emerse per un suo
secondo mandato, facendo riferimento non solo a ragioni di carattere soggettivo
– “l’età avanzata” – ma anche, se non soprattutto, a motivi di carattere
oggettivo, riassumibili nella frase finale della sua dichiarazione: “il rinnovo
di un mandato lungo, quale è quello settennale, mal si confà alle
caratteristiche proprie della forma repubblicana del nostro Stato”. Il cenno
alla salvaguardia della forma repubblicana dello stato italiano non è di poco
conto, per chi la vuole cogliere, poiché sottintende che il raddoppio
dell’estensione temporale dell’incarico presidenziale richiama una condizione
di “democratura” come si sarebbe detto più tardi.
Mattarella ha invece
completamente glissato sulla questione. Tacendo, tranne che per l’accenno agli
intimi travagli, ha di fatto derubricato una condizione eccezionale in
un’acquisita normalità. E stupisce, francamente, che questo elemento non sia
stato colto che da una minoranza di costituzionalisti e di commentatori
politici, quasi si trattasse di una semplice diversità caratteriale fra un
altezzoso Napolitano, che prende a schiaffi il Parlamento, e un benevolente e
paterno Mattarella, che invece lo prende per mano allo scopo di ricondurlo sulla
giusta strada. Naturalmente la rielezione di Mattarella non può dirsi
illegittima dal punto di vista costituzionale, come non lo era stata quella di
Napolitano, che quest’ultimo definì appunto “pienamente legittima, ma
eccezionale”. Vi è chi sostiene che la predisposizione del cosiddetto semestre
bianco, sarebbe di per sé una barriera sufficiente contro la rieleggibilità.
Indubbiamente la parziale sospensione dei poteri del capo dello Stato negli
ultimi mesi del suo settennato serve anche per evitare che egli possa operare
per favorire la costituzione di un Parlamento a lui più favorevole. Chi oggi
propone di introdurre legislativamente il divieto alla rielezione, infatti,
prevede conseguentemente anche l’abolizione del “semestre bianco”. Tuttavia un semplice sguardo ai lavori dell’Assemblea
costituente chiarisce che la non immissione nel testo costituzionale della non
rieleggibilità del Presidente della Repubblica non fu casuale, ma avvenne al
termine di un articolato dibattito. Nei verbali dei lavori preparatori che poi
portarono alla formulazione dell’attuale testo dell’articolo 85 della nostra
Costituzione, si può leggere che il relatore Egidio Tosato, democristiano,
“avverte che questo è un punto che è stato lungamente dibattuto e vi sono al
riguardo pareri discordanti (…) Ritiene che non sia opportuno escludere la
possibilità della rielezione, soprattutto data la situazione politica attuale
di penuria di uomini politici, dopo venti anni di carenza di vita politica.” “Penuria di uomini politici”
che si è ripresentata, per cause ovviamente diverse, a settant’anni di
distanza. Infatti, la maggioranza nei voti fino all’ottavo scrutinio, quello
decisivo, è appartenuta alle schede bianche e alle astensioni. I nomi sono
stati arrischiati solo dal centrodestra, ove è emersa in particolare
l’imperizia di Salvini, e si è consumato il floppersino imbarazzante della
seconda carica dello Stato. Il centrosinistra ha fatto surplace, dimostrando
certamente maggiore furbizia, ma denunciando anche una incapacità di proposta e
una rinuncia a esprimere una candidatura che potesse essere rappresentativa del
proprio schieramento, e al contempo capace di conquistare in base alla propria
autorevolezza consensi anche in parti del campo per così dire opposto.
Francamente mi sembra difficile attribuire i 759 voti ottenuti da Mattarella
all’ottavo scrutinio come il risultato di un lavoro da talpe effettuato
dai peones in silente ma attiva ribellione all’ordine dei loro
capi. Più che il “ruggito dei tanto di sprezzati peones” ha
contato la convinzione diffusa che qualunque scelta che avesse rimosso Draghi
dalla Presidenza del Consiglio, vuoi la sua andata al Colle come una soluzione
che provocasse una spaccatura irrimediabile nella compagine governativa,
avrebbe prodotto inevitabilmente la fine anticipata della legislatura con
prospettive ridottissime per molti di tornare a fare parte di un numero ben più
ristretto di parlamentari. Per lo stesso motivo, alcuni esperti giornalisti
parlamentari hanno sostenuto che Draghi non ha mai avuto i numeri per riuscire
vincente. Bisogna dire, per onestà, aiutati dal “senno del poi”, che si è forse
interpretata con qualche forzatura la famosa conferenza stampa di Draghi “nonno
delle istituzioni” come una decisa autocandidatura, mentre invece era più semplicemente
una dichiarazione di disponibilità per l’uno o per l’altro ruolo. D’altro canto le preferenze espresse senza risparmio
dagli organi di stampa internazionali, specialmente quelli economici, hanno
oscillato tra un Draghi Presidente della Repubblica e un Draghi in continuità
con il suo ruolo di Presidente del Consiglio. Purché Draghi ci fosse e
continuasse a rappresentare da protagonista, da ingegnere inventore del “pilota
automatico” e non da semplice driver di emergenza, i desiderata della
Unione europea, per la semplice ragione che un insuccesso di Next
Generation Eu nel nostro paese, maggiore beneficiario dei fondi
europei, avrebbe significato la sconfitta della politica monetaria espansiva e
una vittoria invece dei “paesi frugali” e delle varie forze e posizioni che
predicano il ritorno all’austerity. Per di più alla vigilia della
discussione sulle modifiche o meno da apportare al rientrante piano di
stabilità e crescita.
La faccenda è ulteriormente
complicata, nel caso italiano, dalla collocazione nel corso del programma
di Next Generation Eu, che va realizzato tra il 2021 e il 2026,
delle elezioni politiche siano esse anticipate o a scadenza naturale,
diversamente che in altri paesi come la Germania e la Francia. Vale la pena di
ricordare che i piani di ripresa e resilienza sono articolati in riforme (milestones)
e obiettivi (targets) che formano uno scadenziario da rispettare.
Infatti il pagamento dei fondi è condizionato alla effettiva realizzazione di
questi traguardi così come previsto nel Pnrr. Ogni Stato membro della Ue ha
firmato un Operational Arrangement (Oa) con la
Commissione europea in cui sono stati definiti i tempi delle varie scadenze.
L’Italia lo ha firmato il 23 dicembre scorso. Vi è una fase iniziale che
comprende i primi tre semestri, quindi dal luglio 2021 al dicembre 2022, dove
devono venire assolti gli impegni di carattere prevalentemente legislativo e
regolatorio, cui segue una fase successiva, tra il 2023 e il 2026, dove si
passa alla operatività, quindi alla implementazione delle riforme e alla
realizzazione degli investimenti indispensabili per raggiungere gli obiettivi
fissati. In questo preciso senso il Pnrr è una gabbia che va ben al di là di
questa legislatura e condiziona pesantemente la successiva. È vero che la
possibilità di rivedere i piani esiste, ma deve essere comunque sottoposta a decisione
in sede europea da assumere con maggioranze qualificate. Si capisce quindi che
la continuità del sistema, e finanche delle personalità fisiche che ne occupano
i posti apicali, diventa un obiettivo desiderato e perseguito nel contesto Ue. Così abbiamo assistito, in un primo momento a uno scontro
fra i due maggiori organi di stampa, a livello non solo europeo, nel campo
della finanza e dell’economia, quali l’Economist e il Financial
Times su quale ruolo avrebbe dovuto interpretare Mario Draghi. Dimostrando
che i kingmakers nella vicenda dell’elezione al Colle erano
non solo fuori dall’aula di Montecitorio, ma dai confini del nostro paese. Mentre Salvini si appendeva al cellulare immaginandosi il
mazziere (nel senso di chi dà le carte) della partita del Quirinale, Bill
Emmot, che fu direttore dell’Economist dal 1993 al 2006, a fine
dicembre pigliava a schiaffi il suo ex settimanale dalle pagine del Financial
Times, sostenendo che la collocazione, non ideale ma reale, di Draghi era
stretta tra lo stare «sei mesi con le mani su un volante sempre più
incontrollabile o sette anni a dirigere il traffico», non lasciando dubbi su
quella che per lui fosse l’opzione migliore. Del resto, proseguiva
l’articolo di Emmot riguardo al nostro paese «di fronte a un panorama politico
sempre più frammentato, i presidenti hanno usato i poteri conferiti dal ruolo
in modo sempre più efficace. Gli ultimi due capi dello Stato hanno agito in un
modo paragonabile a un mix di presidenti non esecutivi e di pontefici
secolari». Per l’autorevole opinionista, quindi, era già stata tracciata la
strada verso l’ibridazione tra la figura del Presidente della Repubblica e
quella del Presidente del Consiglio. Di nuovo sul Financial Times del 20
gennaio 2022 si poteva leggere, in un editoriale dell’Editorial board del
quotidiano, che “il peggiore risultato sarebbero le elezioni anticipate che
farebbero deragliare il piano di riforma e ripresa dell’Italia. In queste
circostanze è meglio avere Draghi alla presidenza” perché così “potrebbe usare i
suoi considerevoli poteri e la sua moral suasion” per
mantenere l’Italia sulla retta via delle riforme previste nel Pnrr. Per
il FT quindi il presidenzialismo è già praticamente in atto.
Al FT si aggiunge nella stessa giornata il New York
Times, che schierandosi per Draghi al Colle, con l’articolo del suo
corrispondente dall’Italia Jason Horowitz, raggiunge toni enfatici di
involontaria comicità, affermando che “l’influenza di Draghi potrebbe allungare
un età d’oro di inusuale unità politica”. Pochi giorni dopo, sempre sul quotidiano finanziario
inglese, compare un articolo a doppia firma, Macron e Draghi, dedicato alla necessità –
ovvia ai più – di rivedere il patto europeo di stabilità a fronte di un debito
cresciuto enormemente e una “ripresa” da favorire. In questo quadro va inserita
anche la visita lampo del neocancelliere Olaf Scholz a Roma. Ma l’autorevolezza
di quest’ultimo, malgrado la vittoria elettorale, non è certo quella di cui
godeva la Merkel. Quindi gli andrebbe data una mano, anche per sottrarlo
all’influenza nel neoministro delle finanze, il liberale Christian Lindner la
cui appartenenza alla fazione dei “falchi” contrari a qualsiasi ammorbidimento
delle regole di Maastricht è fin troppo nota. Ma l’asse Macron-Draghi
acquisterebbe in credibilità se fosse meno asimmetrico rispetto ai ruoli e ai
poteri dei due protagonisti. Anche da qui è giunta la spinta verso un’ascesa al
Colle di Draghi che avrebbe incarnato un semipresidenzialismo di fatto
incardinato nella nuova figura del Presidente della Repubblica. Ma nemmeno al finanzcapitalismo tutte le ciambelle
riescono con il buco. Fosse andata così saremmo già oggi di fronte a un
ulteriore balzo in avanti nello scivolamento dell’Italia verso un regime
“presidenziale preterintenzionale”, come lo ha definito Massimo Giannini in un
suo editoriale. Draghi al Colle avrebbe comportato o l’impossibilità di
mantenere in vita il governo – e la probabilmente insormontabile difficoltà di
farne uno con una diversa composizione senza un passaggio elettorale – oppure
la scelta di un Presidente del Consiglio che fosse un avatar del
nuovo capo dello Stato. Come giustamente sostiene Francesco Pallante, se fosse
prevalso uno scenario del genere “sarebbe forse più appropriato definirlo
iperpresidenzialismo, dal momento che nessun contropotere verrebbe, a quel
punto, a configurarsi come bilanciamento all’iperpotere quirinalizio”.
Se dunque la presenza di
Mattarella nel ruolo di Presidente, pur con tutte le considerazioni fin qui
fatte sui pericoli insiti della reiterazione di un secondo mandato, ha
allontanato per ora questo balzo verso il presidenzialismo, le sue sirene non
hanno certo abbassato la voce, confortate anche dai sondaggi condotti da Ilvo
Diamanti per la Repubblica, come quello del 23 dicembre scorso che
riportava come favorevoli alla elezione diretta del Presidente il 74% degli
intervistati. Fratelli d’Italia, oltre ad avere depositato già due anni fa una
proposta di legge di revisione costituzionale per introdurre l’elezione diretta
del Presidente, l’ha ribadita in queste ore e l’ha accompagnata anche da una
raccolta di firme. “Se fossero stati gli italiani a eleggere il PdR – ha
scritto in un tweet Giorgia Meloni –lo avrebbero fatto in un giorno”. Va certamente dato atto al presidente Mattarella di avere
sottolineato nel suo discorso che “una riflessione si propone anche sul
funzionamento della nostra democrazia, a tutti i livelli (…) Vanno tenute unite
due esigenze irrinunziabili: rispetto dei percorsi di garanzia democratica e,
insieme, tempestività nelle decisioni. Per questo è cruciale il ruolo del
Parlamento, come luogo della partecipazione”. Un passaggio che ha ricevuto uno
dei 52 applausi, ma che non ci salva da un pericolo ormai iscritto nell’ordine
delle cose possibili. Del resto la personalizzazione della politica è uno degli
aspetti della sua crisi. E ha radici abbastanza lontane. Basti pensare alla
figura del sindaco eletto in prima o in seconda battuta, in quest’ultimo caso
sempre con una minoranza di cittadini votanti, o alla figura del Presidente
della giunta regionale, fregiato del nome del tutto improprio di governatore
per meglio imprimere nell’immaginario collettivo la centralità monocratica del
suo ruolo. Tuttavia il quadro che si viene definendo non contiene
elementi solo negativi. L’evidente sgretolamento delle coalizioni ha imposto un
ripensamento sulla legge elettorale vigente. Con l’eccezione della destra
estrema di opposizione, nelle forze interne al “perimetro Draghi” si sono
susseguite le dichiarazioni e i propositi di abbandonare le logiche
maggioritarie e puntare alla definizione di una legge elettorale di tipo
proporzionale. È bene non cadere in facili ottimismi, ma almeno cercare di
infilare un piede nell’uscio che si è dischiuso. L’ipotesi prevalente è di
tornare al cosiddetto Brescellum (dal nome del deputato
proponente Giuseppe Brescia del M5S)o Germanicum che dir si
voglia, la cui discussione era cominciato in Commissione nel gennaio del 2020 e
subito insabbiata.
Ma anche se il Parlamento
imboccasse questa strada gli ostacoli da superare non sono pochi. Gli esponenti
del Pd in particolare insistono per mantenere lo sbarramento previsto in quella
proposta di legge al 5%. È evidente, soprattutto con un Parlamento ridotto di
un terzo dei suoi componenti, che l’asticella sarebbe troppo alta e potrebbe
essere scavalcata solo da poche forze. Resta anche il problema delle liste
bloccate, solo parzialmente affrontato dai precedenti pronunciamenti della
Corte costituzionale, su cui le dirigenze dei partiti non sembrano volere
mollare, e quindi il diritto di scelta sugli eletti da parte degli elettori
sarebbe ancora una volta eluso o gravemente limitato. Nello stesso tempo sta
riprendendo quota l’apprezzamento per il sistema francese del doppio turno. Vi
insiste il costituzionalista di riferimento del Pd Stefano Ceccanti,
preoccupato che “la giusta discussione sulla riforma elettorale crei altre
scosse al governo” e quindi incline a cercare “un punto di equilibrio che dia
più flessibilità rispetto ai collegi uninominali maggioritari, ma senza
rinunciare a proporre maggioranze di governo agli elettori”. È quindi necessario rovesciare il primato della
governabilità rispetto alla rappresentanza, scegliendo un sistema elettorale
non in base alle preoccupazioni su chi vince o chi perde – calcoli rivelatisi
sbagliati in più di un’occasione – ma sulla necessità che la rappresentanza
parlamentare esprima al meglio possibile le opzioni politiche e le volontà che
animano la società. Dopo tanti anni di contorsioni maggioritarie e di
diminuzione costante della partecipazione al voto, ritornare al proporzionale è
una questione determinante per rianimare la nostra democrazia. Non basta certo una buona legge elettorale, bisogna
affrontare il pessimo stato di salute e del ruolo dei partiti, dei corpi
intermedi, delle forme di partecipazione diffusa. Nonché dell’assenza di una
forza di sinistra dotata di un chiaro profilo e di una adeguata massa critica. Quanto è accaduto al M5S non può essere liquidato con una
battuta sul fatto che la formazione più giustizialista, come in una legge del
contrappasso, viene colpita proprio dalla magistratura. La vicenda invita a
riflettere sullo stato della democrazia interna alle formazioni politiche, ai
modi di votazione con cui gli iscritti fanno valere la loro opinione, alla
negatività delle forme di “democrazia immediata” che passano attraverso un clic
sul mouse del computer. Si pone quindi, purtroppo in un quadro
deteriorato, il tema non nuovo di dare piena implementazione all’articolo 49
della Costituzione.